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Il raccolto a mano aperta di Edna St.Vincent Millay

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La poesia di Edna St.Vincent Millay (1892-1950), affina e unisce l’intensità spirituale con una raffinatezza intellettuale, sfuggendo a ogni catalogazione possibile e imperversando, in modo netto e denso, in una prominenza semplice, accorata e intensa, come sostenne Richard Wilbur.

Donna affascinante e colta, nacque a Rockland nel Maine, in una famiglia anticonformista. Sua madre Cora fu un’infermiera, decisiva per la sua ”iniziazione” letteraria (era solita leggerle Milton  mentre il padre Henry Tollman Millay, insegnante e poi sovrintendente, abitarono «tra le montagne e il mare, dove cesti di mele e erbe essiccate sul portico mescolavano i loro profumi con quelli delle pinete limitrofe». Prese il cognome St.Vincent, in onore dell’ospedale St.Vincent di New York, dove la vita di sua zia fu tratta in salvo prima della sua nascita.

Dopo il divorzio dei genitori e la conseguente indigenza, si trasferì con la madre e i fratelli a Camden, sempre nel Maine. Qui Edna sviluppò il suo talento letterario, collaborando al magazine della scuola, The Megunticock oppure, successivamente, al Camden Herald.

Dopo la laurea al Vassar College si trasferì al Grenwich Village a New York. Il critico Floyd Dell sul “New York Times” scrisse che la Millay era «una giovane donna frivola, con un nuovo paio di scarpette da ballo e la bocca come un biglietto d’amore di san Valentino».

Nonostante la povertà di quegli anni, che celebrarono il jazz di Fitzgerald e Hemingway, Edna, dichiaratamente bisessuale, si attorniò di amici scrittori, critici e poeti come Witter Bynner, Arthur diviso Ficke oppure di Edmund Wilson, il quale aveva inutilmente cercato di portarla all’altare.

Dopo l’intenso e controverso Qualche fico dai cardi (1920) che esplorò la sua materia affettiva, vinse il premio Pulitzer per la poesia nel 1923, terza donna ad aggiudicarsi il premio dopo Sara Teasdale e Margaret Widdemer.

Il viaggio a Parigi e il matrimonio con Eugen Jan Boissevan, sembrarono assestare un colpo stabile alla indipendenza affettiva, nonostante sfocerà poi nello sperduto amore per il poeta George Dillon, di Edna, specie quando con suo marito acquistarono una splendida tenuta (Steepletop) vicino Austerlitz, New York. L’impegno poetico e politico, nel pianto per i morti di Lidice o lo sforzo alleato durante la seconda guerra mondiale fino alla questione degli anarchici Sacco e Vanzetti, non furono avulsi da critiche di uomini politici e alcuni intellettuali.

Dopo aver vinto il Frost Medal per la poesia, perse suo marito dopo una lunga malattia e continuò a vivere da sola, tra morfina e alcool, per il resto dei suoi giorni, nella tenuta di Austerlitz, morendo di infarto, a soli 58 anni, il 19 ottobre del 1950.

Inseguire la poesia di Edna significa raccogliere la sua mano luminosa e aperta, sfumare la fecondazione del gesto poetico che traluce nel contrasto, attraverso la spontanea voce del suo verso libero e della sua fucina oracolare.

Il successo di pubblico delle sue raccolte iniziali, dove l’uso dell’incandescenza espressiva delle strutture metriche tradizionali «above the mist», al di là della bruma, si accompagna all’abbandono dello sperimentalismo, persegue una esplorazione di voli, sì di gusto romantico, ma precipuamente singolare, realistica, prosaica.

Il suo sentimento trasparente, se da un lato sembra accogliere l’istantaneo biglietto della sua tensione, dall’altro profuma l’aria di immediatezza spregiudicata, come l’erma bifronte della sua tensione. Il tratto distintivo e originario della sua poesia trova rifugio e riparo solo nella lirica della sua sensibilità bozzettistica di amabile tessitrice.

