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Il vento umbratile di Haroldo Conti

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Quando nel 1981 su El Pais, Gabriel García Márquez raccontò, nell’articolo The last and bad news of Haroldo Conti, la storia di Haroldo Conti, uno dei più grandi scrittori argentini e tra i più grandi della sua generazione (la cosiddetta «generación de Contorno»), che aveva premiato anni prima, ne sottolineò la potenza e il dramma vitale.

Haroldo Conti è un emblema desaparecido, inviso per le sue posizioni, dalla dittatura militare di Varela, che lo fece brutalmente assassinare: nato nel 1925 a Chacabuco, nella Pampa, docente di latino, autore di grandi romanzi, come il suo primo Sudeste (1962), vincitore del Premio Fabril, meraviglioso affresco sensoriale del maestoso Paraná, che racconta la fodera e la sintassi vitale di un barcaiolo, cacciatore e pescatore soprannominato “el Boga”:

«Le isole sono un profilo illusorio, un’ombra che oscilla sull’orizzonte verso ovest. Se finalmente uno riesce ad avvicinarsi, gli sembrano anche più remote, abitate dal silenzio, dalla solitudine e da una tristezza senza rimedio. D’inverno la luce si rifugia in alto. Il mattino e la sera hanno origine nella zona più alta del cielo, molto lontano dalla terra. D’estate succede il contrario: la luce comincia a sbocciare proprio dalle isole e, spingendosi in fuori, dilaga nel resto del giorno. A metà mattino le isole sembrano chiatte che beccheggiano allegramente sull’acqua. Se uno naviga verso le isole, va verso il chiarore. E verso quello strano subbuglio che diventa sempre più intenso man mano che l’estate va maturando».

O ancora Alrededor de la jaula e i racconti Todos los veranos (Premio Municipal de Buenos Aires), Con otra gente e La balada del álamo carolina e infine, nel 1975, il romanzo Mascaró, el cazador americano, che vince il Premio Casa de las Américas, in cui, abbandonando l’evenienza delle immensità fluviali, riporta la sorgività del tempo alla prefigurazione dell’infinità oceanica e delle taverne portuarie, frequentate dal protagonista, Oreste Antonelli, fino all’estremo universo naufrago e vagabondo degli emarginati, da Mario Benedetti, associabile a La strada di Fellini[1]: «Il mare è un’entità concreta che promana dalla terra. Cambia colore secondo il cielo: rosa, lilla, violetto e finalmente blu. E quando il cielo giunge alla fine, il mare, come un vetro profondo che tutto trattiene, ne conserva i pallori».

Il romanzo In vita[2] (1976), premio Barral, ora pubblicato in Italia, grazie alla cura e alla traduzione di Laura Branchini, per Asinelli Editori / Burritos Edizioni, restituisce non solo la proemiale (come principio e inizio di tutte le cose) bellezza di Buenos Aires.

È un macro (e micro) cosmo di segni ciò che Conti mette in scena, è come se lo abitasse e ne fosse visitato, sia attraverso la dissolvenza e sia in una sorta di dissonante palpebra di sogno e il vento triste che cavalca le acque addormentate, come un cavaliere solitario:

«Rimase lì per un po’, tra le cose che si cancellavano intorno a lui. La parete di legno che si leva scura contro il cielo, le venature grigie del glicine sulla pelle della sera, i tavoli vuoti, il cartello con le lettere variopinte, la rete metallica avvolta dal convolvolo. Soffiò una raffica di vento e la rete fu scossa come se fosse percorsa da una mano invisibile. La sirena di una chiatta attraversò la sera da un estremo all’altro e poi sopraggiunge l’acre odore del fiume. “Ecco l’autunno”, pensa Oreste. Vuol dire la luce rugginosa sulla cima dei pini, l’acqua addormentata, i bramiti dei motori diesel che rimbalzano nel cielo e soprattutto questo vento che trascina odore di fango e foglie marce delle isole. È un vento triste e di cattivo umore che cavalca sull’acqua, dal fiume aperto, come un cavaliere solitario» (p.11).

Il grande romanzo di Buenos Aires, aperto dall’epigrafe ferita di Cesar Vallejo («Fiammifero e fiammifero nel buio, / lacrima e lacrima nella polvere»), sprigiona luci umbratili, vie visitate dall’incanto scalcinato dei grandi alberi e degli odori del Rio de la Plata, dove la sensuale carnalità femminile appare come stupore disteso e cinema di serene evanescenze di sabbia, tra distanza e notte.

