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Joy Harjo: il delta del suono

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«Nessuno dei miei canti / ti porterà indietro. / Non i canti di cento cavalli che corrono / finchè diventano vento. / Non il canto intimo della pioggia / che fa all’amore con la terra».

Joy Harjo (nata Joy Foster) (1951) è una poetessa e scrittrice nativa americana, indiana cherokee da parte di madre e creek da discendenza paterna, è nata a Tulsa, in Oklahoma, ha insegnato in varie università americane, dall’Arizona State, fino alla University of Montana, Colorado e UCLA a Los Angeles, e oggi ricopre la Chair of Excellence in Creative Writing e Inglese presso l’Università del Tennessee, a Knoxville.

Nella sua poesia, come afferma Laura Coltelli, nella intensa antologia, appena pubblicata da Passigli, Un delta nella pelle[1], la prima pubblicata in Italia,

«la storia della tribù cui appartiene si intesse, talvolta in un nodo inesplicabile, con quella di indigena che vive nell’America contemporanea. Dal potere della parola, incentrata nella cultura orale, mito e memoria del modo nativo, discende l’attualissima qualità della sua scrittura: senza folclorismi in essa vivono personaggi, racconti, credenze del proprio bagaglio culturale; senza legnosi enunciati dà forza a un discorso politico e senza censure dà voce alle passioni. […] Frammenti di biografia famigliare si innestano in un contesto che ripercorre vicende storiche di una conquista alle soglie dell’etnocidio, dolorosamente depositate nella memoria che cerca tuttavia di aprirsi a uno scarto esistenziale verso la ricomposizione del sé».[2]

L’apertura poetica di Joy Harjo è un orlo di acuto splendore che crea legami con il dettaglio, la generatività, la pronuncia integra del mondo, il moto del vento, mostrato da un Hopi, e come il canto che, per essere tale, deve addensarsi nella sospensione, deve abbracciare e dire se stesso, e danzare sugli orizzonti ultimi:

«cornacchia si libra nel Sole invernale / scheggia nera / nell’oceano bianco del cielo / cornacchia è l’orizzonte / fluttuante a sud di Albuquerque / l’orizzonte danza / lungo il bordo blu / delle Manzano / vento è un arco / una curva / sull’ala nera di cornacchia / un tiepido vento del sud / se soffia per un po’ / terrà cornacchia a danzare per trent’anni / sull’orlo / di una brezza dura di montagna» (Mentre osservo cornacchia, guardando a sud verso le montagne Manzano).

Se di insistita chiusura lessicale si tratta, e poi di perdita occlusa, e poi ancora di alienazione, la poesia di Joy Harjo ricrea la gemmazione dischiusa di una oralità spalancata e selvaggia che traccia l’essere, «in un setting cosmico che significativamente si muove in un andamento circolare e costante dei moti dell’universo […], con un’incantatoria accelerazione verso quel fuoco che sorge da ogni alito di vento[3]».

È una narrazione di suono, che origina la forza primaria di ciò che solo, apparentemente, si disperde: «[…] “vieni con me” mi stringe il braccio / il cavaliere sioux cavalca / la mia spalla / scuoto la testa / e annego il suo cavallo nell’acqua / del fiume illinois / il giovane guerriero lascia cadere la mano / ma non si arrende mai / il suo nome / mi seguirà per tutta l’autostrada / fino al centro dell’oklahoma».

Roberto Galaverni, infatti, scrive:

«La ricerca di un’identità da conquistare attraverso il richiamo di significati, presenze, memorie che non sono affatto un possesso personale esclusivo: l’energia della natura, le forze cosmiche, la vicinanza degli antenati, il retaggio antropologico e culturale indiano, la mitologia, le vicissitudini storiche (il genocidio, dunque), la perdita della lingua nativa. Il «centro del mondo» (anche Harjo lo chiama più volte così) è un centro conteso».[4]

Tale centro è il «volo di ritorno», di cui parla l’allusiva Alle 3 del mattino, ambientata all’aeroporto di Albuquerque, in cui i passaggi narrativi si allineano in una ricerca di sé, un punto, forse, o meglio, un canto finale che rappresenta l’apice ultimo e abbagliante di un respiro, che nasce dalla propria genesi, come esigenza di pienezza e compimento, spazio condiviso e sapore di madre, segreto di voce che «s’impiglia / a brandelli sul filo spinato di un recinto / a lato della strada / e ondeggia muta / nel vento»: «è l’unico modo / che conosco per respirare / un canto antico / mia madre sapeva / che era nato da una storia / intessuta di alta erba umida / nel suo grembo / e non conosco altro modo / se non avvolgere la mia voce / con canti estivi di grilli / in quest’aria umida e notturna del sud / l’oklahoma sarà per sempre / il mio ultimo canto» (L’ultimo canto).

