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L’eternità insaziata di Dario Bellezza

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Il saggio di Arnaldo Colasanti, Dario il grande. La poesia di Dario Bellezza[1], edito da CartaCanta, è un dialogo con la pienezza insostituibile della parola, con il silenzio del terrazzo e con la lingua che dice la vita. Con la filigrana classica della poesia di Bellezza, Colasanti compone il suo magma di germinazione viva, in cui abitano le sospese vertigini di Salvia e del suo ricordo, le linee di «Braci», l’esperienza e la visione della poesia:

«Ecco, è “l’eterna questione del mare splendente/ dentro il sole di giugno che diventa nero/ a notte e scompare nelle tenebre”. Forse Pasolini, l’educatore, cercava figli complici. Dario no: lui tentò di insegnare a dei ragazzi che la poesia era e poteva ancora essere il mare splendente, se solo ci avesse permesso di cercare l’immortalità e cioè di capire la luce nera della vita, le tenebre ab­baglianti della morte, la certezza del corpo e della sua fine in ogni antica nascita delle sillabe. La poesia non ci ha educati ma ci ha salvati. Con Dario siamo usciti fuori dalla storia, dalla forza della Storia, ce ne siamo andati “verso il mare della vita”. In quegli anni di aberrante terrore per ciò che già era e per quello che sentivamo sarebbe poi accaduto, il poeta ci disse che la letteratura non esiste, giacché conta solo l’immortalità».[2]

È un romanzo-saggio in movimento. È come se la parola annunciasse non solo l’essere di cui parla ma la propria intima e nuda verità che si muove oltre labbra incenerite, la nella voce della domanda e della preghiera, l’attenzione verso l’Altro che non si consuma: «Dario ci insegnò a riconoscere il dolore che passa e la bellezza che resta: ci insegnò l’orfanezza della pietà verso noi stessi[3]».

Ma il dono di Dario Bellezza è la fuga dal proscenio dell’io lirico attraverso la rottura il sipario franto, la trasgressione e la passione amletica, in cui il senso della rinascita testimonia il «re­stare fedeli a un motus sentimentale e insieme spirituale, quello che permette alla voce di cantare come un corpo vero, mentre a questo stesso corpo è consentito di conoscere le punte aguzze dell’eros, giacché il suo destino è morire, è rinascere ogni notte, nel latte quagliato della solitudine[4]» e dove il poeta

«si mostra e si mette in scena, teatralizzando il suo “io” e il suo corpo, all’insegna di una esclusione costante, che diviene reclusione in uno spazio sempre più asfittico («chiuso nel suo caso come in uno stambugio dall’aria irrespirabile», suggeriva Pasolini). […] In primo luogo l’ “io” che recita il proprio dramma […] si sente escluso dalla Natura […]. Ma la poesia di Bellezza, che della “licenza” oltre che dell’ “invettiva” fa il proprio emblema iniziale, si nutre di altre costrizioni: si rifiuta all’ideologia, si nega a ogni poetica predefinita, che non sia la programmazione della propria necessaria confessione».[5]

Roberto Deidier afferma:

Da qualsiasi punto la osserviamo, la poesia di Bellezza appare in fuga, o meglio si costruisce e si atteggia come una fuga. Come un tentativo di fuga, a vedere bene, se una certa pesantezza della struttura impedisce movimenti troppo verticali, sollevamenti repentini del senso, scarti ritmici, almeno fino agli ultimi due libri, L’avversario e Proclama sul fascino. Eppure, nonostante il suo movimento più autentico sembri essere quello del nascondimento orizzontale piuttosto che quello dello scandaglio, in un’incessante altalena di simulazione e dissimulazione, nessuna prospettiva è in grado di incorniciarla e comprenderla, e inevitabilmente qualcosa si sottrarrà, come alla visuale in procinto di una curva, di una svolta inattesa e in ogni caso sorprendente, quanto una voluta barocca. Tale tortuosità non è un limite, ma è semmai la forza, la materia più autentica di questo poeta. […] Così Bellezza è rimasto prigioniero dello stesso cortocircuito che ha provocato: l’Amleto che cerca di corrodere dall’interno, con la sua sola ma rumorosa presenza, la sonnolenta borghesia romana, è in realtà l’effigie della stessa dissoluzione in atto di quest’ultima. Ciò che il poeta vuole rappresentare nel vissuto e nella poesia, in una coazione al presente, ad agire nell’attualità del presente, è già avvenuto. La strada dell’eversione, che passa anzitutto attraverso l’affermazione dell’alterità sessuale, è percorsa già fuori tempo massimo, mentre l’onda d’urto della contestazione inizia a perdere il suo potere corrosivo e la scena nazionale è occupata da più tragiche tensioni.[6]

Pertanto, lo smalto del suo disarmo fa i conti, all’inizio della sua rappresentazione, con la straripante ombra di Pasolini, come vocazione, come grigia e indiscussa tendenza non solo alla morte nel presente, ma al morire dileguato e alla distruzione sfinita: «La nostra anima, dice la poesia, canta la musica lenta di un tempo presente che attende senza tremore l’arrivo in noi dell’eterno[7]».