In Conti, vi è, nelle sue acrobazie di linguaggio, come una inafferrabile perdita: del tempo soprattutto, ma anche delle cose e delle persone, che sembrano emergere e richiudersi nell’oscurità, ma, in quel frangente, esprimono tutto il loro gesto raggrumato, nella loro scena ricolma e, allo stesso tempo, intinta nel gorgo del tempo:

«[…] una figurina vellutata che si liquefaceva su uno sfondo di pallide trasparenze, completamente immobile e con il viso rivolto al mare, come se lui non ci fosse, come se lui proprio non esistesse, allontanandosi e svanendo nell’orbita del suo occhio, e il vento salato che si portava via i suoni da un bocchettone aperto nella sera e che da adesso si svuotava, trascinandosi via anche lui, mentre lei restava da sola, esisteva da sola in quel mondo di serene evanescenze, e lui ebbe paura e non volle guardare al di sopra della Contax perché forse l’avrebbe persa del tutto».

Il giornalista Oreste, che conduce la sua vita deragliata da bevitore, padre, marito e amante assente, spesso tra le ombre spettrali ed erranti, Pino, il venditore di macchine Paco, Roque, Juan sono figure che non tipizzano ma diventano l’anima segreta di una città. È l’ora dello splendore azzimo che brilla la strada e l’acqua: «Risalirono la via sul marciapiede della costa. A quell’ora c’era più luce. I lampioni brillavano in apparenza più alti mentre illuminavano da un lato la strada deserta e dall’altro, alcuni metri più sotto, un tratto d’acqua. Il vento portò una voce in falsetto che cantava alla maniera di Genaro Salinas. Rimbalzò all’improvviso sulle loro teste sovrapponendosi a un groviglio di sibili e poi il vento se la portò via».

La visione, la sequenza di immagini, l’approccio percettivo, il risveglio dell’umano, la memoria franta e la malinconia, tipicamente argentina e speculare alla saudade, sono cortili di ombre, luoghi in cui l’assenza, il ricordo, lo strappo diventano l’indice del mondo, il punto in cui lo sgomento incontra l’invisibile, l’inaudibile percezione dell’assenza, la germinazione di una sospensione.

I personaggi sono visitati da una luce che è memoria e presente franto. In ogni passaggio nella città vivono il loro frattale di detriti e bellezza

È il potere di Buenos Aires, la sua dispiegata bellezza antica, un palpito di luce, una nicchia di ombre e curve sagome che solcano il cielo appannato d’autunno:

«Oreste scese nella città che ansimava nella notte con un milione di suoni e sebbene questa non sia che una frase nella sua folle testa il cuore gli mollò un allegro cazzotto quando uscì per la strada e un soffio di vento vagabondo gli portò l’odore del fiume. Le luci palpitavano incassate tra grandi nicchie di ombre e curve sagome solcavano il cielo appannato d’autunno. Sopra, le fredde stelle scivolavano sullo sfondo di un fiume buio tra pallide rive di cemento» (p.41).

Il mondo di Harold Conti, dunque, vibra di questa intimità percepita. I volti, gli sguardi e i gesti tessono la trama di un mosaico universale, di un pronunciamento esistenziale, in cui il dolore e la memoria, la finitudine ampliata ed espansa, lo scontro tra il passato e il presente designano l’anima argentina si scontra con le nuvole ferrigne e l’inarrestabilità della terra.

I suoi romanzi-universi dispiegano l’anima, appunto, in una geografia di interni che porgono il loro vincolo di libertà e visione. Un colpo di vento come un annuncio, la realtà come segno indiviso:

«Cercava di pensare all’estate di Margarita. La Ford rossa, la strada di terra battuta, il vecchio ponte sul Canal I sbiancato dal sole come lo scheletro di un grande animale, cartelli e insegne sbiadite, qualche altra strada che si apriva di fianco al letto di un fiume in secca, la linea scura degli alberi sull’orizzonte, le prime case e il mare. Ma lui non poteva vederlo come Margarita. A lui tutto quello ricordava altre cose. Oppure ricordava le stesse cose in un altro modo». (p.121).

Haroldo Conti, In vita, traduzione di Laura Branchini, Asinelli Editori / Burritos Edizioni, Varese 2021, pp. 184, Euro 16.

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Conti H., In vita, traduzione di Laura Branchini, Asinelli Editori / Burritos Edizioni, Varese 2021.

Costantini H., in Haroldo Conti en vida, Editorial lmagen, Buenos Aires 1983.

Regazzoni S. (1996), Emarginati, vagabondi e naufraghi: il circo grottesco di Haroldo Conti in RASSEGNA IBERISTICA, vol. 57, pp. 17-25.

 

 

[1] Benedetti M., in Haroldo Conti en vida, Editorial lmagen, Buenos Aires 1983, p. 139.

[2] Conti H., In vita, traduzione di Laura Branchini, Asinelli Editori / Burritos Edizioni, Varese 2021.

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