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La plenitudine di Jorge Guillén

Jorge Guillén

L’intimità poetica di Jorge Guillén (1893-1984) esclama la sua affermazione, e nella grande varietà metrica e stilistica, insinua la attualità dell’esperienza, la germinazione elementare, il battito del respiro che impone relazioni e segni con la realtà, in cui la purezza fatta realtà vivente si appropria della aspettualità della luce e coincide con l’intimità della bellezza, dello spazio e dell’aerea forma delle cose, per dar loro la regalità di una feriale vitalità allegra che offre legami e respirazione al mondo.
L’appassionata ricerca di luce diamantina promana la sua mai abrasa lucentezza come abbandono alla perfezione istantanea, come gioiosa ed esistenziale generazione, in una chiarezza abbagliante (come scrisse Dàmaso Alonso) che non «crea mondi illusori o magia, contribuisce semmai all’arricchimento di chi vive esaltando il proprio vivere. Nessun desiderio dunque, di creare paradisi misteriosi, solo l’aspirazione a rivelare il meraviglioso dentro l’esperienza terrestre quotidiana» (Roberto Giacomelli).
Scrive Francesco Tentori Montalto su «Poesia» del settembre 1993: «Tutto nella sua poesia è affermazione (il sì vi ricorre con una frequenza che ha dell’ossessivo) e vitalistico ottimismo: un sì al creato, agli esseri, al destino; un sì opposto tenacemente a ciò che di negativo, di opaco, di nemico si cela, o si manifesta, nelle cose e nell’ordine del mondo. Tale la sua cifra, la sua fisionomia permanente. È stata anche definita, questa poesia, ascensione dal contingente all’assoluto e scoperta dell’assoluto nell’intimo del reale; s’è parlato di metafisica dell’universo sensibile e del sentimento di meraviglia ed esaltazione che colpisce il poeta di fronte all’Essere […] ma sotto la forma mirabile palpita l’umanità indifesa, si disegnano idilli animati da una misteriosa comunione con la natura e il paesaggio, si rivela uno spirito addirittura castamente romantico, per il quale la bellezza assurge a spiritualità e a una (ancora) jimeneziana malinconia».
La ricerca della purezza («bastante pura») diviene una emersione dalla corruttibilità del provvisorio: la creazione, quindi, per Guillèn, insegue la sua idonea bastevolezza e la sua idonea fondatezza, il rigore e l’analisi elementare, la concisione come estreme economia espressiva che desidera impossessarsi della densità dell’istante e della estasiata perfezione dell’universo: «(L’anima torna al corpo, / E si dirige agli occhi / Sbatte). Luce! Invade / Tutto in me! Meraviglia! / Puro ancora, enorme, / Chiude il tempo. rumori / Irrompono. Che salti / In cima a quei bagliori / Ancora non intensi / Di sole ingentilito / Di raggio risplendente / Per diffusa dimora, / Via via che si presentano / Tutte le consistenze / Che all’ordinarsi in cose / Fissano i miei limiti! / Ci fu un caos? Già remota / la sua origine, mi offre / Tra fervore di luce / fresco in scintille. Giorno! / Ed una sicurezza / Si stende, spande, guida. / Lo splendore concentra / L’insinuata mattina» (Più in là).
Lo studio dello splendore sembra concentrarsi nel proficuo battito recitato della luce con fatale bramosia. Il vigore della creazione rende e afferma il suo omaggio profondo e aereo alla comunicazione delle cose, alla memoria degli astri, al mistero alluso degli enigmi, in cui la nominazione circonda le «giunzioni vincolate / che ad ogni istante serrano / Appena in equilibrio».
È nella completezza mediata, nella vastità della luce persistente che la composizione di Guillén trova parola, fiato e comunione, solo impercettibilmente astratta, come sostiene Manuel Durán: «Poesia del dialogo, della comunione, di amicizia, è la poesia più concreta, anche se in un conteggio del vocabolario a pesare è una percentuale di parole astratte: rimaniamo nelle «horas situadas», ossia, la parola è essenziale, saldamente ancorata nel qui e ora, in un tempo e in uno spazio molto precisi, nelle «maravillas concretas» del quotidiano. E per stabilire una continuità tra gli esseri, è importante che esista – e ciò le poesie lo descrivono – un intermediario, un sistema fisico e definibile tra il corpo del poeta e la presenza fisica delle cose intorno a lui».
L’entusiasmo che Guillén decreta garantisce nudità verbale, spoliazione di ogni ornato rappresentato, per confinarsi in un equilibrio armonico che spazia, omaggia la realtà e tutte le sue cromature, come afferma Concha Zardoya: «Poesia pura sì, ma non troppo: complessa, viva, alta, umile, ordinata e chiara. Contemplato universo che, nel suo realismo, fonda l’esistenza radicalmente e attraverso […] le cose, il mondo, i livelli del tempo e dello spazio afferma ciò che dice di cantare e di essere cantato con amore ed esaltazione […]» (il corsivo è mio).
