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La fermata nel deserto di Josif Brodskij

 

 

 

 

 

 

Quando nel 1987 Josif Brodskij (1940-1996) fu insignito del Premio Nobel a Stoccolma tracciò il suo itinerario e la sua mappa di padri: Osip Mandel’stam, l’Achmatova, Marina Cvetaeva, Robert Frost, W.H. Auden.

Sono una comunicatio idiomatum. Ossia la comunicazione che si versa nella lingua, che si porge alle radici della lingua.

Era nato a Leningrado il 24 maggio del 1940 da genitori ebrei, respirando la Neva e l’origine della potenza polifonica della letteratura russa.

Ma Brodskij è un’anima esule, un contorno di terre e di occhi, un ponte che abbraccia terre, nazioni, idee. Il tempio del suo affresco si poggia sul limite della terra, sul cuore della politica, sulla coscienza.

Il suo talento non piaceva alle autorità, alla dittatura che offriva capogiri ideologici e oscure stanze.  Le sue poesie sono clandestine, come lo è la sua anima, percorrono la denuncia e il bordo delle linee d’orizzonte.

È una poesia di luoghi nei luoghi, anzi, percepiscono la loro unicità e decadenza, come un cuore di memoria ed estasi.

La città sono le sue tinte: i colonnati, le luci e i fuochi pallidi e accesi. In quel punto gli occhi e la memoria «operano con inusuale acuità».

E poi l’acqua, la sua densità che si ammanta nel Tempo, il vento delle alghe, lo specchio prodigioso delle cose, come uno scroscio festoso, un vibrare di suoni: «Che si stenda pure l’ombra dell’assurdità / nei miei occhi, e che si assorba l’umidità / nella mia barba, e il berretto – a sghimbescio – / coronando questa oscurità, appaia, / come quel segno che l’anima / non deve attraversare – / non aspiro ormai / alla visiera, al bottone, al colletto, / allo stivale, alla manica. / Solo il cuore ad un tratto comincerà a battere, sentendomi da qualche parte trafitto. Il freddo / lo scuoterà, cadendo nel mio petto.».

Ha perduto e raccolto questa pulsazione, nei suoi cambi continui di lavoro, irregolari come la sua versificazione, la sua sintassi complessa, e l’immaginale religioso che intesse silenziosamente i suoi fili lucenti: “Ho sempre aderito all’idea che Dio sia tempo, o almeno che lo sia il suo spirito. [...] In ogni caso ho sempre pensato che se lo spirito di Dio aleggiava sopra la faccia dell’acqua, l’acqua non poteva non rifletterlo. Da qui il mio debole per l’acqua, per le sue pieghe, rughe, increspature e – poiché sono un nordico – per il suo grigiore. [...] è  questo, in definitiva, che ti porta a questa città – al mondo che la marea porta l’Adriatico e, per estensione, l’Atlantico e il Baltico”.

Aveva conosciuto Anna Achmatova, Robert Lowell, assaporandone la limpidezza e l’innovazione, la costruzione di un respiro senza compromessi e di un tuono dolce. Si era nutrito di letteratura polacca (Milosz, Herbert) e aveva tradotto i poeti inglesi come Donne o Hopkins, che percepiscono la geometria della visione, in un concetto che si dilata: «prendi / la penna e il foglio di carta pulito / mettendo una perpendicolare ritta, / come un appoggio al cielo, / fra i nostri due – si punti: [...] così, il distacco / è un tracciamento diretto, / e una coppia d’amanti bramosa dell’incontro / – il tuo sguardo e il mio – / verso la sommità la perpendicolare / sale, senza trovare / un riparo, malgrado le altezze / delle montagne, fino ai reumatismi nelle tempie; / e questo è un triangolo!» o ancora: «Come due rette che di disgiungono in un punto, / interessandosi, ci congediamo. È difficile che / ci rivedremo di nuovo, se anche fosse il Paradiso o l’Inferno. / Due di queste vite di aspetto postumo / sono solo la continuazione dell’idea di Euclide.)».

Fuori dalla Russia, espulso e reietto, viaggiò per tutta l’Europa: Vienna, dove  incontrò W.H.Auden che abita la prefazione delle sue liriche, sottolineando la capacità di Brodskij di : “ immaginare oggetti materiali come segni sacramentali, messaggeri dell’ al di là”, e poi gli Stati Uniti, l’Italia (Roma, Firenze, Venezia, dove è sepolto).

Il luogo è la sua fervida lente poetica, in cui celebrare il passaggio, la soglia e la sosta delle cose, come richiamo alla paterna patria: «C’è una città in cui non c’è ritorno. / Il sole batte nelle sue finestre, come su specchi lisci. Cioè / , in essi non penetri [...]. Là sempre scorre il fiume sotto sei ponti. / La c’è un posto, dove si serrò con le labbra / anche alle labbra e la penna ai fogli. E / là s’increspa dalle arcate, colonnate, dai spaventapasseri di ghisa; / là la folla parla, sovraccaricando l’angolo tranviario, / nella lingua dell’uomo che morì».

È una poesia che conosce il sommovimento e l’anti-lirica, che viaggia nelle faglie sotterranee della dinamica umana, con metafore profonde e incisive finendo per frequentare la rivelazione e la penetrazione dentro il magma della realtà: «Una calza strappata su di una pietra, / curvata nel buio, come un cigno, / guarda il soffitto dalla svasatura, / come se fosse una rete che si annera».

La dimensione solitaria, la lentezza della meditazione sui passi sommergono e immergono il canto, in un deserto di ere e di partecipazioni lontane.

La sua galassia poetica trama la sua irreperibilità, la sua voce sommessa: «Tutto si è allontanato … / Tempo. Destino. L’idea del destino. / La memoria di sé è rimasta, solamente, / una voce sommessa. Niente più».

Nei disegni verticali del tempo, nelle forme lasciate dall’impeto vitale del reale c’è un ultimo spazio di unione, di risposta, di percorso.

Nell’attesa si compie l’itinerario del suo tempo, un’ansia di paesaggio e di linea, la sua frase d’anima: «Scrivo questi versi, seduto all’aperto su una sedia bianca,/  d’inverno, con la sola giacca addosso,/ dopo molti bicchieri, allargando gli zigomi/ con frasi in madrelingua.// Nella tazza si raffredda il caffè. /Sciaborda la laguna, punendo con cento minimi sprazzi/ la torbida pupilla con l’ansia di fissare nel ricordo/ questo paesaggio, capace di fare a meno di me.».

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