L’eros compone il suo teatro, lo condensa, lo proclama, ne dirama la sua coltre inespressa, nella fissità mobile delle notti romane, con le esili disperazioni e degradazioni. E nell’amore orfano, sviato e disilluso, Bellezza compie il suo rito di coazione e sacrificio, che lo conduce fino a Penna, ma ne priva la portata innocente, comprimendo il margine, la sessualità precaria e maledetta che si dilata fino all’incontrastabile regno della morte, esibita in una nitida delazione di mente e corpo, per non giungere mai «al compimento di un proposito e formula reprimende sul suo stato, formula di un desiderio assoluto e in parte inespresso, dove proprio amore e morte coincidono come fine di qualcosa che non è mai stato posseduto del tutto»[8]:

Ma quale sesso ha la morte? / È ragazzo. È ragazza. Spaventosamente / materna mi abbraccia al limitare del sonno, / quando l’alba affretta la sua agonia / e il giorno calza i suoi occhi di malinconia…», o ancora: «Ho paura. Lo ripeto a me stesso / invano. Questa non è poesia né testamento. / Ho paura di morire. Di fronte a questo / che vale cercare le parole per dirlo / meglio. La paura resta, lo stesso. / Ho paura. Paura di morire. Paura / di non scriverlo perché dopo, il dopo / è più orrendo e instabile del resto. / Dover prendere atto di questo: / che si è un corpo e si muore.

«La bestia che è in me e latra» condensa la parola poetica in una agonizzante corpo a corpo, come un io abbandonato e intossicato che discende «nelle regioni della creaturalità, di un universo offeso dalla Storia[9]», come un amante estatico o un osceno trasgressore di forma e figura. Ecco che il provocatore-cantore di una rovinosa visione che declina e apre la sua fisicità in una performance che la conduce nell’abisso di un consunto lamento elegiaco, descrive il mondo in un epicedio di una immortalità senza fine e senza inizio, come disposizione omerica di bellezza:

Se un poeta, io, regalo al cupo silenzio / della notte metà del tempo che m’incalza / ostinato inquisitore di un corpo / sbalordito dall’abitudine, decomposto, / in ansia perpetua di non lasciare traccia / di sé nei corpi altrui o stampo caldo / nelle fresche leggere menti adolescenti / né la Storia, l’ordalia infernale / dei tiranni assetati di sangue e morte / non considero, ne viene anzi, rabbia, / sgomento, urlo lontano nella gola secca, / pianto sommesso o gridato, abbiate pietà!

Il sangue dell’assenza, la consunzione, la pronuncia antagonista della voce proclama una tentazione smisurata e fanciullesca che comprime l’io, che si spegne in un tramonto assorto di speranze, «cercando la vita smarrita, il sole funesto / e sporco di un pomeriggio invernale: / la luce negli occhi di un Dio che è sparito»: «Dura legge sapere che niente / potrà consolare il niente assoluto».

E il mondo sguaiato e lucente, da cui proviene Bellezza, è una «vecchiaia recente» che si rivela nello smarrimento e nella mancanza, nell’insonnia illusa e nella ferita ingrigita, come scrisse Pasolini nel risvolto di copertina di Invettive e licenze (1971),

che una nuova prospettiva schiaccia contro la vecchiaia vecchia e antica. […] Quindi si è messo a descrivere le forme e gli oggetti delle sue angosce (che ogni buon collega e semplice lettore non può che considerare abominevoli) come se fossero forme e oggetti dell’assoluto: come le bottiglie e i vasi di Morandi. Nessun compromesso, nessuna complicità, nessuna facilitazione, nessuna concessione, nessuna deroga: nemmeno il sollievo di un sottotitolo gradevole, di una nuda citazione.[10]

L’avviluppo del proprio io sente il peso della colpa e della mancata libertà, del vizio (e dello scandalo) della morte, in cui «il derelitto produttore di parole» segue un destino precipitato nella lacerazione, disprezzando, come avviene in Morte segreta (1976) i valori di una società costituita, finendo per celebrare la dismissione e l’acuto segreto del proprio essere, della propria intima finitudine[11], che grida il suo «diapason infinito e perfetto» dove immergere la pienezza della vita e il suo bagliore insonne, fisico, immortale della ricerca, dell’incontro, del distacco e dell’assenza. Come una luce criminale di bellezza.