L’ironia e, per certi versi, la satira sostanziano la sua intima natura, come l’intima natura di una lotta interiore e di uno spasmo silenzioso e acuto: l’agone in atto tra l’indipendenza spirituale di una donna e il suo ruolo nella società rappresentano il culmine di una inquietudine sottile e volubile.

La radicale innocenza rappresenta l’anticonformismo della sua intelligenza, che non si affranca mai nel mito e non tenta soluzioni sbrigative alla matassa dei luoghi comuni: «Non puoi blandirmi più con il rossore / di piccole foglie tenaci. / Io so quello che so».

Scrive Silvio Raffo: «Nonostante gli isolati slanci di afflato lirico autenticamente malinconici e l’innegabile fascinazione del «mixing memory and desire», anche l’amore è vissuto in questa prospettiva di disincanto, di spietata lucidità; con esisti di rovesciamento rispetto alla codificazione classica vistosamente attestabili nelle formule paradigmatiche-in-negativo di certi capoversi («L’amore non è cieco…», «L’amore non è tutto…») o in imprevedibili virate e agghiaccianti smentite della sublimità o della tenerezza iniziali».

La prospettiva di Edna, fatta di apostrofi e esclamazioni, inversioni, abbassamenti di tono, elisioni, personificazioni dell’amore o della morte o della bellezza, si amplia di metafore e simboli profondi, come la coscienza femminista o la significativa potenza della vibrazione del sorriso amaro e della svagatezza, molto vicina a Dorothy Parker. Il suo immaginario si intesse di ambivalenza, come annota ancora Silvio Raffo: «gli oggetti del credo si mantengono degni di fede (mai di venerazione), i sentimenti palpitano vivi e ancor più vibranti, ma l’infinita vanità del tutto è sentita, e quasi amata, con pari intensità; il «bacio umiliante della tenebra» è presagito come qualcosa di più violento, e anche più autorevole, dei voluttuosi ardori del corpo».

I chiarori di Edna coinvolgono il panorama della leggerezza trasognata e della chiarezza, in un ornamento di battito che accompagna dolore, libertà esistenziale, gemito filosofico e iter speculativo: «L’Amore a mano aperta, questo solo, / senza diademi, chiaro, inoffensivo: / come se ti portassi in un cappello / primule smosse, o mele nella gonna, / e ti chiamassi al modo dei bambini: / “Guarda che cos’ho qui! – Tutto per te “». L’amore portato come mele raccolte in una gonna, spontaneamente e umilmente, ha la chiarezza naturale dei fanciulli. Una visione, che sin dall’inizio, non si apparta nel sentimentalismo tenero, ma al contrario, richiama alla rinascita rigogliosa, perché il suo «scoglio scavo» indietreggia e ristagna, come una candela che brucia da entrambe le estremità.

La sua estremità di respiro è una frattura inquieta, una ferita che si mitiga solo nella dolcezza spontanea, ma che nel segreto misterioso del tempo provoca liberazione e estinzione, vicine e all’unisono. Edna porge la sua persona senza cesure, con l’autenticità di un frammento smosso di una relazione, ora spirituale e fisica, ora familiare e intima: «Non è tutto l’amore: non cibo non acqua / non sonno né tetto contro la pioggia; / nemmeno un’àncora per chi affonda e risale, / e affonda e risale e affonda ancora; / non può dare respiro a un polmone ispessito, / non pulisce il sangue e non salda le ossa rotte; / ma in molti corteggiano la morte, anche adesso, / mentre vi parlo, e solo perché l’amore gli manca». L’anima di Edna St.Vincent Millay è, pertanto, essenzialmente lirica, ma rintraccia una sua peculiare capacità in un vasto respiro profondo che è apprensione emozionale, battito elucubrativo, istantanea vivida. La sua linea convoglia il raccolto a mano aperta infitta nella tenebra, speziata di luce chiara.

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