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La lenta conquista frugale di Maurizio Cucchi

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Dopo quattro anni, Maurizio Cucchi (1945) torna alla poesia con Malaspina (2013), pubblicato per Mondadori, richiamando, ancora, la pienezza vitale e lo scavo della parola, come vertigine feconda e come pienezza di passaggio.

La porosità, la velocità e l’ esattezza delle sue liriche recitano in un lungo paesaggio cittadino, la sua Milano, che condensa, come già avvenuto nel suo romanzo La traversata di Milano del 2007, uno scenario umano duro e potente, un raggiungimento che non si nasconde, aprendosi alla riconciliazione, al filtro della memoria e dell’infanzia e, infine, alla ferita del tempo.

Un viaggio che si fa permeabile e fecondo, spogliandosi di ogni fattezza astratta, ma, altresì, descrivendo, in un magma originale e luminoso, la descrizione del mondo, l’emersione del reale che si pronuncia in un battito senza definizioni, «in prima persona / in modo diretto e libero / come ho finalmente imparato».

Lo sguardo si impara senza filtri, l’umanità che si incontra è il sorriso di una sperdutezza di luoghi, con i segreti, le promesse di sfondo, il cosmo di una città che introduce la sua parabola storica ad ogni istante e in cui «Ogni dettaglio è oggetto, è specchio, / specchio di noi, del nostro / esserci, del nostro transito ignoto, / gioioso sforzo o lamento».

La sezione di apertura, Berretto a sonagli, introduce il gioco delle maschere, proiettato in una scena che non conosce infingimenti «verso strati / sempre più occulti, come / un archeologo, o un operaio / che manovra, nell’ignoranza / senza fine delle tenebre».

Lo sprofondamento successivo «fisico e temporale nel passato», come lo definisce Alberto Bertoni, nelle note di copertina, «senza nostalgia né rimpianto per un «buon tempo antico» del tutto inesistente», impone all’io una velocità di pre-esistenza all’istante che accade, come risalita di radici, in un viaggio di catarsi, senza antichi detriti e in cui il passato assurge a varco e seme infinito.

Gli odori e gli oggetti compongono il mosaico di ombra, che perlustra e mette in relazione con il passato, come transito di rimandi e sintesi orientata: «L’odore di acido fenico / mi stordiva, mi respingeva./ Aveva un gran bel nome, lei: Anita / Bellingieri e si vantava / dei suoi forse fittizi quarti / nobiliari. I suoi cassetti / traboccavano di dannunziani / fazzolettini in seta, bigiotteria, / borsette e caramelle. La vedevo stupito / e a disagio, quasi un ranocchio / nel finale, nel letto alla Baggina, / incartapecorita e tutta grinze».

La consumazione del reperto memoriale sembra divorare ogni scheggia di luogo, ogni radura di ricordi ed emozioni, lasciando oscurità e sparsi frammenti: «La mia memoria, infatti, è una cantina/ e nell’umido dei suoi muri marci,/ sgretolati, sento l’impronta strana,/ invisibile dei defunti, delle loro mani, / come nei sordidi recessi nascosti/ albergano funghi, mucillaggini e insetti,/ topi che guizzano e acute muffe».

La poesia di Cucchi celebra questa sedimentazione aperta (Nel cortile delle giovani mamme), che accorda anelli familiari fissati dal tempo nel tempo, sosta nel fitto di oggetti e impressioni, come passaggi di terra rimossi e rilasciati («La macchina raspa indifferente, / scava a terra la benna in una nube / di polvere nera. Raspa mossa / da qualcosa che non so, guidata / va sotto e sommuove la terra, / i suoi strati, i depositi, gli insetti / enormi del sudore notturno»), e evoca il dialogo scherzoso dei cronotopi, in una sosta primordiale e felice: «Mi godo brevi soste felici / di sospensione e improvvisa / adesione. Mi oriento / verso un modo più affabile / e poroso».

Malaspina, il laghetto alle porte di Milano, suscita frescure e gite aeree («Ma che cos’è Malaspina? Una voce, / una strana parola, il laghetto / che passava fresco nella stanza buia, / per il ristoro verde di una gita aerea. / Lo rivedo adesso nel gelo, nel bianco / totale, in un estremo paesaggio ghiacciato, / siberiano»), ma anche spazi rattrappiti e solitari («alla fantasia, che si compiace / di un’escursione che il tempo ha già ibernato») rappresenta l’evocazione di ricongiungimento e di disambiguazione mai franta, attorno alle quali ricostruire il presente sospeso, il frammento di storia e esistenza, nei grumi di fango, nella memoria prenatale.

