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L’ultimo hotel di Jack Kerouac

La parola che diventa immagine. Immagine che percepisce il bagliore della pagina e fa il suo compito.

Immagine che è poesia senza sapere di esserlo. E sfida canoni, regole e impasti, per farne grido di strada e luogo.

La poesia di Jack Kerouac (1922-1969) è un canto libero che si nutre di suggestioni frastornate, improvvisazioni sconosciute, anarchia di gesti e note di vetta.

Sono immagini d’America, puntigliosamente messe in scena nel suo romanzo On the road, che qui pervadono luoghi come parole sacre, messaggi poetici che confinano la loro viva presenza, in una visione franta di poesia, in cui riporre fiducia: «Non usare il telefono/ La gente non è mai pronta a rispondere/ Usa la poesia».

In tutta la sua esistenza, terminata appena a 49 anni a St.Petersburg, in Florida, Kerouac, ribelle, insolente, sfacciato, ha scritto pagine che sono gioia pura, sguardi perduti, liberazioni accese.

Una vita nomade, uno sguardo che è diventato la frontiera di un tempo e occasione di imitazione e di scaltrezza trasparente.

La giacca sgualcita, la cravatta come un urlo sofferto e straziato, una camicia fragile e frastornata: «E sono uno straniero infelice / contento di scappare per le strade del Messico / I miei amici sono morti su di me, le mie/ amanti svanite, le puttane bandite…».

Ma la ribellione, come in ogni sua piega e piaga, reca in seno sempre la traccia di un grido sofferto, di un cuore indomito che si fa luogo insondabile, futilità e vanità precaria dell’essere: «L’ultimo hotel / vedo la parete nera / vedo la sagoma nella finestra/ Lui sta parlando/ Me ne infischio di cosa sta parlando / M’importa solo che è l’ultimo hotel».

Un universo cieco, sprovvisto di letizia che lascia per strada gocce impantanate, che solleva richiami ineluttabili: «Può il tempo crepare la roccia? / Il marmo scheggerà, / il diamante morrà».

Il malessere, la rivolta, la follia imprudente, squarciano veli e sorprese, quasi che il grido debba frequentare varchi, perpetuare l’azzardo del vivere.

Sono sogni immersi che, come disse Allen Ginsberg nel 1995 alla New York University, compongono il suo essere “un poeta e basta. Era poeta nel modo di parlare, di cantare, di ridere e di raccontare. Che scrivesse narrativa o anche soltanto stesse prendendo un appunto era poeta. La sua prosa era poesia, e il modo di descrivere qualcosa, creare un’immagine, ricordare un sogno era veramente poetico. Lo abbiamo ascoltato e abbiamo imparato, ma non abbastanza. Non abbastanza. Oggi ci restano i suoi versi, la nostalgia e il rammarico di non aver capito tante cose prima”.

La solitudine come capelli arruffati, esilio sul ritiro delle coste, dove «gli scogli diventano aria» e il mare «si increspa, borbotta», avanzando sulla sabbia, «vibra ritmo/ scroscio espone grotta» e «Noi cerchiamo di andare avanti / confidando in noi stessi, l’aiuto/ non viene mai troppo presto/ da chissà dove e chissà cosa / il buon cielo può avere / suggerito di prometterci», nonostante «non siamo riusciti a intrometterci nell’eternità / nonostante un miliardo d’anni di tentativi – / un granello di sabbia possiede/ tremila mondi di gioia – / per non parlare di me – Ah mare».

Ecco il cuore, il fulcro vitale di Kerouac. La sua suggestione primaria che consuma la vita, nei bar e nei quartieri di California e  Messico, tra luci al neon, insegne e distributori di benzina.

Non-luoghi che sono la sua vertigine, la sua vocazione permanente, ma che non riescono a scompigliare e sparpagliare la luminosità cristallina della sua tensione, come vibra nel suo testo più famoso: «Spuntarono le grandi stelle scintillanti, le colline di sabbia indietreggianti nella lontananza si fecero indistinte. Mi sentii come una freccia capace di saettare fino in fondo alla meta» e «Di là della strada famiglie di neri sedevano sui gradini davanti alla casa, chiacchierando e guardando in su la notte stellata attraverso gli alberi e abbandonandosi nella dolcezza della sera».

Ma cos’è quella dolcezza che fruga l’anima nell’imminenza della sera? Di cosa si compone il manto del cuore che si promette saetta?.

È l’inseguimento della mappa dell’essere: l’amore. La forza del ‘così sia’, che placa le inquietudini e sopravvive al dolore che cancella, alla solitudine che viaggia nelle ombre, come sopravvivenza al sedimento salino, «perché non c’è tempesta tanto immobile e orrenda/ quanto la tempesta interiore».

La geografia di tempeste si sposa con la ricerca del suono primario, con gli spostamenti che stanano il passo felice delle cose, la voce degli oggetti, l’avventura vitale.

Essere viandanti, come i protagonisti del suo romanzo, significa vivere la sospensione del tempo, la timidezza dei visi, ma anche gli inseguimenti di braccia che riscaldino, vedere la carezza del bambino ai suoi giochi, il frammento della quotidianità che si incendia di splendore, come un quadro di Hopper, per cogliere lo spirito del tempo, nei volti, nelle carte dei posti, nella biografia dell’anima:«Ce la faremo vedrai, ce l’abbiamo sempre fatta. Dobbiamo prendere il mondo per la gola e obbligarlo a darci tutto quello che vogliamo. E quando noi moriremo le stelle si spegneranno ad una ad una, e nessuno sa quel che succederà».

Il ragazzo che raccontava l’America con l’enigma della sua scrittura improvvisa e il suo slancio indecifrabile, portava il suo blues nei cieli d’inverno o nelle calure, per sorseggiare le fenditure di un mondo tragico e vergine e calpestare i margini di un suolo che è parola e polvere.

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