La fragilità iconica e oggettuale non si concentra su una figuratività scrupolosa e animata, bensì fonda un limbo indeterminato, congiunge il processo creativo a un annuncio di colloquio estremo e scisso che condiziona la mitologia e la fisiologia di ogni incontro con la realtà, con il corpo/amante, con la amletica figuratività fisica:

Dentro / il cuore si agita invano la parola chiave, morte, / morte terrena, morte eterna, ed è il corpo trionfante / bestia che si accalda a dimostrarlo in attesa / di diventare freddo come un marmo. / Questo corpo che vesto e nutro e lavo / e accordo ai separati corpi altrui, costringo ad amare, / manometto, chiedo il perdono della sua putrefazione / perenne in una erezione instabile e impotente, sterile, / senza figli severi e solari per confortare vecchiaia.

La straziante scena della sua anima ciba la visione temporale degli eventi accaduti di un antagonismo che concede sdoppiamenti e figurazioni sbilenche, in cui la scrittura del Corpo assurge a parola lirica, a ferita orfana, a passione che risorge:

«Un amore vorrei elegante e sporco per ancora eccitarmi / onde sacrificare la speranza di amare al bisogno osceno / dei corpi da torturare. Ma non amare, questa è l’aspra / verità; spero soltanto nell’inganno banale del tradimento, / nella compiaciuta analisi di chi è servo sensual / dei propri atti. Allora mi dilungo in estasi oblique / di infingibili realtà che non riguardano le donne. / Non ho vagheggiamento del mio futuro destino / tutto intrappolato nell’estasi di una macchinazione / lamentosa contro l’acuta sensibilità decadente / e malata degli snob immaginari del mio sepolto passato».

In Libro d’amore (1982), il disincanto della vocazione si spinge verso una rifiutata dolenza, verso un amore sbiancato che diventa, come si legge nella quarta di copertina, «non-acquisto e non-conoscenza, perdita totale, senza compensi, di sé e dell’altro, recupero cruento e fatale del buio originario».

L’unione degli opposti e la loro sregolatezza scenica, se da un lato richiama alla scissione del sentimento sospingendolo fino all’estremità e all’affanno, dall’altro invoca dolcezze e fisionomie care ed accennate che diano respiro alla corporalità e alla creaturalità sfiorata e sfiorita, depredata dalla ferocia della Morte, in un amore che si opponga come concreta oltre-rappresentazione di una colma e scarnificata felicità:

«La poesia di Dario Bellezza parla, è ancorata alla verità. Ma la verità non ha alcun rapporto con l’arroganza del linguaggio o con quella del si­lenzio che dice e che vorrebbe dire sempre tutto. La totalità uccide. Al poeta serve altro. Ecco, l’unica verità possibile è quella di una lingua poetica che leghi il bene alla storia della vita e alla vicen­da degli uomini. È il bene del corpo il grande dolore, la grande gioia, l’inutile disperata verità di un poeta che mantenne ciò che promise: porre la poesia solo come “l’eterna questione del mare splendente/ dentro il sole di giugno che diventa nero/ a notte e scompare nelle tenebre”; dico l’immortale risposta della verità al nostro assoluto vivere e morire».[12]

Il labirinto segreto del suo essere si confronta con la contorsione di una commedia tragica[13], in cui la sua voce scoperta addita piazze, luoghi, strade e luci stagionali, dove la folla spiata si afferma nella disillusione e nella consumazione:

Forse mi prende malinconia a letto / se ripenso alla mia vita di tempesta e di / mattina alzandomi s’involano i vani / sogni e davanti alla zuppa di latte / annego i miei casi disperati. / Gli orli senza miele della tazza / screpolata ai quali mi attacco a bere / e nella gola scivola piano il mio / dolore che s’abbandona alle / immagini di ieri, quando tu c’eri. / Che peccato questa solitudine, questo / scrivere versi ascoltando il peccatore / cuore sempre nella stessa stanza / con due grandi finestre / un tavolo / e un lettino di scapolo in miseria. / E se l’orecchio poso al rumore solo / delle scale battute dal rimorso / sento la tua discesa corrosa / dalla speranza.

