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Il rito di Silvio Ramat

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Il nuovo testo di Silvio Ramat (1939), docente di letteratura presso l’Università di Padova e importante saggista, La dirimpettaia e altri affanni, edito da Mondadori, si appropria dello scenario vivente, per trasfigurarlo in visione e piana di prosa, e coglierlo nella nitidezza.

La poesia che conosce la ritualità, assopita in un velo malinconico, se non addirittura tragico, perpetua il ricordo come transazione viva, coltre di ricordo e di affetto, volto.

Esiste una figura, un focus da cui il poeta attinge, per formare i suoi occhi, un orlo di iridi che la donna di fronte compone. La curiosità non si appropria del gesto scabroso e insistentemente curioso, perchè, infatti, «non m’importano / il fondo oscuro, i segreti d’alcova, / non inseguo impreviste nudità, / ma quel minimo, i gesti in calcolati / sugli oggetti semplici».

Il rito di Silvio Ramat è la gratuità che punta alla vita per identificarsi, che testimonia, per giacere nella segretezza.

È nella segretezza che la consistenza ultima dello sguardo diventa universale prospettiva, materia vivente, spasmo di un umanissimo ordito: «Da egoista, / solo un poeta potrebbe gioire / di tante ore per sé, trovar l’ardire / di un poema nuovo». Arriva, ricolma di fascino e memoria, mondo di suoni e palpiti, persino aure: «Arrivata da poche settimane / nella casa di fronte, sto osservandola. / Quanti anni avrà, la mia dirimpettaia? / Sui trentacinque, direi: quell’età / che da sempre mi affascina, perfetta / e irrequieta, già colma di memorie / a chi non le rifiuta,e  nondimeno / con speranze fondate sui raccolti che verranno. Ho l’intera domenica / più queste ultime briciole del sabato, / per intuire un po’ della sua vita, / palpiti suoni aure, mentre muore / un inverno con più fretta del solito, / ruota impazzita, il tempo, ch’è impossibile / tenere a freno. E lei, riesce a farlo? Come ticchetta il tempo nel suo mondo?».

L’endecasillabo sfumato e la lirica-prosa si attestano su una luce estrema, ignota, fatta di accenti imprevisti e misteri in frammenti: «Debbo tornare dentro, non vorrei / s’accorgesse di me, dell’indiscreto / a caccia di frammenti del suo mondo».

La riscrittura del mondo percorre le stesse linee del suo oggetto. È nel mondo che il gesto poetico di Ramat si solleva, celebrando il frammento, il poema memoriale, il personaggio che vive.

Il mondo di un altro mette a nudo il nostro, come il volto che denuda il limite dell’umano, nei gesti minimi e semplici, nella prodezza di un appartamento vissuto: «Si riscuote / alla scampanellata, va alla porta: / è (lo avevo visto giù nella via) / il fattorino della pizzeria. / paga, ritira quel che le si porge. / Tre confezioni, o quattro. Ci sarà / una cena e qualcuno del suo mondo».

La solitudine dello spazio si dilata in un orizzonte (hitchcockiano) misterioso e amplissimo. La distanza dei serramenti sembra quasi precludere ogni senso vivo, ma non toglie la grazia dello sguardo, la carezza delle linee separate che inseguono «l’orma del suo mondo», per ricevere un piccolo dono di dolcezza involontario e quasi sottaciuto.

Il gesto della dirimpettaia è quotidiano, normale, assorbito in una vitalità di luoghi e incontri. Si sussegue limpida nel suo breve arco di ore, anticipa però la grazia che si delinea (l’ «anticipato / delinearsi della primavera») nel tepore bagnato della luna al suo quarto, che appare gratificato e, infine, consegna alla storia una risonanza di nome e una figura di mosaico: Caterina.

Il nome pronunciato sillaba il segreto, il colore del ricordo, l’amore raggiunto. Il mondo che fa terminare ogni passaggio di Ramat, è la preminenza di un aggancio: quella donna che ascolta il silenzio della musica o lo struggimento di una trama filmica racchiude l’universo, l’emersione da lontano di una traccia svista e di un’esclusione accennata che guarda alla solitudine: «Niente trapela a me degli argomenti / dei conversari durante la cena. / Debitamente ne rimango escluso. / Ma quando escono, in cinque, sul balcone / di lì a un’ora – a fumare? Ad ammirare / una delle ultime lune d’inverno? -,/ ascolto e un po’ capisco: hanno sparlato / di colleghi di ufficio, han messo a nudo le pecche di un progetto e i promotori. […] Finchè Caterina, / anche se non è poi tardi, si mostra / impaziente di restar sola, affretta / i convenevoli, va congedando / i quattro testimoni del suo mondo».

