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Jan Twardowski e lo stupore della fretta

Le sue poesie hanno una forza prodigiosa e chiara. Sia che presentino un colloquio con le creature della natura, sia che sottintendano i tanti drammi normali di tutti noi a riguardo dell’amore, della morte, e delle domande che agitano i cuori umani, queste poesie vivono di una grazia violentissima e gentile.

Queste parole del poeta Davide Rondoni sono una messa a fuoco ampia dell’opera poetica di Jan Twardowski (1915-2006), considerato una delle voci più autentiche e originali della poesia polacca del Novecento, assieme alla grande Szymborska, che ci ha lasciato qualche giorno fa, a Milosz, a Herbert e particolarmente apprezzato da Giovanni Paolo II, di cui era amico.

Nato a Varsavia e lì scomparso a 91 anni nel 2006, ordinato sacerdote nel 1948, ha attraversato con accensioni limpide e trasparenti la sua visione nel magma del mondo, una luce feriale accesa su un punto di congiunzione con le cose e una linea improvvisa: «Concedimi Signore di non fare schermo/ di essere anche mediocre purché trasparente».

La lirica segue le tracce della preghiera. Entrambe, strettamente connesse, divengono espressione suprema dell’uomo, sguardo che egli porta alla realtà, attraversandola violentemente e giungendo all’infinito, al punto infinito da cui nasce: «perché attraverso me Tu veda l’anatra dal naso piatto/ la rapunzia gialla che fiorisce di sera/ i petali del papavero sempre quattro dacchè il mondo è mondo/ la penna che scrive storto se la mano piange/ il male a cui si accompagna un dolore innocente/ la strada che in fondo è sempre troppo breve».

La parola, come scrive Jaroslaw Mikolajewski nell’introduzione alle poesie pubblicate da Marietti qualche anno fa, porta immediatamente all’esperienza propria di chi legge, illumina di armonie e relazioni inaspettate. Si posa sulla solitudine e la solleva in un volo verso noi stessi, in un attimo resi diversi, più fiduciosi e illuminati. Jan Twardowski ha sempre pregato di essere invisibile, trasparente, di lasciar trasparire solo il Creatore e il creato. Dio lo ha esaudito.

La sua cifra umana si posa come medietà e filtro con la Presenza che lo crea ogni volta e in cui trova trasparente e prodigioso riparo.

La semplicità poetica, si pensi anche alla nostra Ada Negri o alla grazia potente di David Maria Turoldo, fino alla fragilità solenne e drammatica di Clemente Rebora, non reca minor spessore all’impianto poetico, semmai insegue la sua genesi cristallina, il pensiero sorgivo che alimenta la commozione e lo stupore di una tensione e di un asservimento obbediente alla “grande signora”.

Un’attesa di segni, che anche attraverso il regno naturale ed animale (come le formiche o le api che con la loro operosità ricamano l’ordine di Dio), si muove in una tensione elementare, pienamente umana, che non censura il dolore e il dramma del buio, ma che compie il viaggio verso la struttura stessa della nostra natura, l’essenza della nostra anima: «credere vuol dire non chiedere nemmeno/ per quanto ancora dobbiamo ancora andare al buio».

In quelle composizioni «timide» e «scalze», nate prima clandestinamente e poi ricche di sintonia con il Concilio Vaticano II nelle sue propulsioni aperte e personali e la concretezza del dato esperienziale.

Il carattere dialogico, la semplicità lessicale, lo spirito francescano, ben messi in evidenza da Andrea Ceccherelli, oltrepassano il semplice dettato, diventando relazione proiettata fuori di sé, dove l’io afferma se stesso solo accettando la realtà, affermando un luogo che non si è dato, ma che percepisce come trama di volti e cose, finendone per esserne abitato.

La passione per ciò che accade e la relazione che ne consegue sono in un rapporto di misericordia sintetica che abbraccia passato, presente e futuro, come un rammendo di maglia, come un santuario che vive.

La quotidianità colloquiale viene pervasa da una sacralità di forme vive. Un atteggiamento affermativo verso il mondo, un dire ‘sì’ alle cose che canta la loro positività ultima, la loro piccolezza infinita, il sorgere dello sguardo, la freschezza del paradosso.

Lo stupore di Twardowski è una gioia di affermazione dell’esistere che diviene “un mondo coeso, organico, non incrinato né frammentato, dove il rapporto tra uomo e uomo, tra uomo e Dio, tra uomo e natura è ancora immediato e dove persino il lato oscuro adombra – a chi la cerca- una sua possibile ragion d’essere”.

La sua voce si affretta, rievoca, compie. «Affrettiamoci ad amare gli uomini se ne vanno così presto» perché «come un suono un po’ maldestro oppure come un inchino secco/
chiudono gli occhi per vedere davvero/ nonostante nascere sia un rischio maggiore del morire».

In questa percezione sta la trasparenza cristallina del suo fiotto poetico, un’urgenza e un divenire in un movimento.

 

 

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