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Il vento che porta via le nubi: Evgenij Evtuŝenko

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Nato a Zima, città siberiana nei pressi di Irkutsk, lungo la ferrovia della transiberiana, il 18 luglio 1933, Evgenij Aleksandrovič Evtušenko raccoglie la fierezza e il bagliore della Russia, attraverso il gesto fertile della poesia, che non solo propizia la sua anima, ma nell’originalità delicata e potente della sua identità e nelle sue «nozze di guerra», afferma l’infinità di una tensione, di un corpo gettato nella mischia del tempo e dell’esistenza.

Le sue prime composizioni risalgono al 1949, pubblicate  sul “Sovetskij sport”, -quasi a evidenziare  la stretta vicinanza tra poesia e sport-, e poi nel 1952 il suo primo lavoro Gli esploratori dell’avvenire, seguito nel 1955 e nel 1956 da La terza neve e da La stazione di Zima, mettono in luce la consacrazione al gesto spontaneo dell’esistere, laddove l’impegno civile convoglia l’io al suo corpo a corpo con la libertà limitata, la burocrazia (Gli eredi di Stalin), la dittatura.

Al poeta però, spesso, viene rimproverata una mancata coscienza e coerenza, un asservimento che si insinua tra le esibizioni della cultura ufficiale.

Ma Evtušenko è un messaggio oltre il messaggio. Proprio perché la limpidezza cristallina del suo atto, non si impadronisce solo della dissidenza, anzi fa luce sul tumulto dell’io, che appartiene alla sua terra di contrasto, e, allo stesso tempo, afferma la sua forza distinta e lucida.

Sembra quasi che la sua poesia civile è tale perché non si canonizza solo in una forza propulsiva, ma perché essa dà voce all’uomo russo, alla sua umida terra, alla sua solitudine traboccante e vorticosa.

All’inizio accostato a Majakovskij, poi considerato degno erede (non senza contrasti) di Pasternak a cui dedicherà Il recinto per il suo commiato, Evtušenko ha fatto della maturazione della parola, il gemito di una porzione accesa, proprio come quella sua Autobiografia precoce, pubblicata a Parigi a soli trent’anni nel 1963.

Il successo in patria, all’estero con traduzioni in 72 lingue e l’insegnamento della poesia agli studenti dell’Università di Tulsa (Oklahoma), compresa l’Italia a cui dedicherà parole di grande lucidità, la fotografia, il cinema come regista e sceneggiatore, attraverso il legame con Fellini e Pasolini, che lo invitò all’inizio per il suo Vangelo secondo Matteo – pur non riuscendo a scritturarlo per problemi burocratici-, i numerosi premi, recano la meraviglia di un’anima poliedrica e rovente: «Mentre la terra s’insozzava / di vanità e di peccato, / il mio nome cambiava, / ma l’anima no».

Essere poeta civile e poeta lirico non impone esclusioni, non annulla le unioni e i collegamenti dell’io, anzi il tempo e il tempio del cuore sollecitano un appunto di consistenza, un tormento, un verso del mondo sofferto, come il suo incanto: «Ma per quanto il vagone si sforzasse / non riusciva a spostare le sue ruote. / La terra per le ruote lo afferrava (…) Ma v’eran stati giorni in cui (…) volava pure lui verso la gioia,/ sconquassando con la voce gli steccati.».

Il movimento del mondo è il movimento dell’uomo: la potenza del suo ricordo, la ferocia della coabitazione silente con il dolore, il suo ammasso, la sua profondità, che però non riesce ad annullare la bellezza e la dignità: «Il volto del volto dov’è? / è importante che ognuno/ capisca bene cos’è/ il vero volto che ha (…) Spesso la gente non sa/ che cosa significhi «io».».