Joy Harjo così afferma:

«Tutti i paesaggi hanno una storia, molto simile a quella di una popolazione che esiste all’interno di una cultura, persino di una tribù. Ci sono voci distinte e linguaggi che appartengono ad ambiti particolari. Ci sono voci dentro le rocce, i corsi d’acqua bassi, i cieli mutevoli; tutto questo non è silenzioso. E ogni cosa è in movimento, non solo con il moto violento dei terremoti associati con quelli della terra o i vortici costanti attraverso cieli, non percepiti, sottili come il respiro. Un moto, un suono che, se si concede alle nostre pulsioni intime di arrestarsi per un attimo, si sposta da quel luogo fin dentro di te. Tutto questo rispecchia un paesaggio simile; si può vedere, sentire, conoscere».[5]

Nella sua poesia tellurica, dunque, il suono si rigenera. In tutto il suo simbolismo materico, le sue immagini vivide narrano l’origine di uno scenario intessuto di incroci, volti, luoghi che dilatano la pronuncia velata e sofferente di un mondo che si porge, offrendo il suo disorientato profilo affilato, il suo nascosto barlume di grazia, la narrazione di un bordo, un confine, una riserva, una lamina.

Nello spaesamento dell’identità il viaggio riporta la sua ferita identitaria: lo smalto della terra è la cifra e il segno del corpo fragile e vitale della sua poesia: «Una volta la fermarono fuori / Anadarko. / Luci rosse / Tu devi essere indiana, disse / uno della Polizia Stradale dell’Oklahoma. / Naturalmente, loro conoscevano la storia / prima di accendere le luci. / E mentre aprivano la portiera del furgone / nella notte umida / lei disse / che stava solo andando a casa. / Quale voce / nell’erba calda del suo ventre? / Quale pianeta?».

La migrazione smarrita che attraversa i confini disegna la bellezza affiorata di un popolo, in cui la storia singolare dell’io, la sua sconfitta e la sua gioia, conosce il nome di un “noi” segnato dalla storia.

Il grido di Joy Harjo è l’elementare potenza a spirale del fuoco. Nella sua essenziale punteggiatura di istante, Joy Harjo confessa la sua piccola

«parabola di evocazione in cui, nel fitto della grande metropoli contemporanea (autostrade, aeroporti, ferrovie, il cemento, il traffico, le famiglie divise, la violenza quotidiana) vengono chiamate a raccolta determinate forze sovra-personali, etniche, naturali, cosmiche, al di là di ciò che è soltanto qui  e soltanto ora: la terra e la madre, la fecondazione, il movimento  ciclico della vita, gli animali, la sapienza e l’esempio dei padri, il volo, la «forza del vento», la notte, il cielo stellato, «la bianca luna orsa»[6]

Joy Harjo scrive:

Una donna non può sopravvivere / col suo solo / respiro / deve conoscere / le voci delle montagne / deve riconoscere / l’eternità del cielo azzurro / deve fluttuare / con i corpi / sfuggenti / dei venti della notte / che la conducono / dentro se stessa / guardami / io non sono una donna divisa / io sono la continuità / del cielo azzurro / sono la gola / delle montagne / un vento notturno / che brucia / ad ogni suo respiro. (Fuoco).