Il poema diventa sempre più romanzo, contesa infausta, attesa e disappunto. Poi ancora le sue parole «adombrano / gite fuori stagione a fredde spiagge, / grigliate chi sa dove, bagni incerti / di sole marzolino. Ride forte / nel suggerire lo strano programma / a questi che son parte del suo mondo».

L’avvisaglia nuova del tempo attende promesse e scambi, ospiti che arrivano come «questa fortuna / che bacia il suo anagrafico declino», le serrande che segnano i ritorni del sole.

E torna di nuovo l’intima segretezza, il rito che tocca la pace e la trama dei visi, il simulacro di armonie che amano confrontarsi, opporsi, unirsi, come il cielo che si riempie di stelle e non lascia che un frammento deserto e cupo.

Lo spazio del singolo, abitato, amato e, delle volte, persino contrastato, ha come una sorta di sostrato di rimpianto, di voce bassa, nelle domande, nell’immagine estranea che inscena il mondo e chiede alle cose di esistere, alla realtà di vivere. Come un abbaglio o un fischio: «La storia / è semplice, ma ci sarà un’inchiesta. / Rimugino su quel tè non goduto, / sugli amori di cui c’illude il mondo».

In Orzo in tazza grande, Ramat tocca di nuovo le scene, la cedevolezza del cuore che apre il suo dono: «Da sempre lo convince / il modo che ha lei di guardare il mondo / e di nuovo qui, amore e tenerezza, / in un’aria incerta di neve e cenere: / forse il pallore degli ultimi fuochi».

Il mondo diventa, pertanto, la geografia biografica delle linee, la congiunzione dell’esistenza alle cose e che porta il quotidiano a divenire realtà e coscienza, magma e ferita: «Ma non è questa la voce del sole / né può darsi una neve senza cuore».

Spesso l’appuntamento è tremore di oasi e miracolo, dove persino il ritardo è solo uno spostamento che rende il presente un sorriso: «Che una donna ritardi ad un convegno / rientra nei diritti di una donna, / quasi un argomento della sua grazia. / Non sarebbe un dramma… / invece è già qui, / puntuale, a sorridergli, e la frase / tiene, miracolosa, in ogni accento». Qui al poesia non presta il servizio all’esercizio stilistico, alla prosa che vanifica gli aneliti, bensì lo spaesamento inappagato è il fregio di un’anima racchiusa nel tragico, coincisa nei ricordi, nei lidi raggianti, nelle domande di fiamma, e, come il poeta scrisse nella raccolta Invadenze: «una mano guantata che corre / a incontrarti nel tragico». Ha ragione Emilia Musumeci, quando afferma che «Sia dalle opere giovanili che da quelle più mature emerge prepotentemente una tensione irriducibile tra i propri desideri e i traguardi raggiunti, tra il tempo dei ricordi che si raggruma in un’amara nostalgia e il tempo che ci resta e ci costringe a fare i conti con lo scorrere opaco dell’esistenza. Proprio la strenua lotta con il Tempo, che inesorabile scorre, trasformandoci e consumandoci, sembra essere un’ossessione per Ramat […]».

La lotta del sogno, del desiderio e l’agone temporale scontrano continuamente le loro linfe precise: «Resta una piccola impronta, l’idea / di un fiore. Come fosse di clessidra / svuotata muta fatta anche lei sabbia, / l’incavo è forse una traccia del tempo / mentre il tempo non è più che un’idea».

Il segno di Ramat artiglia il tempo per esprimere il desiderio, l’aspirazione, l’ombra cancellata, laddove il sogno fruscia mutevole e impreciso: «Non capivo se dell’alba o di che altro / messaggera, staffetta. / ma all’alba mancavano almeno tre ore. / il buio, l’insonnia e quella data / in testa come un chiodo ribattuto […] E la voce, che da tanto mi taceva, / perché rifarsi viva proprio adesso / viva di là dal muro, su dal cuore / di chi sa quale albero senza luna / e con un tale anticipo / sull’atteso concerto delle sei, / quando l’orchestra assegna a ciascuna ugola / la sua gloria e una parte, / fuorchè a te, / cara voce e viva croce materna / che per memoria nel buio traluci / e per me ti traduci in lingua acuta / in allarme plorante di civetta». Il tempo rado scocca in punta di pena, una veranda che scruta. Appostato, come prima di spiovere, dove le ultime gocce iniziano a svaporare tacite, diventano melodia di adolescenti, poi «un compìto signore / ci addita un angolo d’ombra gentile /  un bersò in cui profuma forte il glicine e “Tornerò” bisbiglia, “tornerò / presto, per uno di voi due, ma so / che avete ancora parecchio da dirvi…».

SILVIO RAMAT, La dirimpettaia e altri affanni, Mondadori, Milano 2013, pp.140.

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