La poesia, come la vita e il ritmo dell’essere, è il cuore delle cose, il candore che permette di abbracciare il tempo di un’appartenenza e di un amore: «Ho amato la Russia/ Con tutto me stesso:/ I suoi fiumi in piena/ e coperti di ghiaccio, / il respiro delle sue casette, / il respiro delle sue pinete, / Il suo Puŝkin, il suo Sten’ka (…) non ho il potere di farmi immortale, / ma ho una sola speranza: / se la Russia vivrà, / con lei vivrò anch’io»

L’amore non si divide, esso, persino nei contrasti e nelle folgori, scompagina e sconfina sui giorni, sui confini, sui cammini della pioggia: «E non mi hai capito, / e forse io non ho capito te, / quando ti ho porto la mano/ e tu non mi hai porto la tua. / ma molto bene hai capito/ Che è la disperazione a portarci/ Alla perdita del confine, fatale, / tra le forze del bene e del male.».

La limpidezza delle cose è il sinonimo fremente e gremito di una grandezza profonda, perché l’attimo che pronuncia la sostanza dell’essere, è già, qui e ora: «Sei stanca. / Prenderti tra le braccia. / Sei già fra le mie braccia. / Davanti a noi tutto è limpido, / mattinale, / giovane, / tutto invita al cammino. / Tu sei quieta, / e la camicetta/ a ogni respiro/ gli erti seni sollevano. «Vedi/ come è azzurro il cielo?/ Odi, / quali uccelli nella foresta?…/ E tu, dunque, perché? …Su?/ Portami!»/ Ma dove ti porterò?…».

Nominare le cose, indicarne la presenza, come gli oggetti di una casa, significa vivere il loro controrespiro, il viaggio di una spettanza: «Tu sei la giovanissima mia compagna di viaggio. / Io, il tuo anziano compagno. / Mi assilla il pensiero/ di ciò che accadrà/ dei tuoi capelli castani. / E se ti tormento con l’inquieta/ ricerca di qualcosa di alto, di sublime,/ io che per primo in molte cose ho creduto, / è perché adesso possa credere tu…».

Anche Zima rappresenta il germoglio dell’esistere, la scoperta di un volto insospettato che rivela l’uomo all’uomo. In mezzo al fango delle remote lontananze e distanze, il paese che accoglie, che transita nei paesaggi, solleva l’ascolto della notte, l’aurora che emerge, i passaggi di camion, verso l’identificazione di una realtà potente e improvvisa. Quando scivolano luci e ombre, perché da lì: «Vedevo dall’alto l’edificio della stazione, / i magazzini, i fienili, le case».

Le donne amate, prima fra tutte sua moglie (dalla quale divorzierà) Bella Achmadulina, fino a Dora Franco, incontrata in un viaggio in Sud America, conoscono il riposo e l’accensione di una passione di esistenza, che nell’incontro forgia la tessitura di cuore e occhi.

Le donne sono il tempo degli uomini: «Una volta di me s’innamorò una ragazzina, / con una frangia scomposta sulla fronte, / con i modi di fanciullo, selvatici, / e occhi di ghiaccio, / pallida di paure/ e di languore. / Eravamo in Crimea. / Una notte ci fu un temporale, / e la bambina/ nel magnesio dei lampi/ sotto voce mi diceva: «Piccolo mio! Piccolo mio!»/ e mi copriva gli occhi col palmo della mano. (…) Addio, mia cara! Io sono tuo, cupamente, / fedelmente, / e chi è solo, di tutti è il più fedele. / Possa dalle mie labbra non sciogliersi in eterno/ la neve dell’addio del tuo piccolo guanto. / Grazie alle donne, / grazie a tutte le donne, bellissime e infedeli/ perché tutto ciò è durato un istante, / perché il loro addio/ non è un arrivederci, / perché nella loro falsità piena di sovrana fierezza, / ci donano deliziosi patimenti/ e della solitudine gli splendidi frutti».

La mano di una donna, inseguita come la poesia infilata al ramo, è la meta sofferta di una coscienza, di un trascinamento dell’io verso il tu, perché gli occhi hanno bisogno di una sponda latitante dove attraccare, una relazione con il concerto del tempo, come il vento che porta via le nubi.

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