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L’ansia eterna di Miguel de Unamuno

A quale richiamo d’esistenza e di eterno soggiace la poesia di Miguel de Unamuno (1864-1936)? A questa sollecitazione, tutta la sua opera sembra recare in seno una domanda ampia e forte che si posa sull’istante.

Il ritmo dell’esistenza, con le sue linee e i suoi moti ondosi, conosce lì la sua sede, come vita che richiama alla vita, densità ricolma che proclama il suo respiro.

Nella sua vita Unamuno aveva conosciuto, sin da subito, le frenesie improvvise del lutto e dei limiti, la «scarica fulminante» delle notti oscure, passate a leggere Pascal (a ricolmarsi dei poeti romantici, della patristica, di Leopardi) , e a frequentare le zone d’ombra dell’agonia e del mistero.

A Salamanca conobbe l’ampia frequentazione accademica, i movimenti della dialettica politica e le pretese totalizzanti delle filosofie scientiste e delle teologie razionaliste.

Il fenomeno umano, che in lui si fa comprensione della statura e della fame di un’oltre mondanità e di richiamo eterno, addensa la sua presenza nelle note del cuore, dei suoi venti, della sua densità.

Nelle sue opere in prosa, tra le quali Il sentimento tragico della vita, Nebbia, Agonia del cristianesimo, l’uomo acquista la sua concretezza e la sua traccia di vita e di tensione.

Ma è nella realtà – territorio di vita e morte, contraddizione e oblìo – che si gioca la partita dell’io, come ribaltamento del razionalismo di Hegel.

La sua lotta è la lotta dell’uomo che si afferma, che già nelle viscere proclama il suo agone, la sua domanda e il suo alfabeto.

Scriveva: «Non può narrare la tua vita, né spiegarla o commentarla, signor mio Don Chisciotte, se non chi sia stato contagiato dalla tua stessa follia di non morire».

La follia di don Chisciotte è la follia del cavaliere dell’assoluto, ma è la stessa di Unamuno che combatte lo schematismo del dogmatismo e del razionalismo cieco, a favore di una singolarità unica e irripetibile, di una peculiarità visio religiosa che non si riduce, ma che, anzi, segna i paradossi della storia, con i suoi andirivieni e con i suoi sensi.

«Con la ragione cercavo un Dio razionale, che andava svanendo in quanto pura idea, e mi imbattevo così nel Dio Nulla che conduce al panteismo, e in un puro fenomenismo, radice di tutto il sentimento di vuoto. E non sentivo il Dio vivo, che abita in noi, e che ci viene rivelato attraverso atti di carità e non attraverso vani concetti di superbia».

Ma perché la lotta?, perché questa dimensione tragica dell’esistere?. La vita è un dramma che compie la sua parabola fino a Dio, l’immaginazione che sfronda il suo canto, laddove l’eco dell’io richiama l’ansia inconsapevole di un battito e di un solco eterno.

In un suo testo inedito scriveva: «Immersi nelle cose del momento, vivete tutta la vostra vita in ogni suo secondo e siate prodighi. Operate, giovani come se in ogni più piccolo atto dei vostri ci fosse il destino finale dell’universo intero. Cercate la verità, che è la vita».

Anche la sua poesia si bagna di queste acque profonde e ampie, in una tematica che non si discosta dalle frecce sottili e dure della sua prosa.

È la realtà il suo campo d’azione. Una realtà che è segno di Altro. Tutte le sue composizioni perseguono una certezza di spessore ricolmo.

Nella sua particolarità si assiste a una scoperta che «oltre alle idee formulabili, ai ricordi figurati, alle rappresentazioni corporee e ai sentimenti esprimibili, portiamo in noi un mondo vivo, il riflesso dell’anima delle cose che cantano in silenzio».

È nel senso dell’esistere, con le sue piaghe e le sue gioie sempiterne, che egli trova sul suo selciato visioni e rivelazioni, laddove la paura e il dolore si intrecciano, esprimendosi, in una ricerca ultima della vita e della morte: «Morir sognando, sì, ma se si sogna/ di morir, la morte è/ sogno una finestra/ sul vuoto; non sognare; nirvana; / del tempo infin l’eternità si appropria».

E ancora, quasi  premendo per una spoliazione assoluta ed estrema del linguaggio, per scoprire il valore ultimo delle cose, la loro sostanza, in una parola, il loro essere: «Ma non importa, figlio mio, figlio dell’anima; / la fede mi consola, / la fede mia robusta per cui non muore nulla, / per cui tutto va a posarsi nell’eterno, / per cui al morire ogni visione scende / nel profondo dell’oceano immenso, / e dall’oscuro fondo, / e dall’ignoto seno, / alimenta la vita che si tende / ove le onde bagna il sol di fuoco».

L’angoscia, il conflitto, l’anima tragica, sono paesaggi e passaggi d’anima, in cui i particolari dell’esistere e del reale emergono, vengono nominati, come pietra viva: la pioggia, la quercia, la terra basca che segue e raggiunge Salamanca, le stelle … tutto poggia il delicato tocco che dell’amore si fa sovrana la vita.

Scrive ancora egli stesso in proposito: «I paesaggi sono come la musica, che ci porta dolcemente nel Paese dei sogni informi, delle idee ineffabili, delle rappresentazioni incorporee, dove si alza dal letto dell’anima in strano concerto di idee dimenticate e sentimenti addormentati tutto il ricchissimo mondo incosciente, potente con il potere del silenzio, mondo dalla trama come quello della realtà, mondo che si sveglia e si rivela all’uomo mostrandogli i tesori nascosti del suo spirito.».

È una sete che si dispiega in un canto altissimo e in una prospettiva di sguardo che anela all’immortalità forte e potente di un abbraccio e di un rifiuto, oltre la durata, oltre l’assurdo.

Nella neve di Salamanca il 31 dicembre del 1936 si spegneva la sua coltre, come il silenzio delle sue trame di confine.

Sul suo loculo, quasi come un segmento di fenditura, si trovano queste parole: «Mettimi, Padre Eterno, nel tuo petto/ misteriosa dimora/ dormirò lì, poiché sono sfinito/ dal duro lottare».

Nella sua ansia e nella sua infinita permanenza di lotta, esiste una promessa strana e ferma, un compimento, un’onda alta che si guarda e a cui si anela, come bellissimo e struggente desiderio del cuore.

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