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La scura costellazione di Thomas Bernhard

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Thomas Bernhard (1931-1989) ha sondato la vertigine della rovina dell’anima inferma, attestandosi sull’impossibile e l’indicibile opacità delle figure, quasi sentendo il fiato corto di un cambiamento culturale estremo e in bilico. La sua poesia, pertanto, sondando l’ossessione del perturbamento e della demolizione, si è scontrata con la sperdutezza della trasparenza dell’oscurità.
Da Gelo a Perturbamento, passando per Correzione e Estinzione (scriverà infatti in uno di quei testi umbratili «Oh non farti polvere / inesauribile nella tua fama fino al confine delle stelle. / di notte balzeranno rivolti alle falci i versi / e infilzeranno i tuoi occhi / nell’immortalità. / Oh non farti polvere. / Porta con vigore i remi alle tue ossa / e abbatti il vento / che non piange né l’est né l’ovest, / ma distrugge il tormento e mai tormenta»), fino allo “smantellamento” dell’Autobiografia, alle raccolte Sulla terra e nell’inferno (1957), In hora mortis (1958), e alle folli e smascherate campiture de I folli. I forzati (1962), «quel narratore totale, quell’artista della pagina fitta e continua, quel maestro della prosa tedesca, cominciò come poeta lirico», scrive Nicola Gardini, sperimentando «la ricorsività formulare di certe espressioni, la saturazione semantica di ogni elemento del vocabolario, la continua sfida all’argomentazione logica, il collegamento delle sequenze per mezzo dell’analogia, il pervasivo soggettivismo…», e nella poesia, «Bernhard che era giovane, era tubercolotico, non aveva padre, stava perdendo la madre per un cancro all’utero, trovò la salvezza, come racconta nell’autobiografico, splendido Freddo: un mezzo per opporsi al deperimento fisico e mentale, all’aggressione dei medici, alla prigionia del sanatorio, alla perversa e idiota mentalità dell’Austria. Il mondo, il terribile mondo, all’improvviso si riusciva a tollerare grazie alla poesia, anzi, diventava poesia».
Ogni rimozione forzata, ogni spasimo terribile e viscerale, ogni luce pendente in un cenno affranto sotto le palpebre, diviene radice implorante e infelice, che segmenta lo spazio dell’espressione fino al respiro delle vene come poetica della resistenza, secondo la felice espressione di Micaela Latini, per cui la scrittura si profila come «horror vacui che è la paura della pagina bianca altro non è se non il timore ancestrale e reverenziale nei confronti della propria origine […] Scrivere (in quanto compito della propria vita) significa, infatti, assumersi l’onere di levare la propria voce contro quell’imbavagliamento, quella riduzione al silenzio, che il vincolo all’orizzonte di appartenenza (il complesso dell’origine) può rappresentare. Per questa ragione la resa dei conti con i cosiddetti altri è in Bernhard sempre una “distruzione che edifica” e che, per darsi, deve necessariamente passare anche attraverso la scrittura del sé come “edificazione che distrugge”»:

«[…] mi ero rifugiato nella scrittura, scrivevo, scrivevo, scrivevo, non so più, centinaia e centinaia di poesie, esistevo soltanto quando scrivevo, mio nonno lo scrittore era morto, adesso ero io che potevo scrivere, adesso avevo la possibilità di poetare per mio conto, osavo farlo, adesso, avevo a disposizione questo mezzo per raggiungere i miei fini, e allora con tutte le mie forze mi gettai nella scrittura, abusavo del mondo intero per trasformarlo in versi, quei versi, se pur privi di valore, significavano tutto per me, niente al mondo aveva per me maggior significato, e io non avevo più niente, non avevo altro che la possibilità di scrivere poesie».

