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Il pallottoliere celeste di Maria Luisa Spaziani

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Infiammare la memoria, condensare acquerelli e bozzetti, esplorare il diaframma del pianto, come se dovessero essere consegne esclusive ed elusive di un tempo donato e promesso, senza abbrutimento o cesure.

È così, Pallottoliere celeste[1], di Maria Luisa Spaziani (1922-2014), edito da Mondadori, rilascia il suo ultimo e finale segmento di amore. Ma non è un rilascio filamentoso di tenebra, è piuttosto una consegna, precaria e misteriosa, di un tempo fecondo, di una ardimentosa e materica fibra di amore in atto: «Io sono la polena che qualcuno ha salvato / dalla demolizione di un veliero. / Aquila su scialba insegna d’osteria, / non fisso più orizzonti né tempeste. / Tu che passi sforzati di credere / allo slancio delle mie ali spiegate. / Ai fianchi dello scafo convergono gli oceani. / A me, immobile, i cieli reggono il volo».

La consegna memoriale di Maria Luisa Spaziani è un lacerto rappreso e unico di sfilacciate asperità e brandelli di cielo inazzurrato e naufrago:

«Gli anni si accavallano a riccioli di spuma / e a intermittenti ondate nere. / Mi divide dal mare una spiaggia che cresce / nel cuore della notte e mi ributta / relitti di naufragi. / Bel museo in disordine. Gli oggetti / non sono compatibili. Fra i libri / della mia adolescenza vigoreggiano / i balocchi dei figli, ed a brandelli / sfilacciati il mio abito da sposa. / Non si riposa il mare. E mi pretende / vigile a contemplare quanto resta / sul campo di battaglia. In prospettiva / si inazzurra il passato. E benedico / i miei e altrui peccati».

La tenerezza è rilasciata come «sopra i roseti esausti la rugiada», attraverso la luna che sboccia nel buio, per inventare l’amore nelle assenze, nelle stanze di altrove negato, ma dove l’amore stesso incarna il tempo in altra forma e tre musiche dal silenzio, in un fondale di bellezza, gioia e giovinezza: «Vorrei sentire la tua mano fresca / sulla fronte che brucia. Così scende / sopra i roseti esausti la rugiada. / Così sboccia la luna nel buio. / Aiutami ad amarti, ad inventarti / nelle tue assenze. La mia fantasia / è comunque un tuo dono, un chiaro alibi / in questo mondo senza altrove».

I ricongiungimenti, le promesse, l’afasia dei contorni, le lucentezze radenti infiammano il protagonista vero di questo libro: il limite, o meglio, la fine del limite. Che poi è il confine impercettibile e sostanziale di un sogno e di un rimpianto di leggerezza e dove resta, come sparpagliata e resiliente, l’Anima della poesia: «è una piantina sacra il capelvenere, / lo dice la parola, e dolcemente / scioglie il vento le chiome della dea / nate fra le macerie al primo sole. / Le capre non lo brucano e non sanno / certo il perché. Ne colsi un giorno un esile / rametto per tenerlo a segnalibro. / Non riesce a incanutire».

Roberto Galaverni scrive:

«[…] Il rapporto di reciprocità tra un massimo di personalizzazione (il riferimento a una storia privata concreta e documentabile) e un massimo di estraniazione (l’oggettivazione dell’io attraverso varie maschere o appunto personaggi) costituisce l’asse fondamentale e più durevole di questa poesia. […] Pallottoliere celeste è un libro eterogeneo, che raccoglie poesie d’occasione scritte come in punta di penna, con disinvoltura e abilità anche consumata, ma tuttavia senza alcuna noncuranza. La scrittrice sa bene di trovarsi sul limite estremo dei propri giorni, come su una spiaggia che separa la vita da ciò che la vita non è. E com’è capitato anche ad altri, mette a frutto poeticamente questa sua posizione. Anzitutto giocandoci, come un gatto col proprio gomitolo […]».[2]

Le vitali aperture di Maria Luisa Spaziani, dal mistero di un fiore a ciò che rompe (e erompe) ogni diga, diviene una liturgia di dettagli che scontorna favole supreme, slanci e semi a venire e dove la ferita urla il suo colore.