La guarigione del mondo passa attraverso il passaggio dentro questo ampio gesto di esistenza, in cui «L’umile stato diseguale del poeta», aggredito, assediato, temuto, celebra il suo segreto singhiozzo, il suo monologo precipitante, il profondo canto della sua raucedine. La soglia senza salti che fa convergere assenza e presenza ha l’odore agrodolce di una rivolta perduta e persa, del retroscena derivato che esibisce la sua tragedia attraverso la lotta con il Nulla, che proietta il baluginìo del Dio-distante-occulto in un caleidoscopio scisso di disamore e ascolto:

Ma il quotidiano insiste. Ed io volo / verso il tarlo segreto della notte / per non saperne di più. Insiste così / il quotidiano, e stinge addosso la sua pece / o pace perduta, incontrando i mostri / attigui dell’eros metropolitano / che ormai costano troppo sul mercato / degli schiavi. Insiste dunque il quotidiano: / la poesia è merce o merda, voli di gabbiani / in tempesta mentre si pensa a sorella Morte, / o la Musa vagante in clinica, in crisi / di astinenza, / l’astinente essendo io / gioioso immondo testimone di un giorno / di pioggia: calamitoso e sventurato giorno / solfeggiando in mortale voragine il buio / di domani o ieri o il tempo che scorre / verso eternità imprendibili.

L’andatura deragliata di Serpenta (1987), inscritta nelle apparizioni romane (e il nesso esistenziale con Elsa Morante, come ricordato da Colasanti), nelle ouverture di fuga onirica e nei suoi emblemi, rammenta il passato divorato della felicità intravista e impossibile come ricordo e memoria, per un antico corpo amato e ora scomparso, per i sensi celebrati nella passione che ora hanno partitura ombrata, come grido ferito e lancinante: «La mia religione dunque non fu / amore in questo dopo millennio di paure / scontate che di notte fanno capolino / nei sogni di un malato; / o fughe verso il nulla / nulla cenere, nullo destino / o legge primordiale del pensiero / che scateni simmetrie giuste al Paradiso / Paradiso confuso di ricordi / vissuti in mezzo al guado di Caronte».

Il ritmo di Libro di poesia (1990) raccoglie un lungo smalto molecolare tradito, si appropria di una partitura irregolare dove, come annota Franco Brevini nel risvolto di copertina, «il desiderio erotico si fa contorcimento e gesticolazione. Attraverso gli inferni della devianza metropolitana, tra interni asettici e mortuari, caserme e stazioni, il poeta trascina un disperato desiderio di abbattere il muro di una solitudine che si richiude ogni volta su di lui».  Ecco il barocco imperfetto, la dismisura che volge verso un cuore desolato e assente, la desolazione assorta e abolita, il tragico territorio di anime assiderate e in esilio, laddove la notte avvolge nel suo «inesausto regno sotterraneo» e poi«spengo in avventure e litigi infiniti / catastrofi pellegrine, l’eco di memoria / da abolirsi nella notte oscura; / buio della vita se fu un’altra, / in cerca di passato».

Il forte contrasto interno che alimenta la sua poesia, come accade in L’avversario (1994) è il tralucere della sua identità che affronta il Male corrosivo e sfiancante di un fantasma e di uno strazio incombente, fino alla sottigliezza fragile della poesia, che rappresenta il richiamo e la vertigine («[…] s’invertigina / la vita passata e ne muore») della sua testimonianza.

Il suo unico canto rimasto è il sillabario della sorte. La sua povera irresolutezza che si imbatte nei detriti di una quotidianità franta: «Come terrore di elevarsi a cime / più alte del bisogno del creato / le sterminate strade ma finite / percorro nel mio umile stato / diseguale, chiedendo ai pochi / l’errore di sapere chi vorrà / suonare il più bel piffero / di tanta gioventù sfuggita / e perduta nel sogno di una vita!».