Sotto il ferro della luna, raccolta del 1958, edita recentemente da Crocetti, impone, come scrive Vito M. Bonito, una spirale di simmetrie musicali e tematiche che

«si apre e si declina sotto la costellazione della morte e del lutto. Il respiro che muove questo terzo libro poetico si piega e si dispiega quasi a spirale, secondo una partitura di ripetizioni e variazioni, contrappunti e attriti, a costruire un’opera che, mentre recupera una sorta di armonizzazione della tradizione poetica tardosimbolista mitteleuropea e espressionista (Trakl in primis), registra altresì una lesione permanente tra natura e linguaggio, io e mondo, messa in atto da rotture parodizzanti, abbassamenti improvvisi dell’immagine auratica, incrinature tonali che tolgono risonanza all’evocazione lirica, così come a un lessico esistenziale dell’Abschied, dell’addio. Insomma una sorta di contrasto viene calcolato da Bernhard tra la componente lirica e trascendente delle sue prime due prove poetiche e una più accentuata, quanto esplicita, antiliricità che deve qualcosa forse a Gottfried Benn nel portare a dissoluzione l’io e la sua immagine allo specchio della natura».

E in questa cristallizzazione ombrosa e schiva, la poesia di Bernhard trova l’implicita e scheggiata partitura che si sottopone a una radicale sproporzione, a una concimazione concitata e desiecta, assorbita, come sostiene ancora Nicola Gardini, «[…] nei simboli di un paesaggio assiderato, un’Arcadia finita, svuotata, lo spazio di un disfacimento ultimo» dove la città, ad esempio, (incarnazione rovinosa dove l’umano è dilaniato e distante) non respira e rimane lontana e qui viene evitata o evocata nel suo terrore («Dietro l’erba e dietro la città / che trema di pensieri / dormono i timidi fanciulli, / sognano i cani neri / che mi atterriscono nel primo aprile»): : «Quest’anno è come l’anno di mille anni fa, / noi portiamo la brocca e sferziamo la schiena della vacca, / falciamo e non sappiamo nulla dell’inverno, / beviamo mosto e non sappiamo nulla, / presto saremo dimenticati / e i versi svaniranno come neve davanti alla casa. / Quest’anno è come l’anno di mille anni fa, / guardiamo nel bosco come nella stalla del mondo, / mentiamo e intrecciamo cesti per mele e pere, / dormiamo mentre le intemperie consumano / davanti alla porta le nostre scarpe infangate. / Quest’anno è come l’anno di mille anni fa, / non sappiamo nulla, / non sappiamo nulla del declino, / delle città sprofondate, del vortice in cui sono affogati / cavalli e uomini».
Vito M. Bonito commenta: «Paesaggio, trasfigurazione, corpi sono tre chiavi per leggere Sotto il ferro della luna, a patto che si proiettino tali parole nel lutto assoluto, un lutto che non finisce concretamente mai di morire. L’ars moriendi di questo libro si colloca dentro una tonalità esistenziale limite, in cui il volto della Caducità sfugge lentamente al piano storico per dispiegarsi dentro un’atemporalità ciclica e inquieta: «quest’anno è come l’anno di mille anni fa», quello in cui «non sappiamo nulla del declino».