Dalle iniziali composizioni di Cántico (1928) alle oltre trecentotrenta dell’edizione definitiva del 1950, Guillén raccorda il filo segreto della pienezza e delle meraviglie concrete come energia gloriosa, il dominio della realtà che si apre, in cui i riflessi lessicali celebrano il ridestarsi dell’io e del suo centro onirico «per la riconquista del mondo illuminato, “creato” dalla luce» rappresentano «un eterno miracolo» (Roberto Giacomelli).
L’eventualità del mondo, la conoscenza strettamente legata all’affezione, il mistero dell’Essere che di dona al reale, inteso come simbolo propizio, ridestano le domande dell’io lenito, laddove la chiara serenità impone la sua sollevata patina di stupore epifanico: «Il balcone, i vetri, / Alcuni libri, il tavolo. / Niente di più? Ma sì, / Meraviglie concrete. / Gioioso materiale / Converte in superficie / Manifesta i suoi atomi / Tristi, sempre invisibili. / E per un filo stretto, / O d’una presa curva / Premurosa, l’energia / Di pienezza realizza. / L’energia o la gloria !/ nel mio dominio brilla / Senza scandalo dentro / Dell’oggi, lunedì / Ed agile, umilmente / la materia distingue / Grazia di Apparizione / Qui è calce, lì è vimini».
La materia dello splendore sorregge un’architettura di segni e baluginii che spezza esclusioni e dimidiazioni. La contemplazione mette in scena l’acclamazione della meraviglia e il mondo «vale perché è, esiste veramente, perché è reale. Un meraviglioso e inaspettato regalo per l’uomo già infinitamente arricchito. Ci svegliamo, siamo, esistiamo, stiamo insieme nel mondo. E l’essere, perfino nella più pura essenza, è inseparabile dall’esserci, dallo stare. Niente di più normale, così normale da dimenticarcene. […] L’aria è con la luce la sostanza fondamentale. Viviamo solo per mezzo di questo connubio di aria e polmoni: è al ritmo della respirazione che si attiene Cántico» (Roberto Giacomelli).
Nominare la delizia delle cose che emergono dal caos, approfondire la lucidità della visione, ordinare il creato elevandolo, significa recuperare la forza primigenia di un avvenimento che si consegna e interpellare la libertà che si sente provocata. Tale forza, pertanto, consiste nel riconoscimento che «c’è questo misterioso, ma reale, sperimentabile fenomeno di una realtà che è segno di un’altra realtà […] quando giunge al suo vertice nell’esame di una cosa, nel sentimento di una cosa, la nostra natura sente che c’è qualcosa d’altro. Questo definisce l’idea di segno. […] È il punto di fuga che c’è in ogni esperienza umana, cioè un punto che non chiude, ma rimanda» (Luigi Giussani).
La densità plenaria della parola incontra le illuminazioni del reale, la proclamazione soleggiata di qualcosa di dato e offerto che irradia la sua trasparenza, che siede e risiede nel tempo, nel sangue e nel sogno, che sentenzia sensazioni e risolleva metafisiche immagini.
È l’essere che Guillén celebra, l’essenza che si fa esistenza, la molteplicità plurale che ricompongono e compongono l’armonia di un vincolo che lega il cosmo all’ontologia della lingua, l’esclamazione delle cose alle estremità ultime e alle fondamenta elementari.
Scrive Gianni Scalia: «Nel canto della poesia l’essere è dicibile, si mostra: è, propriamente, il legame fra esistenze, parole, cose. Ostile ad ogni dualismo, Guillén percepisce, più che la differenza, l’analogia di essere e enti. In questa metafisica forse neoplatonica, la simpatia delle cose, la catena dell’essere ha il premio e il privilegio ontologico, tematico, verbale sulla percezione della differenza, dell’alterità, o della “trascendenza”. La legge dell’armonia è la forma di “giustizia”, che si incarna in ogni livello della vita, dagli apparentemente remoti o infimi, ai più elevati, agli apparentemente superiori»: «Albore. L’orizzonte / Socchiude le sue ciglia / E vede. Cosa’ Nomi. / Stanno sopra la patina / Delle cose. La rosa / Si chiama ancora oggi / Rosa, e la memoria / Del suo transito, fretta, / di vivere di più. / A saldo amore ci alzi / Quel vigore agreste / Dell’ Istante, tanto agile / Che arrivando alla meta / Corre a intimare Dopo. / Allerta, allerta, allerta, / Io sarò, io sarò. / E quelle rose? Ciglia / Serrate: orizzonte / Finale. Forse niente? / Però restano i nomi».
È lo strappo delle cose al nulla, la loro salvazione come arrotondamento di folgori, l’intero battito della luce che si afferma, si assorbe alle cose e inventa il raggio dell’aurora.
Quando la plenitudine incontra l’origine il tempo dell’io diviene una inesausta processione di sensazioni di genesi e provenienze, trascrive la grazia con l’elegia dell’evidenza e la sovrabbondanza dell’essere e il suo lessico, come sostiene ancora Gianni Scalia, «è il risultato della sua operazione di compenetrazione dell’esistenziale e dell’essenziale, del corporeo e del mentale, del contingente e dell’assoluto, del sensibile e dell’intelligibile, secondo la sovrana esigenza metrica».
