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La mancanza rigorosa di Silvia Bre

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Da quale barricata misteriosa si muove l’ascolto umbratile di Silvia Bre? A quale proscenio rimanda la sua mancanza icastica e rigorosa?
Leggendo le trame de La fine di quest’arte, edito da Einaudi, la percezione esatta del mondo fa i conti con la rivelazione del molteplice, l’evocazione dell’altrove, la germinazione franta di luoghi e tempi ultimi.
Questo testo, però, rappresenta l’esito di una domanda che conosce ferite e percorsi sul limite di una figuralità che cerca approdi, si confronta con la fine, la indaga nei primordi, affrontando, infine, a viso aperto il mistero della realtà.
Ma di che fine si parla qui? Le ascisse di un’arte che, con la sua povertà regina e il suo baluardo d’umano, respira la ricchezza vivida di ciò che non è incastonabile e percorribile, ma che rimane uno sfumato rappreso e decentrato, come scrive Giovanna Amato: «Si potrebbe dire che La fine di quest’arte ha il registro di una nekyia, se tutto quanto chiamato attorno non fosse più vivo del vivo e se questa prevedesse tutta la spietata tenerezza, il senso domestico di resa verso quel varco della mente che è il pensiero, il suo formarsi, il suo chiedere cova».
E la fine è scrittura che si sperimenta, che scrive bava «e dopo perla / e poi collana / chissà se mai compaia controsole / la pagina spiegata che le avvolga / qui tutto si dipana da due occhi / che nel bruciare si scavano una tana / ne va di un mondo / un punto che lo aspetta / e lo pretende senza / aver ragione / devo scrivere bava / e dopo perla / e poi collane».
Questa introversione della mente che si appropria della recessa stratificazione inconscia ritrova il corpo di una risonanza lieve e di una ricerca oltre-forma che raccoglie alterità e epifanie: «Panorama montano, un mare di reale / non si distingue nuvola da neve e gioia / dei loro nomi capitati insieme / ti stacchi, dorsale tutta bianca / dal corpo di una risonanza lieve», o ancora: «[…] che cielo, nella conca di un soffitto / quale calmo delirio, che lezione – / un caos sceso da un ordine lontano / da qualche dio animale che ci accorda / o tempo rinvenuto su dai morti / a dimostrare come si resiste – / sei luce capovolta di una lingua / che porta come sempre in sé i sepolti / i padri ancora vivi da cercare».
Scavare nella scena del giorno come pazzia avvistata, calibrare proporzioni come il bonsai che, il cui vivere «batte il proprio tempo» dinanzi alla «parata minima dei rami sotto la luna», significa richiamare la condensazione della voce al suo «dare spazio a qualcosa / al suo passare» che abbraccia, contenendo e ripiegando, la multiforme proprietà delle cose e il loro agguato, la natura e il suo ascolto, come se, scrive Cinzia Demi, «da questa dovessero venire le risposte per capire i passaggi necessari e vitali degli stati d’animo, del trascorrere del tempo, della dimensione stessa dello stare al mondo. E nello sforzo è come se il poeta si perdesse per ritrovarsi a seguire una verità che sembra non valere ma, che non può far a meno di seguire».
La sua discreta e caleidoscopica oracolarità fonde il suo essere in un richiamo all’alterità che diviene adito, serratura e manifestazione: «Ecco la notte, ciò che ti oltrepassa / e ti lascia dove non sei / dentro un altro dominio / dentro un altro. / Solo un gallo ancora muto che non vedi / è più che mai il suo canto / nell’aperto di un’idea, in un’alba / che viene e viene tanto che ti svegli».
Questo sopravvento ha colori distorti, fremiti di pupille, come essere in balìa di un arrivo atteso, di una esposizione al cerchio di un confine.
Ma laddove il gelo delle distanze si impossessa del suo stesso vortice, la tensione dell’io scava la rinnovata affermazione di una lingua che distende e sprofonda, affermando la sua intensa perforazione: «nessuno si sorprende se di colpo / viene invaso da un vento madornale / una presenza / che si disegna intorno e dà ombre / costellazioni / strade in cui senza riconoscerle ti vedi / e dove ciò che avviene / è come pare / al punto di strappare dalla voce / nomi da inaugurare appena nati / chi li pronuncia è sveglio e dice giorno / come dicesse l’essere del mondo».
L’oscillazione della parola, pertanto, si affila appartenendo al regalo di «uno sguardo che tiene / tutto», nel riguardo della brevità che è purezza esatta, lotta ed esercizio di libertà «come la cerva vede / una costa innevata di montagna / da questo crinale esercita / alla morte / dall’altro / inosservata, salta».
Il bilanciamento dell’essere e del non essere, le situazioni in cui la realtà accade divengono impressioni acute in cui l’inseguimento alle cose assomiglia a un rapimento dell’anima: «Anima, come ti fuma il tempo / tutta rapita dentro / una miseria più grande della mia / a tanto si riduce l’infinito / tu sapevi distinguere / i significati / ora servi a versare / questa verità nel nulla / e io sono il tuo cane che t’insegue».