L’opposizione recisa tra il paesaggio cittadino e l’impotenza fanciullesca destina a uno sconvolgimento di opposizioni e stravolgimenti, in cui i segni rimandano all’oscurità del significato con l’intento «di complicare poeticamente il mondo gnoseologicamente afferrabile» che «può essere o  affettato, barocco, creato per generare stupore, oppure sentito e sincero. […] La creazione di un mondo autre passa attraverso l’abbandono del contesto urbano e di quelle città che vengono minacciate da pensieri che ricordano il passato. I bambini sono ignari perché in loro scatta l’evasione, che si divincola dai lacci nel sonno e nel sogno. Eppure, anche qui Bernhard non dà tregua al lettore della sua opera poetica. Anche la timida e  quindi spontanea natura del bambino non è un porto sicuro. I «cani neri» lo raggiungono nel sonno e convertono il sogno in incubo».
In questo rabbuiamento di cieli chiari e motore immobile, nel temporale dei lupi, nella fame inesauribile fino al confine delle stelle, trasfigura il nudo paesaggio ceduo in una atemporalità desertica e polverosa che taglia e dilania il sangue, come transitoria spiaggia di detriti e residui, e come crollo di ferite che spalanca il cielo della bocca e avvolge l’amore perduto e spaesato «in boschi senza luce»: «Il gallo strilla attraverso un panno / di carne e si dilania / nel mio sangue / che in due mi sega / il petto / Beve il rosso mio / come fosse luna e ghigna / sì che sulle cime / rosse danzano / le stelle» o ancora «Le bocche si beano del fiume del grano, / silenziosi brillano i ruscelli / nelle voci della notte di luna / che salgono da pozze abbandonate / sino a mari prosciugati dalla sete. / Sparsi ai gabbiani il sale dei tuoi occhi, / ma / apri ciò che hai soffocato nelle estati / mai odorate / e crolla nella bocca della mia ferita».

Scrive Aldo Giorgio Gargani:
«Il pensare inizia quando ha fine la visione di immagini della realtà. Il pensiero per Bernhard non procede verso la visione, la luce, l’immagine; al contrario esso si addentra attraverso la sua fioritura opulenta nella tenebra. La tenebra diviene la scienza stessa del pensiero: «noi ci siamo consegnati alla tenebra come a una scienza» esclama il Principe in Verstörung (Wir haben uns der Finsternis als einer Wissenschaft ausgeliefert). Ed è in questo senso che Bernhard manifesta in Amras il disegno, immanente alla sua opera, di intraprendere la ricerca di un più elevato grado di oscurità» (La frase infinita, p.19).

La luna di Bernhard porta il suo ferro, il suo rugoso incastro che serra le palpebre, sconquassa i monti come voce cava, fino alla celia del suo accrescimento. Si espone l’io a ogni primavera striata di sangue, alla destinazione dei frammenti rimescolati, al suono della notte bruciata sulle labbra ferite in «un panno intessuto di luna e latte e vento e pianto»: «Il ferro lucido della luna / ti ucciderà e il duro / piede dell’uccello gigante / cui hai confidato il tuo lutto / in inverno».
La sua hora mortis è dipanamento fonico che aggrega frammenti e relitti, balbetta fino allo sfinimento che si pronuncia, in un linguaggio che si appropria, spodestando la vertigine naturale, di una lingua insanguinata e mordente: «Io sono in frantumi, lo so bene, / come questa falce, ormai nessuno più m’illude, / nemmeno il fiume che già si pronuncia / prima che irrompa la luce del mattino».

Scrive Giuseppe Panella:
«Anche la morte, di conseguenza, si presenta come un probabile discorso sulla verità – il suo protendersi nell’esistenza di chi rimane in vita gli permette di ritrovare chi muore, di rivelargliene gli aspetti nascosti e di andare più a fondo nel suo carattere superando il livello superficiale delle immagini che lo hanno definito e denotato pubblicamente, scendendo poi in profondità nella sua condotta precedente di vita e nella sua visione del mondo. […] Solo la morte permette alla volontà di verità di emergere. Per questo motivo, Bernhard equipara la sua scrittura alla lotta e alla distruzione dei dati di fatto e, di conseguenza, alla scomparsa delle immagini come forma espressiva che dovrebbe sancire il trionfo della realtà stessa. L’esistenza non si identifica con le immagini che la rappresentano e che la mettono in scena. Il fatto è, però, che solo attraverso di esse si costruisce e si modella il carattere usuale e continuato del rapporto che gli uomini hanno della realtà».

