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La parte in ombra di Sergio Zavoli

Rispecchia il nostro tempo la poesia di Sergio Zavoli, nelle pieghe del linguaggio, nello spazio memoriale, nelle pagine dell’anima, dure come il silenzio che diviene parola.

Il poeta è tale quando riesce a spalancare l’esistente e a mettere a fuoco la realtà nelle sue proporzioni e nelle sue dismisure. Leggere oggi la poesia di Zavoli, lucido interprete della società italiana e delle sue contraddizioni, significa respirare la stessa aria decifrata, percepire l’orlo delle cose (come nel titolo di una sua raccolta del 2004).

Non è solo indagine sui disastri della nostra storia recente, con l’acutezza del giornalista o del critico, ma è lo sguardo puro del poeta che colloquia con ciò che non comprende, anche metafisicamente.

L’elegia, la notazione del diario “…garriva l’indumento sacro di lei”, l’epigramma che è sempre secco come un fendente, l’ironia hanno il sapore della decifrazione. La memoria è sempre espressione poetica, perché è paragone dell’uomo con la sua mancanza, con la sua incompletezza talvolta dolorosa o ricolma d’affanno, ma sempre piena di speranza ineffabile (“Tra gli orrori umani nessuno / più ricorda le grida delle tribù”, “Patria, non hai più chi ti nomini, / il tuo nome è perduto”.)

Scrive Carlo Bo: “Zavoli aveva dunque in serbo un discorso poetico che ci auguriamo lungo. [...] È evidente il disegno di tenere dentro il quadrato della lucentezza, anche espressiva e stilistica, la forza e gli urti della coscienza”.

Tra la rimembranza e il sogno, in un territorio di personaggi e vie, percorse dal fremito dei vetri e degli occhi, si trova il suo itinerario poetico. Il lettore ne sente il peso come una “sintassi di parole mute”. L’ombra è il segno che sembra far brillare di più la nostra consistenza (“l’ombra albina del sole”), è ciò che permette al buio di essere luce, nell’affanno di un ristoro di pace, in cui far riposare la propria voce, in un bilico di appartenenza. La parte in ombra è il titolo della sua ultima raccolta, vincitrice del prestigioso premio spezzino Lerici Pea, che viaggia tra la dimensione familiare e l’immagine nitida di volti e figure mai dimenticate e lucenti: Fellini, Luzi, Montale, Bo, Gatto, Zanzotto, Nelo Risi e il fiorentino Caffè Giubbe Rosse.

Ma la dimensione familiare è più congeniale alla sua forma poetica, quasi come se la sua densità trovasse respiro ampio, solco sottile di nuova nascita, dimensione domestica universale: “Siete venuti entrambi da una storia/ solo in cerca di voi, ed ecco/ quel piumare di seta sul tuo corpo”.

I suoi versi vibrano di intensità struggente e sembrano non offrire riposo agli occhi, assuefatti alle assurdità di un tempo convulso e astruso. Il terrorismo, la morte sfinita di giovani vite a Baghdad, la strage “con le schegge dei banchi dentro gli occhi” di Berslan risultano come sillabe spezzate, frante, in un legittimo e umano bisogno di vita, per custodire “i litorali dello sguardo”.

Cosa rimane del tempo presente? A questa domanda umana sembra porgere l’orecchio il poeta e l’uomo Zavoli, ma qui “nessuno più rovescia le clessidre” e “si può restare al mondo come uccelli/ con l’ala trapassata”,  ma la soluzione resta sospesa come un filo tenue di pochi versi, di pochi istanti limpidi: “ardere dentro il ghiaccio, / solo così si scioglie il nostro inverno”.

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