Il clamore, la perdita, la protesta, l’abbandono sollecitano il cuore allo spazio di memoria e di diffusiva letizia. Non gioia ebete ma giustizia armonica, cosmica vitalità che permette di vincere l’affanno disperso dell’angoscia, la miseria effimera delle cose, come implacabilità franta e transeunte.
La fiducia nel dramma dell’esistenza è l’avventura dell’uomo nella totalità, nella germogliazione dell’esistente che non rappresenta la scena dell’istante vissuto e irrecuperabile, bensì compimento della universalità grandiosa, come afferma Giovanni Scalia: «Se l’atteggiamento del poeta può sembrare contemplativo […], non si tratta di una contemplazione che si affidi all’ “astrazione” dell’essere come assenza o alla “concretezza” dell’esistenza come molteplicità e pluralità. L’atteggiamento contemplativo è, certo, ascesa dal concreto all’astratto ma, anche, discesa dall’astratto al concreto, nel circolo e nel vincolo del ser che lotta e vince la nada. Gli elementi di questo universo sono: la luce, nella sua pienezza e altezza di «forma del mediodìa» […] l’anello e la rotondità: la cima, il vertice, la linea come slancio, la tensione costante verso il culmine in forma de plenitud».
Il palpito della realtà impone circolarità tra l’opera e l’io, l’autobiografia è cinematografia geografica dorata e umbratile, in cui la varietà espressiva ed esperienziale della parola, recettiva come l’anima, sollecita sollevazioni memoriali ed emersioni oniriche insonni: «Le parole di poesia sono nomi, animazione e attualizzazione vivente, perché sono elementi dell’universo del ser, che è l’Aperto, il Compiuto come l’Iniziale; le cose, nelle parole, pervengono nella loro essenza. Nell’esperienza poetica di Guillén, “Dio” non lo si nega ma non è necessario: non è un deus ex machina, né un motore immobile, né un’economia “razionale” della “chiquenaude”. Dio, o meglio l’Essere, è l’Uno-Tutto, il vinculum degli enti, delle esistenze, di tutto ciò che è, c’è, viene alla luce, alla pienezza e al proprio sé».
L’istantanea plenitudine rivela e apre la nominazione della datità nominata, compie la sua parabola come tensione e completamento dello stupore. L’io si realizza nella relazione, nell’essere dicibile, nell’amore sospeso nell’elegia disarmata, come piena forma e estremità meravigliata: «In te si fa profumo anche il destino. / Batte la vita tua non mai vissuta /dentro di me, tic tac di nessun tempo. / Che fa se il sole estraneo non illumina / queste figure da noi non sognate, / create sì, dal nostro doppio orgoglio? / Non conta. Così sono più veraci / che parvenze di luci inverosimili / negli scorci dell’obbligo e del caso. / Tutta tu convertita nel presagio / tuo, ma senza mistero!: un’irrompente
verità di assoluto ti sostiene. / Che fu di quell’enorme e così informe / pullulare di oscuro dal profondo, / sotto le solitudini stellate? / Le stelle insigni di lassù non guardano / la nostra notte che non ha segreti. / Resta tranquillo quel profondo buio. / L’oscura eternità non è già un drago
celeste! Le nostre anime conquistano / non viste una presenza tra le cose».
La lode, la gloria, il processo fenomenologico del vivente, la passione per la realtà non si condannano nemmeno alla vecchiaia perché nel circolo del presente «La notte vuole ancora più cielo / dalla sua estate» e riposa nella sua gravida nostalgia, nelle sue sperate gocce, nelle primavere penetrate che denudano l’io di fronte allo spettacolo radente di altura di ciò che appare, nel riposo, nelle brume avvolgenti, e persino nel pericolo.
In Guillèn è forte l’abolizione dell’estraneità. L’amore è il punto essenziale in cui l’Universo promette la sua varietà infinita, in cui il paesaggio dell’anima si rende visibile e dicibile, e in cui l’essenzialità ha colore mite e unico perché «è vivere veramente […], quindi l’amata raffigura il reale e l’assoluto, che sia una dimensione favolosa o normale realtà quotidiana. È solo l’amore che può confermare che il mondo è ben fatto, ed è sempre l’amore che permette la realizzazione dell’individuo» (Roberto Giacomelli).
È il tremore del culmine strappato alla dimenticanza, come albore, è la familiarità della creazione, antica, austera e vicina, a non togliere l’affanno ma a proclamare il desiderio di avventurarsi per dire io-cosciente, per farsi dimora serena nelle stanze e destarsi, canto in quanto esistenza ed essere, infine, opera completa di sopravvivenza e amore, come cima della delizia che annichilisce passato e futuro, supera il tempo, appartiene all’eternità. Solo quando amiamo veniamo al mondo.