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Le carte di Serena Maffìa

 

 

 

 

 

 

La nuova silloge di Serena Maffìa ha il candore e la potenza di una libertà fresca e incisiva, di un lucore di canto, profondo e lieve.

Dopo Il ragazzo di vetro ((2005) Sradicherei l’albero intero (2006) e il recente romanzo Sveva va veloce (2009), ecco Le carte volano, pubblicato dalla fiorentina Passigli.

Attraverso l’ironia, il candore libero dell’anima, il ritratto dei passi, si respira la vertigine della forza poetica che abita gli angoli del reale e si nutre di pause, richiami e flussi.

Poesia che possiede la forza femminile dell’epifania, che innalza la scena di quel che diventa materia vibrante, in un gioco di specchi.

Vitalità e libertà: queste sono le sue tracce, i residui di un battito che germoglia, di una materia che lievita, come il pane, come la schiera delle immagini che rinsaldano un legame generativo e nativo.

Non esiste uno studio della forma o della retorica nel suo tracciato poetico, anzi il suo ipermetro ha la vivezza di un’essenzialità di canto, e per meglio dire una linea regolare di canto: «sulla porta ho veduto il sorriso d’una donna/ qualunque/ d’una donna ch’è donna, d’una donna gravida di/ speranza/ d’una figlia che figlia il passato, che muore e rinasce/ al futuro».

La sua parola vola alta come le carte del suo volto. Come il volto della pagina che si fa respiro. Il moto diretto che riempie, non un cielo qualsiasi, ma quello ampio e nitido dell’esistenza.

La madre che genera è l’ampio grembo dell’io, femminile, libero, unico: «Quando nacqui/ mia madre sperava fossi cedro/ e non mimosa/ ma appena gli occhi si sciolsero/ del calore di donna/ scoprì ch’ero mollica/ pane del suo pane/ magnifica al suo seno».

Poco dopo in quel transito di soglia e di profondità c’è anche l’alto volo dei gabbiani, che rimandano al paesaggio del suo Tempo e del suo volto: «mi alzò al cielo e chiese ai gabbiani/ un po’ d’azzurro e un po’ di bianco per cantare/ e ridere dei soli passati, delle falene arrabbiate/ mi baciò sul naso, sugli occhi, sulle dita attonite/ i miei palmi si commossero di quelle lacrime».

Il paesaggio del pane è la terra che porta verso l’alto, in una bocca che si disseta a ciò che impone il suo passaggio fertile e feriale: «Verso la lontananza sulla strada brulla/ di che sfumatura stupirà la mano? D’agave stanca/  sporcata di bianco, nuvole accasciate sui monti di creta/ strada lunga, nostalgia bambina che preme il seno/ come arancia matura, aurei frutti che piegano alberi/ e il succo che colma la bocca, cola dal mento sul collo/ per terra/ a irrorare radici sgarbate d’ogni stagione».

È un impeto creativo che omaggia la creazione, come una danza d’amore che vive di una dinamica intensa, di un germoglio gremente.

Lo stesso ritmo poetico, le immagini stesse, piene di propulsioni e di vertigini, sono al servizio di una danza di terra e di cielo, intrecciati di gocce.

È un acqua che ruscella, che impone visioni e che, allo stesso tempo, accarezza, in un respiro di ciglia, in un grembo, in una genitalità vivida.

Serena Maffìa conosce le profondità e gli abissi azzurri, ma anche il vertice della gioia e della purezza. Di una immersione e di una emersione che scardinano l’alba: «è quando mi immergo nell’acqua/ che mi sento fiorire/ quando immergo un piede/ poi l’altro/ per sentire che scotta/ la pelle bella, la carne bruciata, sono polpa di camelia/ accovacciata».

Le sue soglie rialzate, le sue porporazioni, le sue strade sono carezze di tenda, il cuore che appare, che svela e disvela gli attimi e i candori, precisi, delle mani che scrivono.

Un ritmo propulsivo e vitale che si concede e si trattiene, e che attraverso l’ossimoro dei battiti argina e sfugge gli squarci del tempo, in un unico grande tremore di purezza violenta: «Senza parole, sotto il tuo sguardo/ sono la violenta purezza dell’essere».

Il riverbero della dinamica vitale non smette di muoversi, come un pungolo inestirpabile: «per/ generare/ anche la morte allora sarebbe vita/ l’istinto di conservazione invertirebbe gli aghi della rosa/ dei venti/ io smetterei di essere senza smettere d’esistere».

Nel suo paesaggio compie anche un salto di origini, di luoghi partorienti, di legami di mare e terra, di «radici di ombre sotto il mare».

Sono le linee di ombra che esplorano l’immagine e la sua nitidezza, per esprimere un linguaggio che si prostra alla pagina e che obbedisce ai richiami della realtà, alle sue esplorazioni leggere e dure.

Il volo delle carte è lo stesso volo della poesia e della Parola. Come uno sperduto sussurro di un profumo nell’azzurro tenue.

I gabbiani avevano aperto la raccolta nella terra del pane, nello stesso modo chiudono questa apertura poetica.

Il loro stormo diviene l’incontro tra la libertà e l’io, uno splendore di fondo, nel richiamo di veglia e sonno: «colpa dell’odore di mare/ che invade la città/ e fronde alla finestra/ in attesa del risveglio» e poco dopo «odo l’ultimo richiamo/ i gabbiani freccia verso il mare/ uccelli di carta, gabbiani aeroplani/ libero le mani, non volo/ ricerco il sonno».

SERENA MAFFìA, Le carte volano, Passigli, pp.90

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