Allora la via fatale d’essere è scavo e dimensione corporea, come necessaria intonazione e grido, in cui il proprio essere, appunto, trova destinazione e allontanamento nel luogo dove «il silenzioso guardarsi delle cose / ha bisogno di noi» e la geografia del puro pensiero dello stare nel mondo è permanere come «pensosi avventurieri dell’umano, / si è la forma / che si forma ciecamente / nel suo dire di sé / per vocazione».
Ed ecco che il contatto terrigno si fa legame docile (in Marmo del 2007 aveva scritto «così noi ci leghiamo docilmente / per un disegno d’astri / così siamo la terra che risponde») e un assalto alle cose senza dualità, attraverso una sapienziale esposizione: «Come quando in una qualche stagione / spicca l’istante che la farà nostra / – bagliore / che porta alla ricerca / di quell’orma precisa in cui tornare» e dove si rinviene, nell’accompagnamento primordiale, la primigenia distesa del corpo: «Ma pensare, pensare è affrancarsi, / mentre che sogna addormentata nella terra: / in te che mi riguardi e sei / quello che sono / distendo questo mio corpo fedele / nato per raccontare della luna
quando va via da sé / quando senza più noi va da nessuno».
Il 5 agosto del 2010 (fino al 13 ottobre) trentatré minatori di San José di Copiapò in Cile rimasero sepolti, a circa settecento metri di profondità, per il crollo del tetto della miniera sotterranea: scampati alla morte, esibirono un cartello Estamos bien, come prima emersione da quel luogo durante il salvataggio. Silvia Bre scrive, pertanto, il suo entierro (letteralmente sepoltura ma anche rito di processione pasquale con il Cristo morto) come grido e mormorio di detriti, poiché il buio che consuma ci riporta alla giustezza del nulla e l’edificazione di un’atmosfera di ombra è tenersi in vita, tenere la vita e vivere: «[…] Che storia godere da vivi la fama dei morti: / ogni momento sta naturale nella sua purezza / come piombato in un emblema d’oro / ogni parola pesa il suo giusto che è miracoloso – / ha nevicato in tutti noi oggi / perché qualcuno ha bisbigliato neve. […]».
Il fiaccato Eden di Narciso è mito doloroso di specchi cristallini. come l’urlo della parzialità delle braccia: un disegno vivo, la stregata aria che sussurra nell’anima persa sull’acqua, dove il buio senza ritegno è luogo in cui cadere e i passaggi della mente «si spartiscono un’accensione» di chissà quale fiammata «senza cui vivere è glaciale».
La teleologia di Silvia Bre è sirena di spazi e luoghi interminabili, cadenza di vivi, dolore primario e mancamento sbieco, «dove l’acqua non si allontana / troppo dal cielo / e confonde anche noi / specchio di specchi / con qualche cosa che non smette mai / mentre il reale brilla / e vedere è tutto un mancamento / si sente fluttuare il tuo nobile nulla / se da tanto fragore io ti parlo / ora come ora / senza colare a picco / se io parlo così / come a nessuno e dico / in bilico nel vento della memoria / questo orizzonte umano da fissare / è perché vado poesia / nel tuo mobile senso / scia di una felicità / della cui apparenza vivo».
Afferma ancora Cinzia Demi: «Dunque, se l’arte come essenza del reale, può trovare la sua fine fuggendo da se stessa, da tutto ciò che resta, quale può essere il risultato? Come confrontarsi col reale? Meglio fuggire da tutto? E il poeta ancora e ancora guarda all’arte, affronta i cammini più impervi cercando di confrontarsi con la sorella scultura dalla quale prende, in parte, spunti ulteriori di riflessione: «ecco lo spazio da assecondare /da distrarre con luoghi irresistibili /e noi, le sirene…» dice il poeta e pensa, nel capitolo finale, a Francesco Borromini col quale si relaziona dopo un confronto con il peso che può avere, comunque, l’arte dentro chi la contiene».
Il suo originario scenario è composto di prospettive frontali, accenna ampie comprensioni e nascite, come ritmo che si annuncia, finendo per tradurre il suo sforzo in stravolte percezioni: «[…] ho virato ogni punto / in una linea / poi l’ho inarcata in una superficie / poi ho tradito i muri con le ombre / la vetta delirante / dall’andatura eterna / ancora frena, s’avvita / verso qualche sua tana / sopra il suolo di Roma / mio centro / mi traboccava intorno come una trama che dilaga / tra spirali d’azzurri, scorci d’arancioni / la toccavo in un grande silenzio, con le pietre / le ho mimato il mio amore tortuoso in colonnati di adorazione / in pallide facciate malinconiche / mi sono opposto alla spinta che innalza / e porta via le immagini / l’avido morso della mente / condensa / in una forza unica / la potenza vuota che sta nel cielo […]».
La raffigurazione delle sue lacune e delle sue vedute ha fuochi d’incendio: è il fine del nostro limite lucente e doloroso, l’istante in cui la stoffa creaturale investe l’adamantina luce del nostro sperpero e della materia trasfigurata: «Ma se quelli raccolti intorno a un fuoco / i rapiti da una così lontana cosa da non essere lì / se quelli che sono qui perché son corsi / dietro un’immagine che li ha trapassati / prima di andarsene / e dunque noi che sentiamo le voci / venire dalla note / con le nostre parole e altri accenti / il loro insieme barbaro che sa le storie delle pietre / degli oceani / noi tradotti in un luogo sconosciuto per essere lacune / d’altri luoghi / segreti vivi che si pentono di non poter tacere».

SILVIA BRE, La fine di quest’arte, Einaudi, Torino 2015, euro 11.

La fine di quest'arte