Irene Battaglini commenta:

«Joy Harjo possiede il linguaggio. In senso transitivo. Possiede non tanto la capacità di utilizzare la parola, quanto il linguaggio in senso stretto. Il linguaggio la abita in tutta la sua potenza espressiva, in senso archetipico. Se è vero, come sostiene Lacan, che l’inconscio è strutturato come un linguaggio, allora deve essere plausibile che il linguaggio del mito, degli elementi naturali, del sogno, riflettono in qualche misura i miti che abitano il linguaggio, il sogno, il naturale. Ella ne possiede la natura intrinseca. Non teme in alcun modo l’ira degli dei, e neppure lo sgambetto dei ricordi. Respira il femminile eterno, lo emana, vi soprassiede indulgendo oppure ammiccando, a seconda della dimensione che vuole lambire, se è terra, se è aria, se è il corpo suo stesso che si fa vaso nella mente e nel grembo, forte di una equazione primaria che non può essere discussa al livello metaforico. Con Joy Harjo abbiamo la possibilità di conoscere in forma diretta il mondo interno della Grande Madre, che si incarna nel suo essere donna, donna-creatura e donna-mitocondrio, che si annida nel ventre dell’Universo e si fa piccola, eppure si fa ampia, aperta aquila ai confini del tempo».[7]

La composizione di Lei aveva dei cavalli è un itinerario ciclico di pietre incastonate, dove si rapprende la paura, il respiro a ritroso che conosce l’arresto dei crinali, un oceano di paura del buio sulla terra, una città, come Anchorage, che ha vissuto lo schianto di una tempesta di terra ribollente.

I cavalli, disegnati da Joy Harjo, sospingono così la precisione del taglio delle immagini che si completano e rafforzano l’incanto nativo, il dialogo con l’altro, la dura delicatezza delle incisioni di amore e morte. Il mito come vita si solleva dal petto e i cuori sono stelle di sangue.

Sono la corsa e la vita, l’attesa, mappe disegnate con il sangue, aria azzurra, roccia rossa scheggiata, stelle arse e spiriti, sussurri e fantasmi come buio. Irrompono e frangono ma sono anche materia vivente, cosicchè persino il dolore recide lo spazio appeso (La donna appesa alla finestra del tredicesimo piano).

La frammentazione è unione e comunione, allo stesso tempo. Stratificando il divenire infinito dei particolari, che  esprimono la loro radice profonda e la memoria («So che quando scrivo c’è un vecchio creek dentro di me che spesso partecipa[8]») di una zona germinativa e precisa, danno impulso a una energia barbara che diventa l’unanime grido solcato.

La sua morfologia urbana (New Orleans, Anchorage, Chicago, Kansas City) appartiene a uno slancio sotterraneo e soffuso delle voci sepolte, come il delta del Mississippi che ricorda il suo mixed blood («Io ho memoria. / Nuota nel profondo del sangue, / un delta nella pelle»).

La memoria è il connettivo dell’essere che aggroviglia frammenti e stelle che circondano il cuore, ed è nell’opposizione di vita e morte, fango e stelle, bellezza e taglio che l’anima di Joy Harjo trova il suo punto d’inizio libero oltre la paura («Mi hai sventrato, ma io ti ho dato il coltello. / Mi hai divorato, ma io mi sono sdraiata nel fuoco. / riprendo me stessa, paura. / Non sei più la mia ombra. / Non ti terrò tra le mani. / Non vivi più nei miei occhi, orecchi, voce / ventre, o nel mio cuore mio cuore / mio cuore mio cuore. / Ma vieni qui, paura / io sono viva e tu hai così paura / di morire»):  «Sono viva di memoria / non solo un nome / ma un groviglio di frammenti / in questa ragnatela di impulsi, / che vuol dire: terra, cielo, stelle che mi circondano / il cuore / in moto centrifugo».

O ancora il ricordo rappresenta la compiutezza memoriale dell’essere uomini ed è nell’appartenenza che si fonda la libertà. L’uomo è libertà quando appartiene:

«Ricorda il cielo sotto cui sei nata, / impara le storie di ogni stella. / Ricorda la luna, impara chi è. / Ricorda la nascita del sole all’alba, il più / possente attimo del tempo. Ricorda il tramonto / e il concedersi alla notte. / Ricorda la tua nascita, come tua madre lottò / per darti forma e respiro. Sei la testimonianza della / sua vita, quella di sua madre e poi quella di lei. / Ricorda tuo padre. Anche lui è la tua vita. / Ricorda la terra, sei tu la sua pelle: / terra rossa, terra nera, terra gialla, terra bianca, / terra bruna, noi siamo terra. / Ricorda le piante, gli alberi, gli animali, anch’essi hanno / tribù, famiglie, storie. Parla con loro, / ascoltali. Sono poesie viventi. / Ricorda il vento. Ricorda la sua voce. Lui conosce / l’origine di questo universo. / Ricorda che tu sei tutti e tutti / sono te. /  Ricorda tu sei questo universo e questo / universo / sei tu. / Ricorda tutto è in moto, cresce, sei tu. / Ricorda che da questo nasce il linguaggio. / Ricorda che danza è il linguaggio, che danza la vita. / Ricorda».

Così la dilatazione compie il suo popolato percorso di evocazione e mondi paralleli. La realtà si denuda in tutta la sua sperduta chiarità ancestrale: «le limpide notti nere / come gli occhi di sua figlia, e la bianca / luna orsa, incavata come una dondolante culla / d’avorio, rivolta all’indietro potrebbe andare / di qui o di là / tutta l’oscurità / è aperta a tutta la luce».

Il verso si fa gesto compiuto e performativo, respira la sospesa sopravvivenza di casa, nonostante il cuore si infranga sulla riva fangosa o, come nell’iniziale scenario di Chiamala paura, dove la voce dimessa non muore: «Volevamo solo parlare, sentire / una qualche voce per rimanere vivi – / E questo crinale / non il dirupo di rocce d’arenaria / ossa di terra vulcanica dentro / Albuquerque. / Non questo, / ma una scia di scalcianti / cavalli d’ombra / che mi tirano fuori dal mio / ventre, / non nel Rio Grande / ma nella musica / appena stillante alla radio / da canti di chiesa domenicali. / Batteria scarica / ma le voci / parlano a ritroso».

La vitalità dell’essere unisce madre, donna e terra in una partoriente origine di forma e unità alla vita, in un’armonia nomade che conferisce successione ciclica, come scrive Laura Coltelli:

«In tutta la poesia, parola, creazione e procreazione sono rese feconde dal rapporto con la terra. Ogni cosa sembra spazialmente e temporalmente contigua all’altra in un costante processo evolutivo, come è ben espresso anche dall’uso di participi presenti, gerundi e da un alternarsi di tempi verbali al passato remoto e al presente. Il “moto d’armonia” nel ventre della madre in attesa della nascita, per “cominciare un’altra volta”, trasforma una storia di frammentazione in una di rinnovamento. Attraverso una catena generazionale di quattro donne e con una focalizzazione sul momento della nascita, la Harjo traccia storie individuali insieme a quelle mitiche e storiche di un intero popolo, delineando il passaggio forzato dalla cultura originaria a un mondo alienante imposto dalla colonizzazione, a cui fa seguito la cancellazione della lingua nativa. Il costante richiamo fisico, mitico, religioso alla terra si collega inoltre al fatto che in molte comunità indiane la nascita delle tribù coincide con l’emergenza dai mondi sotterranei».[9]

I suoi prose poems celebrano l’ordita tessitura di una epica ricerca di Grazia («una donna con il tempo tra le mani»), di vitalità e di spirito, respiro e preghiera di mattini e bellezza, oltre l’espropriazione e la perdita, la crescita e la resurrezione.

Attraverso figure come Coyote e Rabbit, essi «forniscono l’esempio per procedere nelle divisioni, per afferrare quella «promessa di equilibrio» tra l’individuo e il mondo, tra il presente e il passato, tra l’attiva partecipazione al dialogo, con tutto ciò che emana da una completezza di vita, sorretti da cibi sacri come il granturco, usato nelle cerimonie, e il nutrimento portato da nuove nascite[10]».

La prosa di Joy Harjo abita l’aria rarefatta di un tempo che rinforza la sua furia d’amore. Cerca il suono per ospitare la forza dell’abbandono e dello spirito: il lievito unico e umbratile della luna «poggiata alla spalla del buio universo», così simile all’anima blues di Bird.