È il respiro fratturato del tempo, l’annuncio di una distanza che scoperchia i lembi di una ruggine carica di pena, di un corpo esposto e senza riparo, si tratta, quindi, «[…] di uno sprofondare, vertiginoso e apocalittico, in se stessi», continua Giuseppe Panella, «in cerca di un ricordo o di una motivazione che possa salvare, una volta portato alla luce, la propria esistenza interiore e giustificarla alla luce del presente. Le immagini presenti nelle sue opere sono brevi fasci di luce, puntiformi spot luminosi cui aggrapparsi per capire che cosa sia successo e cercare di comprendere (ma invano) che cosa succederà»: «La pioggia di questi giorni / arriva solo fino al cuore arrugginito della notte / negli oscuri corridoi dei morti / che pendono con i pipistrelli dalle travi / e, con dita cingolanti, / disegnano angeli nella tenebra delle stelle / che danzano sopra maiali e perseguitano mucche / nel loro sonno irrequieto / con un gemito e un bisbiglio del latte tra bianche / membra».
La trasparenza esiliata ha il potere di sillabe perdute, una compianta estate che agita paure spodestate e agitate dal vento, cupezza e foschia di sogni, un’apocalisse idillica che appartiene non soltanto al lutto e alle sue crepe, ma che si dispone in una scomparsa lenta e illuminata e in una destinazione sulfurea che fa migrare le primavere e il fuoco: «Sopra il fuoco / guizza un fuoco / di giubilo, / sotto i tetti / di masi polverosi / e di cappelle miti. / Dalle bare della notte / sale la luna irata, / stendendo il sudario dell’inverno / sopra le morte spalle / di mesti prati ed egri rivi». Nel suo ronzio luttuoso, sostiene Daniele Piccini, la frequenza dei lemmi rinviano «alla morte, al freddo, alla stagione invernale, all’ombra.  […] Sulle orme di un poeta caro all’autore come Trakl, Sotto il ferro della luna si presenta come un canzoniere di abbandono, di orfanità […]:  la parola vi edifica un cosmo minacciato dal gelo e in cui pure sontuosamente ritornano le stagioni, quasi come in una finzione di vita […] Ma l’orfanità a cui la parola di Bernhard indirizza il suo inquieto turbinare è un’orfanità più vasta: è alla figura di Dio che rimanda questa evocazione, è alla sua percepita assenza che il poeta sembra rivolgersi […]. E così il salmo si declina in mestizia, una mestizia a cui la parola attinge il suo desolato splendore».
È l’esacerbazione di un dramma vivente che avverte il peso dello spezzamento e della fine, l’incomunicabilità come parafrasi di spine, il sacrificio nascosto del germoglio e del ricordo folle, la lacerazione frantumata del viaggio inghiottito, esposto e dimenticato, dove vedere e pensare diventa impossibilità di cambiamento, poiché per Bernhard, «il vedere costituisce la sostanza stessa fondamentale dell’attività del mondo», aggiunge Panella, «ed è contro di essa che si rivolge l’attività vitale e la relazione esistenziale con essa. Vivere corrisponde, entro certi limiti, a non vedere e, soprattutto, a non identificare la realtà con il suo prodotto spontaneo»: «A Sud / viene scavata / la tua tomba, / a Sud / aliterà / la tua morte, / il tuo volto / è lacerato dai cardi, / la tua brocca / è frantumata dagli uccelli. / […] La tua valle / si dimenticherà di te. / Non torni, / mai più».
La sottrazione della gioia ha schermi impenetrabili di carne e sangue, dove i pensieri «levano le tende» e il sole si smarrisce fino alla solitudine indifesa della gelida fiaccola della notte. L’ immagine, allora, sostiene Gargani «in quanto identificazione di un’idea con il mondo, costituisce però l’arresto stesso, la paralisi mortale del pensiero; essa costituisce la sottrazione delle possibilità alternative sull’oscillazione delle quali poggia il pensiero stesso, in quanto esiste contro i fatti». L’incuneata domanda a Dio che vibra nella pioggia e nei prati amari conosce la miseria lucente di un ascolto in ogni angolo: non esiste consolazione, non una parola che accudisca l’intangibilità del vuoto, non il bosco che popola le sue liriche, non la migrazione e la profondità delle stagioni o le ombre che scrivono, parlano e rompono ogni lacerto di tempo, accordando il suono radente di stelle, alberi, neve e ordini sacri.