Nei perimetri di Roma, trafugata e piena, e, poi, Torino che modellava la mente-bambina («Il ponte della Gran Madre – così mi è apparso in sogno – / è il grande anello nuziale fra origine e fine»), nei giochi col tempo, vive la sua figura eroica ed agente, come scrisse Luigi Baldacci, ed emerge il suo germoglio di graniglia:

«Qui comincia – o dovrebbe cominciare – / una pianura nuova, mezza grano e mezza neve, / e quel pezzo più in ombra che mi è dato / fra grano e neve, germoglio e decadenza. / Le duemila poesie che ho scritto / sono graniglia di vasto fiume. / Scruta, setaccia, filtra la memoria. / Raccoglie sabbia d’oro. / Sono figlia di duemila poesie, / le nutrivo e mi nutrono, le celesti mammelle. / Parlo al mondo e a me stessa, il fiume incorpora / grandi parole altrui tra vangeli e corani. / Siamo rimasti pochi al mondo. Romba / ovunque quel fragore insostenibile. / Ridateci il deserto. A questo portano / millenni per combattere il deserto».

Il suo pallottoliere, dunque, segna le ore vissute, le mette in fila, così come quelle ancora in credito. È il suono dell’ora, la vertigine di ogni possibilità, la cifra di un segnale umano, destinato ai visceri dell’anima, al mistero del tempo che travolge ogni distanza, ai messaggi della giovinezza, alle sabbie sfilacciate di radici e, infine, all’ultimità: «Sento che il tempo passa di ora in ora. / Maturazione progressiva, oppure / pallottoliere cosmico che segna / le ore vissute e quelle ancora in credito. / Ogni singola ora emette un suono / che un orecchio attentissimo decifra: / carillon, andantino, aria nuziale, / dissonanze, allegretto, galop, requiem».

Sembra quasi che in questi testi vibri la sentenza, il taglio, la lacerata frenesia del tempo raccolto («Gentilmente la vita ti avverte / che qualche volta non sarà domenica, / che forse un giorno il rosario dei giorni / sarà feriale senza remissione»), la voragine dei cieli e l’amore lasciato nei biglietti.

La sua giostra del tempo invita alle radici, riporta indizi di madre nella memoria del fuoco, annullando ogni morte, «Da invisibili crepe il tuo spirito filtra / su di me in ginocchio ai tuoi piedi. / Io sono la tua terra irraggiungibile. / Tu il mio unico cielo», e poi scoperchia la colonna sonora di agosto che scompare nel folto, che avverte l’indicibile della deriva e che diventa vuoto sacrale, fino all’addio: «Lo spirito del fieno impregna l’anima. / L’addio dell’estate. Si raccolgono / le rondini sui fili e sulle antenne, / anomali migranti verso l’Africa. / Le nuvole non più rosa si scaglionano / a isterici plotoni nel vento che le opprime. / Già si arrende il roseto e batte ai vetri / con raffiche di petali e di spine».

La poesia, allora, diventa una navata trascendente e metafisica che trasfonde il gesto e la parola in una memoria calda e umbratile, allo stesso tempo, tendendo, però a chiarificare anche le tenebre, attraverso l’illuminata condensazione di immagine, senza alienazioni, ma come un fuoco dipinto che sguaina sentenze, richiama splendori, riporta il trapasso del passato e del non-presente in una finestra limpida, per cui, come affermò Mario Luzi, «la puntualità dell’occasione cede sempre più spesso e più risolutamente il passo all’autorità della visione[3]»: «Da tempo immemorabile non piango. / Dicono le statistiche scienziate / che ogni donna emette lungo un anno / tre decilitri in lacrime. È sicuro. / Chi ha pianto la mia parte? Mi dispiace. / C’era del buono, a ripensarci. Penso / al piacere perduto, nostalgia / del tempo in cui sopra il deserto piove».

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Spaziani M.L., Il pallottoliere celeste, Mondadori, Milano 2019, pp. 103, Euro 20.

 

Spaziani M.L.., Il pallottoliere celeste, Mondadori, Milano 2019.

Galaverni R., La donna chiede chi piange il suo pianto, in “Corriere della Sera – La Lettura”, 30 giugno 2019.

Luzi M., 1977, da POESIE, Antologia a cura di Luigi Baldacci, Mondadori, Milano 1979.

 

[1] Spaziani M.L.., Il pallottoliere celeste, Mondadori, Milano 2019.

[2] Galaverni R., La donna chiede chi piange il suo pianto, in “Corriere della Sera – La Lettura”, 30 giugno 2019.

[3] Luzi M., 1977, da POESIE, Antologia a cura di Luigi Baldacci, Mondadori, Milano 1979.

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