Poi la rivoluzione dell’amore, miracolo forsennato di rose di sale, che abbraccia la terra dei sogni e le radici della propria identità («Venimmo fuori tu ed io, sbattendo le palpebre ancora / una volta, nell’intreccio / dei nostri amori / e odi mentre partivamo per conoscere gli dei dolci / e amari che ci camminano a fianco, che sussurrano la follia / ai nostri invisibili orecchi in un giorno qualunque»), il canto dei cervi, la parola straniante accanto alla lingua di vento reinventata, le stelle che non imparano a dire addio, i lillà di Santa Fe, e culminano nella nascita della figlia Rainy Down, avvolta nel mito e nel tempo:

«Devo prendere parte al sogno di crearti nella memoria, feci coppa alla tua testa nella ciotola del mio corpo, mentre gli antenati si mettevano in fila per darti un nome fatto dei loro sogni, gettati ancora una volta in questa cerimonia dei vivi, tredici anni dopo. E quando nascesti ti tenni umida e dischiusa, come una farfalla appena nata nella crisalide del mio corpo. E respirai con te quando prendesti il primo respiro. Allora la tua promessa fu di proseguire come tutti noi, in questo immenso viaggio, per l’amore, per la pioggia».

Lo scavo nell’umano è una narrazione d’amore e energia splendente. La poesia diventa permeabile e porosa, recuperando ogni possibile lateralità e catturando le fragilità e i dilemmi. È una forza immersiva che si impasta alla terra per respirare, per essere suono che nasce nella profondità della pelle, nel dolore e nella morte, e, infine, diventare dono e passo nel vento, canto del mattino e mappa del mondo, come recita un’emblematica poesia Il sentiero verso la Via Lattea passa attraverso Los Angeles:

«Questa città dal nome degli angeli appare nuda e priva di qualsiasi cosa / che assomigli allo scuotimento di gusci di tartaruga, / a canti di voci umane / in una notte d’estate fuori Okmulgee. / Eppure qui c’è un’estate splendida. Il bagliore degli dei / si percepisce facilmente all’alba o al crepuscolo, / quando quelli che qui ci ricordano nella vana speranza del mercato / si voltano verso il moto del sole dicendo i nostri nomi. / Per qualcuno siamo importanti, / dobbiamo essere importanti per lo strano dio che ci immagina mentre roteiamo / insieme nel cielo scuro sul sentiero verso la Via Lattea».

Harjo J., Un delta nella pelle. Poesie scelte, 1975-2001, a cura di Laura Coltelli, Passigli, Bagno a Ripoli (Fi) 2018, pp. 192, Euro 18,50.

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Harjo J., Un delta nella pelle. Poesie scelte, 1975-2001, a cura di Laura Coltelli, Passigli, Bagno a Ripoli (Fi) 2018.

-          Ancestral Voices. Interview with Bill Moyers, PBS, 1989.

-          prefazione a Secrets from the Center of the World, University of Arizona Press, Tucson 1989 (trad. it. A cura di Laura Coltelli, Quattroventi, Urbino 1992).

Battaglini I., Lezioni alla Scuola di Psicoterapia Erich Fromm di Prato, a.a. 2017-2018.

Galaverni R., Un vecchio pellerossa canta dentro la mia voce, in “Corriere della Sera – La Lettura”, 11 febbraio 2018.

 

[1] Harjo J., Un delta nella pelle. Poesie scelte, 1975-2001, a cura di Laura Coltelli, Passigli, Bagno a Ripoli (Fi) 2018.

[2] Coltelli L., Mito, storia, identità: la poesia di Joy Harjo, in Harjo J., Un delta nella pelle, cit., p.5.

[3] Id., cit., p.6.

[4] Galaverni R., Un vecchio pellerossa canta dentro la mia voce, in “Corriere della Sera – La Lettura”, 11 febbraio 2018.

[5] Harjo J., prefazione a Secrets from the Center of the World, University of Arizona Press, Tucson 1989 (trad. it. A cura di Laura Coltelli, Quattroventi, Urbino 1992).

[6] Galaverni R., cit.

[7] Battaglini I., Lezioni alla Scuola di Psicoterapia Erich Fromm di Prato, a.a. 2017-2018.

[8] Ancestral Voices. Interview with Bill Moyers, PBS, 1989.

[9] Coltelli L., cit., p. 7.

[10] Id., cit., p. 12.