Il paradiso perduto si accantona nel gelo insonne e nell’estinzione che spalanca la soglia dell’inverno come umore amaro. Non c’è traccia di sogno, solo anni foschi che parlano ai giardini senza voce o a rose malate: «voglio porgere al sonno le scarpe / e dimenticare la fatica della lunga guerra / e incontrare mio fratello in cimitero / per il lutto serale tra due tombe, / quella del padre e quella della madre, / e, sopra la collina dei morti, far entrare / l’agitarsi del grano nel mio salmo della terra / che ci seppellirà con timore e scherno / sotto le sognanti membra del sole».
Tutto il territorio di Bernhard è costellato da questa polverosa contaminazione, da una gettatezza che sconvolge e annienta, infreddolisce e sperpera l’inquietudine, laddove i mattini «guarderanno nell’inamovibile conchiglia della primavera» e un bianco fiore segnerà l’adagio disorientato di nuvole velenose e alberi senza patria.
La fenomenologia solitaria e isolata di Bernhard è angoscia ritirata senza consolazione. Ritratta pagina e rappresa scintilla che brucia il fuoco dell’anima esagerata e spenta, e dove, come afferma Samir Thabet, «ogni oggetto, ogni arto, ogni corpo è coperto da una coltre fosca che toglie il fiato. Il poeta grida aiuto, ma non sceglie la via della comunicazione. Socializza il suo dolore con uno sguardo allucinato che crea immagini d’orrore e si allontana dai suoi modelli trovando un snetiero impervio e inumano. E da qui in avanti lo vorrà percorrere da solo, sordo a ogni parola rassicurante e a ogni barlume di speranza e pietà. Il suo universo si è ormai colorato di morte, di ferita, di palude, fango, sassi, dolore e follia. Un morbo aggressivo  che non tarderà a divenire padrone di un’intera esistenza»: «Dietro il bosco nero / brucio questo fuoco della mia anima / in cui tremola il fiato delle città / e il merlo della paura. / A mani nude abbatto queste fiamme / che all’aria montano sino al cervello / e che tremano nel mio nome. / Come una nuvola il mio cuore migra / sui tetti / vicino ai fiumi / finché io, una tarda pioggia, ritorno / nel profondo autunno».
O ancora la sillaba dei battesimi che fa precipitare ombre e stilla sangue. Le stelle possiedono la lingua delle palpebre, e, pertanto, possa finire presto questo tormento e fatica di parola, nel sogno spietato e nel sonno infedele sulle rive che spianano l’assenza. Bernhard scompone ogni particella di distruzione e scorza, le rende raggrumate in una sospensione di precipizio e, infine, le condensa in una spietatezza che taglia il petto, perché è il morire, non già soltanto la morte, a sentenziare la sua pagina paradossale e infranta in uno stormo smisurato di semi catturati.
«La terra battezza i miei figli. / Ombre precipitano / da notte appassita. / Stilla il sangue dei re nelle valli del pane caldo. / Le stelle hanno / la lingua delle palpebre che sognano / di occhi umani, / di colline / che sono tagliate in pezzi / dalle lame della fatica. / Sia maledetto / questo tormento dell’inverno / che il fumo sospinge in boschi senza patria / attraverso le lattee stalle del mondo / che il sonno infedele strangola / sulle rive di sogni spietati». È il tappeto di terra della sua caducità.

BERNHARD T., Sotto il ferro della luna, traduzione di Samir Thabet, Crocetti, Milano 2015, pp. 140, Euro 12,00.

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