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L’ultimo inverno di Paul Harding

Dopo esser uscito dal suo gruppo rock i Cold Water Flat, Paul Harding (1946) intraprese un corso di scrittura ad Harvard e nell’Iowa. Tirò fuori il suo romanzo nel 2009, ma venne escluso dai grandi editori, e a pubblicarlo fu una piccola casa editrice newyorkese: la Bellevue Literary Press.

Tinkers (“stagnini”), questo il titolo americano, in Italia L’ultimo inverno pubblicato per Neri Pozza, fu un successo che gli valse il premio Pulitzer 2010 per la letteratura. È il suo “romanzo guerrigliero”, come egli stesso lo definì.

È la storia di George Washington Crosby, un riparatore di orologi, un tinker appunto, il quale, otto giorni prima di morire,  ripercorre la storia della sua vita e del suo rapporto conflittuale con il padre Howard, ammalato di epilessia, ambulante in giro per le gelide campagne del Maine con il suo carretto di saponi, schiume da barba, pentole e qualche gioiello di scarso valore. Questa malattia sarà per lui il segno malcerto del suo vagabondaggio, come quando la moglie lo allontanerà da casa, dopo aver morso la mano del figlio.

Rivede la sua stessa materia vitale: il primo orologio acquistato ad una svendita con il suo manuale per orologiai, la famiglia, il Natale 1953, e la soglia di suo padre davanti casa.

Romanzo di strati, geniale, pieno di dissolvenze e deviazioni, L’ultimo inverno è un orologio metafisico che, nella manutenzione delle ore, scova la traccia di un’opposizione, da un lato alla tragedia illogica della morte, dall’altro alla natura che colora le pagine .

In un’intervista recente Paul Harding ha raccontato l’epifania delle sue storie: «è un po’ l’idea platonica. E la scrittura è il tentativo di dare corpo a questa sorta di opera d’arte perfetta. Ma è un processo che non funziona mai. Il risultato è imperfetto. Ma credo sia proprio l’imperfezione del risultato a far tremare e sussultare il cuore del lettore».

La dissolvenza imperfetta si unisce al problema dell’immanenza e alla chiamata dell’esistenza, ai suoi paradossi, alle sue oscillazioni perpetue: «Penso che non ci sia tentazione più grande per l’uomo che guardare da un’altra parte, fuori dalla vita come è. Sì, la vita è dura e vorremmo che andasse meglio. A costo di fuggire le cose che ci capitano. Ma il principio estetico che perseguo è quello di andare dentro le cose, sempre più a fondo».

Paul Harding in questo romanzo offre “una potente celebrazione della vita. Storia di un padre e di un figlio che sublima il quotidiano in un’originale percezione del mondo”, come si rinviene nella motivazione del Pulitzer.

Basta poco a scoprire nelle rapide del suo linguaggio, preciso ed esatto, la luce di un dettaglio che diviene vita ripida che si muove: «Howard tirò su una crosta di patata con la forchetta. Quindi infilzò due fagiolini e un pezzo di prosciutto. Si portò il cibo alla bocca, ma si bloccò prima di addentarlo. I muscoli delle mascelle si afflosciarono. Ansimò e cominciò a sbattere le palpebre».

La descrizione apre la sua voragine di metafora e di simbolo. Una luce che splende sui passaggi umani e sull’imperio dei personaggi.

Il linguaggio misterioso dell’esistere confluisce nelle sue linee inafferrabili di tempo nel tempo, sulla fascinosa perdita dei miti familiari, del loro denso significato ultimo, del loro respiro: «Quando scrivo non smetto di cercare di afferrare il noumeno, l’idea perfetta, per portarlo nel mondo sensibile. Ma so che fallirò. L’opera d’arte è bella proprio perché riproduce il desiderio umano per il noumeno, per la perfezione, alla quale non si potrà mai arrivare. Ma non c’è ragione per smettere di cercarla».

La scienza del remoto, lo stupore sfarzoso dell’istante che sfoglia la sua cromata vitalità:«Quelle mattine gelide sono cariche di disperazione all’idea che, per quanto possiamo trovarci a disagio in questo mondo, è comunque tutto ciò che abbiamo, ci appartiene ma è pieno di affanni, e tutto ciò che possiamo chiamare nostro ci è sempre conteso; ma è comunque meglio di nulla, o no?».

L’isolamento delle gelide foreste e dei suoi stagnari, che vivono di rari splendori di lavoro e dignità, sono i lucenti bagliori della forza viva della bellezza di un canto umano, di uno stupore, di una forza silenziosa che cambia tutto, come una presenza, come l’amore che plasma.

Howard si siede nell’acqua fredda e petrosa del lago, circondato da erbe palustri, appena sente la parola del padre, in un sussurro di porto all’orecchio: «Non muoverti, non muovere un dito. Anche così, la tua presenza cambia tutto».

La gloria del mondo è un portone sul fuoco dei dettagli. Insegna a vedere Paul Harding, non solo a riconoscere le immagini sensoriali della natura e i suoi nidi, ma il valore dell’umanità, anche attraverso l’implacabilità della fine, la compostezza delle figure, l’umanità silente di un’America antica.

L’amore tra un padre e un figlio è la consegna fiera di una tradizione, anche se ha bisogno dello scontro per amarsi e comprendersi, tende all’infinito a cui appartiene, solca l’incontro come un accenno di rive sperdute e di un confine di traiettoria, come quelle canzoni sperdute «che non abbiamo mai conosciuto, che credevamo soltanto di ricordare, quando in realtà, tutt’un tratto, ci rendiamo conto che non le conoscevamo affatto, e al contempo capiamo quanto possano essere meravigliose». L’indizio serio di fronte all’universo e al destino, come la nostra origine e la nostra riconoscenza.

PAUL HARDING

L’ultimo inverno

Neri Pozza, euro 15.50

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