Persino il rifugio nell’innocenza animale dei gatti, come «purezza della natura vittoriosa», diventa enclave esclusiva e riparata. Bellezza diventa il passeggero di soglie e proiezioni, in cui raccontare il proprio flatus drammatico senza tracce, la sua intuizione che permane in una breve concessione e in un tradito spazio lucente. L’abisso viene sollevato dalla forza della parola poetica e dalla violenza alla propria scrittura e della lingua che solleva il mondo. In esso, la corrosione e l’aggressione alla scena rappresentano l’esito di una contraddizione che aspetta nel buio con il suo verbo sincopato e il suo Sacro reso casto:

«Per Dario, dunque, la realtà non è che doppia: la realtà è solo l’immaginazione. Anche per Dario, però, quella luce di gioia an­tica deve accettare di chiudersi in un muro di terra, laddove il mondo appare per quello che è “comunemente”, per quello che sempre rischia: essere non solo doppio ma semplice, e nel fondo impoverito, nella sua luce morta al mattino quando il giorno ri­comincia uguale e allora si fa triste la vita, che non vede, non ode, non sente. Dario Bellezza è il poeta che più di tutti si colloca dove l’aurora è la morte della dolce notte ed è l’inizio di una nuova luce che attende di spegnersi».[14]

La riscossione del passato nel presente non ha più orma nel transito dell’eternità passeggera, «la fine dell’amore dopo l’amore», «in una massa spaziata, senza geometrie, senza chiaro­scuri, in un nodo d’amore e di sangue in cui, appunto, l’esistenza parla e vive il proprio tempo naturale»,  e che, come scrive Pasolini,

Bellezza puntigliosamente cerca di distruggere anche la forma del magma, facendo del magma poltiglia. Ma ciò è messo in scacco dalla sua stessa natura di scrittore, in cui il senso della forma è invincibile. Così, apprestata la poltiglia ecco da questa poltiglia filtrare nettari e narcotici di grande qualità. Come la sete di vita – in questo clericale ingordo – è ben più forte di ogni sofisma di morte, così il senso della forma è più forte della scandalosa e insincera voglia di distruggerla.[15]

Questa è la forza del saggio di Colasanti che attraverso una scrittura lucida ci restituisce una lunga sperdutezza incolume nella luce oscura di Dario Bellezza, come compagnia e intima fedeltà.

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Colasanti A., Dario il grande. La poesia di Dario Bellezza, CartaCanta, Forlì 2019, pp. 212, Euro 15.

[1] Colasanti A., Dario il grande. La poesia di Dario Bellezza, CartaCanta, Forlì 2019.

[2] Id., cit., pp.10-11.

[3] Id., cit., p. 20.

[4] Id., cit., p. 14.

[5] Piccini D., Dario Bellezza. Una passeggera eternità, «Poesia», settembre 2015.

[6] Deidier R., «La fine dell’amore dopo l’amore». Introduzione a Bellezza D., Tutte le poesie, Mondadori, Milano 2015, pp. v-vi.

[7] Cit., p. 34.

[8] Moscè A., Dario Bellezza e l’atmosfera funesta, «Nuovi Argomenti», nuoviargoment.net, 9 marzo 2015.

[9] Deidier R., cit., p. vii.

[10] Cfr. Pasolini P. P., Descrizioni di descrizioni, Garzanti, Milano 1996.

[11] Cfr. Pecora E., Omaggio a Dario Bellezza, «Poesia», marzo 2006; Piccini D., Dario Bellezza. Poesia in fuga dalla forma e dalla storia, «Poesia», marzo 2006.

[12] Colasanti A., cit., p.66.

[13] Cfr. Gregorini M., Il male di Dario Bellezza. Vita e morte di un poeta, Stampa Alternativa, Roma 2006; Marchi M., Palazzeschi e altri sondaggi, Le Lettere, Firenze, 1996.

[14] Colasanti A., cit., p.13.

[15] Pasolini P.P., cit.

 

Colasanti A., Dario il grande. La poesia di Dario Bellezza, CartaCanta, Forlì 2019.

Bellezza D., Tutte le poesie, a cura di Roberto Deidier, Mondadori, Milano 2015.  

Aa.Vv., Ricordo di Dario Bellezza, in «Poesia», maggio 1996.

Aa.Vv., Addio amori/addio cuori, Fermenti editrice, Roma 1996.

Gnerre F., L’eroe negato. Omosessualità e letteratura nel Novecento italiano, Baldini & Castoldi, Milano 2000.

Gregorini M., Il male di Dario Bellezza. Vita e morte di un poeta, Stampa Alternativa, Roma 2006.

Pasolini P.P.., Descrizioni di descrizioni, Garzanti, Milano 1996.

Pecora E., Omaggio a Dario Bellezza, in «Poesia», marzo 2006.

Piccini D.,  Dario Bellezza, Poesia in fuga dalla forma e dalla storia, in «Poesia», marzo 2006.