Il «vecchio film perduto» è la vita che si snoda nei suoi nodi ritrovati e ritrovabili, come «Residui minimali, frammenti / chissà perché incisi nella memoria» e su cui «il pigro sorriso o un’emozione» impara a risalire nel buio, nel tratto epifanico dell’universo, nella sospensione e fusione della storia, singola o collettiva in «un’alchimia infinita e di infinite sequenze di informazioni secolari».

Nella sezione Macchine movimento terra, Cucchi concilia opposti (le macchine, la terra), affonda nei residui, come grido e sguardo indocile contro la fine inespressa e umbratile («Nel tempo che invece non esiste/ che è un’illusione o solo svolgersi/ ordinario di un sé fino a maturazione/ e fine, sbando definitivo e arresto/ per lo spin del misero soggetto/ nel paradosso semplice del mondo,/ giacciono strati, subsidenze, depositi/ di inesplorata materia remotissima») e, richiamando, l’inesausto moto della luce sospesa: «Perciò io adoro il presente/ perché solo il presente contiene/ tutto quello che è stato/ ma il presente sospeso, la luce,/ questo blocco di terra pressato».

Il realismo esistenziale, già denso e ricco nella precedente raccolta Vite pulviscolari (2009), è la traccia dell’apertura dell’abbandono e della perdita, che aderisce all’hic et nunc dell’attesa smisurata e della sequenza infinita («Un cappello chiaro, un panama / elegante appeso su una giacca / stropicciata di lino beige / è il primo avvio, l’immagine / primaria di un felice abbandono. / Felice? / Segue, poi, nel giardino dei gatti, / la sedia a dondolo di vimini / consunta, scolorita, sbucciata, / in mezzo all’erba e alle lumache. / Sedile solitario e appoggio / rapido per merli e tortore. / è bene che ogni cosa venga a noi / nella pienezza fisica della sua natura / come lenta conquista frugale. / Come conquista frugale»), alla semplicità di una proiezione esterna che si allontana dall’estremità divorante dell’io, per condensarsi, come il Professor Lidenbrock, protagonista del capolavoro di Jules Verne, e affermare lo scandaglio accesso all’esistenza, oltre le alienazioni del sé e verso la precisione del richiamo, della fantasia interiore, delle relazioni non sbiadite: «Lezioni d’abisso….Anch’io / me ne intendevo, quel poco, e sarei sceso / con l’altero, irascibile professor / Lidenbrock giù fino al profondo / esplorato dall’islandese, Arno / Saknussemm, tra crosta e mantello / viscoso, penetrando nelle caverne / interne, negli oceani, nelle vaste / foreste di alte muffe a ombrello, / dove alberga, chissà, il fenotipo / indefinibile e cieco, trasparente / e strisciante, lo speleotipo onirico, / fino ben oltre fino alla discontinuità / di Gutenberg, naturalmente, e poi / respinto fuori dal cratere a Stromboli / o forse proprio fino all’Etna».

Il capitolo finale del libro, Console o capitano, l’approdo dell’io narrante si ferma nei vari strati di pensiero e nei personaggi unici e irripetibili, come il console di Sotto il vulcano di Malcolm Lowry, o il capitano, personaggio inventato, amico di Gadda e di Guido Keller, fino a rompere i confini multiformi e inesplorati di un’umanità vibrante che chiede di relazionarsi al mondo, alla sua forgia osmotica e metamorfica, per vivere appieno la sua istanza: «Eppure lui, il capitano, uscendo / dalla terra rovistata a fondo / negli strati, lo ritrovo in mia vece, / gli occhi sbarrati, spiritati, mi ritrovo/ in quella foto, appunto, del già militare, / folle, come dicono concordi. / Militare, per sempre militare. Lontani / i tempi del suo compagno austero / e goffo, adorabile, altissimo, / e come lui infelice, e burocratico, / nel suo fiero decoro. Ed è così / che sono scivolato in lui». 

La nettezza della poesia di Cucchi annuncia un’adesione, un pronunciamento di terra «senza confini ignoti», un crogiolarsi in un abbandono, quasi animale. In questo, la sua forza e la sua verifica, verso «un mondo intero da annusare, da tastare / e da leccare, come un cane» e «nel presente assoluto, animato / della pace normale dell’esserci / senza conflitti e sfide, senza / miserabile calcolo, ma / nella pace e nella più normale / armonia discreta dell’esserci».

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