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Il varco di Eugenio Montale

“Felicità raggiunta, si cammina/ per te sul fil di lama (…).Se giungi sulle anime invase /di tristezza e le schiari, il tuo mattino/ è dolce e turbatore come i nidi delle cimase./ Ma nulla paga il pianto di un bambino/ a cui fugge il pallone tra le case.” E’ l’esito della tensione di Eugenio Montale: un rapporto con la realtà che non poteva saziarsi della sua apparenza, del suo anelito all’ “ultimo segreto” e alla ricerca del “varco”, sempre in oscillamento tra attesa e delusione, speranza e scetticismo. Scrive Valeria Capelli: “ la sua poesia, non dissimulando la sconfitta, ma neanche subendola passivamente o, peggio, compiacendosene, rivela l’indomita tensione della ragione e del cuore alla verità, al senso eterno della dignità dell’uomo. La realtà per lui non è un’unità sia pur tenebrosa, una foresta di simboli, una rete di misteriose corrispondenze come per Baudelaire: essa invece assurda, morta, atona, incomprensibile; ma in essa appaiono dei barlumi, dei segnali di un oltre di fronte ai quali si schiude in cuore il sospetto di un’eccezione significativa, di un imprevisto, di un miracolo.”. Il suo linguaggio vive di parole silenti, scabre, essenziali che esprimono non solo la dilagante negatività, il “rivo strozzato che gorgoglia”, dell’immobilità (si pensi a Riviere), dall’altro l’attesa del varco, della realtà totale, del paesaggio dantesco, marino, del mondo appartato degli ulivi e dei limoni, negato al mare: il mondo delle muffe e dei silenzi.

Il suo simbolo del limite si espande in verticale e in orizzontale a “muraglia/ che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia” e appare sempre come una sorta di prigione rovesciata, un’esclusione dalla dimora del paradiso dell’infinito e infine il muro, spazio aspro e tagliente, vetrino, petroso che esclude con la sua aria soffocante i contorni delle cose. Ma i meriggi, la casa sono simboli di un  positivo spiraglio di salvezza.

L’atemporale, il metafisico, il numinoso irrompono nel suo punto di osservazione amplificato e reso vivo, come riflesso di specchi. Il vento caldo che spira dal mare, pur non essendo continuo, è sempre portatore di qualcosa, legato all’idea di movimento vitale.

Ne Le Occasioni (titolo goethiano che reca in sé tutta l’attesa di un miracolo e di tensione del verso e del cuore “sotto l’azzurro fitto/ del cielo qualche uccello di mare se ne va;/ né sosta mai: perché tutte le immagini portano scritto/ “più in là!” “) Montale pone la sua attenzione sugli incontri, strumenti di trascendenza in bilico tra sperdimento e attimo prima della perdita, in cui la donna travalica l’ordine della realtà, proteggendone il riflesso e riscattando il mondo.

Le figure femminili montaliane, Annetta, amore adolescenziale ricostruito in un ricordo affievolito, la passionalità della Volpe, Drusilla Tanzi-Mosca e Clizia, allusione ovidiana che si trasforma per amore in girasole, enigmatico annunzio di un evento, di segni, di suoni e  riflessi di una “divinità in incognito”, in una parola di un miracolo: “In te converge, ignara, una raggèra/ di fili; e certo alcuno d’essi apparve/ ad altri: e fu chi abbrividì la sera/ percosso da una candida ala in fuga”. Osserva Giovanni Macchia, scrive Giovanna Ioli, che la luce e il movimento, la cesena e l’eliotropio sono racchiusi nel senhal di Irma Brandeis-Clizia, amante del sole. (…) Tale pianta porta ancora in sé il ricordo di un mondo senza tempo e di un altro destino. Con il riverbero di elementi naturali compariranno volti e  figure  intessute di ricordo, come scrittura d’orlo di giornale.

La Bufera è il libro più religioso e più dantesco di Montale, dove il nome di Dio compare per la prima volta nella sua poesia e Iride, connotata cristianamente, si apre a fitte connotazioni simboliche. Il ricordo di Irma, pregno di sacralità è un’ allusione e come scrisse Paolo De Caro: “mostrato per traslati: per parti (per esempio, la frangia d’ala), oppure per segnali (il bagliore, la luce, ecc.), oppure nella sua funzione (il volo)”. Canto d’amore e frattura di specchi fragilmente minacciati dalla guerra che danno luogo a rifrazioni di volti e immagini, ad angosce e balbettii: “Non è più/ il tempo dell’unisono vocale, / Clizia, il tempo del nume illimitato / che divora e rinsangua i suoi fedeli”.

E’ la possibilità d’imprevisto l’attesa in cui spera Montale, la ricerca di una novità che dispieghi la vita, un’intuizione di varco come punto di fuga insopprimibile e tensione non elusa: “So l’ora in cui la faccia più impassibile/è traversata da una cruda smorfia: /s’è svelata per poco una pena invisibile./
Ciò non vede la gente nell’affollato corso. /Voi, mie parole, tradite invano il morso secreto, il vento che nel cuore soffia. /La piú vera ragione è di chi tace. il canto che singhiozza è un canto di pace
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