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In ricordo di Paola Acampa, la Papessa Vesuviana

PAOLA, LA PAPESSA VESUVIANA.

UN RICORDO.

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Conobbi Paola la sera del 31 ottobre del 1990. Fui invitato a casa sua da una comune amica, che mi telefonò: “Ciccio, mi disse, continui sempre a interessarti di cinema?”; alla mia risposta affermativa, mi invitò a casa di “una” (non mi disse chi era) che, con un gruppo di amici, voleva organizzare un Cineforum, di quelli tradizionali, con dibattito “fantozzesco” alla fine. Andai. Incontrai diverse persone che conoscevo; solo nel cuore della serata mi fu presentata la “padrona di casa”: era Paola. Nel corso del party-assemblea aveva parlato poco: anzi nulla; però ascoltava con attenzione le cose che dicevo. Mi invitò il giorno dopo a casa sua. E da lì è iniziato… Fisicamente non è cambiata. Aveva una sua rude ma personale femminilità. Aborriva e non usava trucco: eppure emanava energia e consapevolezza di sé come donna; insieme a una notevole intelligenza, attenta e vigile, e una spiccata capacità di penetrare le psicologie altrui. Mi accolse tra i suoi: come un ulteriore figlio/fratello, pur essendo suppergiù coetanei. Aveva una prorompente dimensione d’immediata generosità: in quella fase avevo problemi personali, e il suo accettarmi e fidarsi di me senza conoscermi a fondo, fu per me un dono profondo di amicizia, di cui avevo veramente bisogno… E di cui sono a tuttoggi riconoscente. E s’instaurò un rapporto di complicità e collaborazione culturale che dava coerenze e certezze organizzative alle più spericolate intuizioni di costruzione sociale. Perché Paola era curiosa e assetata di vita e di cultura. Che lei apprezzava sommamente e con cui riusciva a mettersi in sintonia, sempre distinguendo con sodo realismo e innato equilibrio le vuote chiacchiere che si travestivano di pseudo cultura, anche di tipo accademico, e gli apporti seriamente culturali. Tra questi c’era quello di Luca Castellano, che pure ci ha lasciati, pittore con lo pseudonimo di LUCA, intellettuale e teorico della cultura: a lui si deve l’idea e la creazione della “Città del Monte”, una vera e propria “Federazione Territoriale” fucina di energie creative che si sviluppavano attorno al Vesuvio, che non era semplicemente un dato naturale, ma un incubatore originale di profili, destini e vocazioni storiche e identità sociali. C’erano giovani architetti, pittori, artisti video, scultori: energie creative allo stato puro. E Paola ed io collaboravamo con lui e il suo gruppo: così nacque l’Associazione “Federazione Territoriale della Città del Monte”, cui dedicammo Mostre, convegni. E l’articolazione di cinema e comunicazione dell’associazione, federatasi alla FICC (Federazione dei Circoli di Cultura Cinematografica), una delle sette federazioni di circoli e cineforum nazionali, diede vita al Cineforum che si chiamò “Schermo 91” al cinema Roma di Portici, oggi giunto alla sua 27^ edizione e di Fresko Film, la rassegna estiva di Portici. Poi dal 1994 aderì al Cineforum la presenza “necessaria” di Lucia Milone: spesso mi domando che avremmo combinato senza di lei, senza il suo apporto negli anni, silenzioso ma efficiente e attento, alla tenuta organizzativa e contabile del Cineforum stesso. Il nostro, fin dall’inizio fu un Cineforum “pensante”: nel senso che rifletteva sulle istanze sociali e culturali del territorio: l’apporto di Paola su questo non è mai, anche quando stava male,  venuto meno. Tutte le numerose iniziative che “giravano” entro le attività del Cineforum propriamente detto (film, dibattiti, presentazione di registi, attori, ecc.), erano numerose: Mostre, dibattiti su pittori; adesione a riflessioni e confronti di varia natura, compresi quelli politici. Facevamo parte anche del “Patto Territoriale del Miglio d’Oro”: finché a dirigerlo fu Osvaldo Cammarota, come Associazione culturale avevamo voce in capitolo anche dal punto di vista imprenditoriale. Sulla scorta di intuizioni teoriche di  Antonio Colasanto, Docente universitario di Teoria della Comunicazione alla Luiss,  demmo vita al movimento degli “Sfrattati”: esso era un gruppo in cui le istanze di liberazione venivano commisurate alla capacità individuale di creare e comunicare arte e bellezza, fuori dagli schemi e dalle Accademie. Istanze che sono state rivitalizzate e confluite nell’adesione di Paola ai “Patafisici”, dai quali è stata dichiarata “Papessa Vesuviana”: ebbene, era questo il titolo che massimamente, più di ogni altro complimento o qualifica, le faceva veramente, intensamente piacere. Ricordo la sua “incoronazione” sul Vesuvio: il grottesco e il mascheramento diventavano per lei affermazione forte, e direi quasi selvaggia di identità libertaria. Era consapevole della dimensione ludica: ma ne era fiera, pur se con molta autoironia. Pasolinianamente fiera di travalicare i limiti della conformità, dell’omologazione. Fiera di essere se stessa. Era orgogliosa di non essere etichettabile. Eppure questa forza, che a volte la portava ad assumere vere e proprie “capate”, a comportarsi cioè solo seguendo gli impulsi della sua complessa personalità e della sua sensibilità, la portava a numerosi confronti, a volte anche duri: innanzitutto con parti di sé; ma spesso anche con altri che le stavano più vicini, me compreso; e coi quali non esitava a scontrarsi, quando riteneva che così il suo cuore diceva.  Ma la prima a soffrine era lei. Perché la sua sensibilità la lasciava indifesa rispetto alle sofferenze o patemi, di cui talvolta si faceva troppo carico; la spiazzava. E per cui ha sofferto molto. Ma sempre con quella dignità, quella consapevolezza a volte provocatoria di sé che la distinguevano. Ma le istanze della vita erano troppo forti in lei. Così ha affrontato la sua malattia: con forza, ironia e attaccamento lucido all’esistenza, sua e altrui, di chi le voleva bene, e le è stato accanto fino all’ultimo: figlie, fratelli, la cugina, gli amici; fino agli  terribili ultimi istanti. “Capo’, mi diceva, i’ nun mor’… Nun fa sta faccia…”. Ed è così che voglio ricordarla a me e a tutti.

Cià Paola, cià….

 

(nella foto, da sx: Ciccio Capozzi e Paola Acampa)