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Malcolm Lowry: l’arcaico indicibile

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La deriva e l’affondamento, la luminosa fugacità, la rivelazione e la lucentezza, la salvazione dissolta. Malcolm Lowry (1909-1957) abita questa disposizione, accogliendo le visioni di Conrad e Melville, unendo l’oscurità e il dolore, «attraverso le maschere che ingenuamente traslucide indossò, qui nella poesia, ci troviamo di fronte al volto nudo e fatale dell’uomo che era[1]», muovendosi

 

«in quella “terra desolata” di cui parla Eliot, in una dimensione visionaria che attraversa la febbre di Rimbaud, sprofonda «nel buio estremo, in fondo a tutto», quando «non c’è soluzione che la croce!», quando ancora «la mente scende quei gradini / e trova lo stesso molo, la sua disperazione». Eppure c’è sempre uno spiraglio di luce, la necessità di chiedere al signore di ascoltare perché «pregare dobbiamo, pregare è il nostro scopo», per non perdere  il senso vero dell’esistenza, «perché la mente viva, e la pietà non sfugga».»[2]

 

La pubblicazione di L’urlo del mare e il buio[3] di Malcolm Lowry, giù autore di quel romanzo estremo e ubriaco che è sotto il vulcano, a cura di Earle Birney e Massimo Bacigalupo, con traduzione di Francesco Vizioli, edito da Crocetti, restituisce il cuore della poesia di Lowry a distanza, attraverso la fantasmagoria, il suono duro e spietato e il delirio, dove la materia «è ovviamente quella bruciante della vita disperata di Lowry, che risulta più intensa imprigionata, esaltata, nelle forme chiuse[4]»:

«Questo successo è come il cataclisma, / la casa in fiamme, il boato del crollo / con travi e tetto che insieme precipitano / e tu resti inerte a subir la condanna. / La fama, come l’alcolista, distrugge la casa del cuore, / rivelando che non hai vissuto che per questo. / Oh, non aver sofferto il bacio traditore, / ma fallire nel buio, sprofondare in eterno».

Il disastro, le rincorse, gli affanni, il sacrificio unico del tempo, gli orizzonti indicibili e insonni, quasi nascosti, dove le stelle rosseggiano e il cuore è un punto inabitato di eterno:

 

«Ferrei pensieri salpano a sera su navi di ferri: / vanno silenzioi come luci lontane, e i dinghy / i tuffano sull’ancora, e il traghetto scoppietta / e rotea come una trottola tra i vortici della marea: / ha voce di gallo rauco soffocata da tubi sporchi / come piume di fumo. La nave passa. I cutter / si discotano. Le campane squillano. Il traghetto esprime / un’ultima frase, bianca: labbra umane ne gridano / un’ultima, nera, un greve benvenuto / alla fine. Lasciano la città spietata i pensieri; / ma anche le navi sono di ferro e spietate; / l’uomo ha fianchi e cuore consunti dalla ruggine. / Ferrei pensieri salpano da città di ferro nella polvere, / ma quelli che tornano a casa sono lievi come colombe» (Le città di ferro).

 

Vi è in Lowry una salvazione da ogni disastro, una fiamma cupa e bellissima che impone di far emergere il tempo che è altrove e che fu; come un Eden perduto, una muta oscurità di oceano che impone la rivelazione della verità, il dubbio che non ha pace, lo sfioramento inesausto del tempo indicibile: «È, quella stella, assenzio / fra stelle d’amore? Questa nave l’eterno / E dove andiamo? Che la vita ci salvi tutti»:

 

«Non c’è alcuna poesia mentre ci vivi: / le pietre son tue, i rumori la tua mente: / i tram stridenti e ansanti, le strade che ti legano / al bar sognato dove ti disperavi, / sono tram e strade; la poesia è altrove. / Le facciate dei cinema, i negozi lasciati indietro / e pianti, non li piangi più. Stranamente indifferenti / appaiono i fenomeni del qui ed ora. / Ma solo che tu muova alla Nuova Zelanda o al Polo, / le pietre avranno fiori, canteranno i rumori, / i tram coccoleranno il bambino dormiente / che non riposa mai, la cui nave rullerà sempre, / senza poter tornare: ma pur dovrà portare / strani e pazzi trofei da Ilio ardente».

 

La bufera, l’inferno e la lotta indocile con la morte e il fato («L’inferno ha atroci torture, il suo fuoco divora / ma l’avvoltoio che risale il filo del vento è più bello / dei gabbiani che col vento discendono al pallido sole / o delle ventole del ricovero, che tessono sul telaio del fato / una speranza che mai osò innalzarsi quanto / l’inganno della vita, sul volo dell’avvoltoio. E può volare la morte, solo per amore del volo, / che mai farebbe la vita, per amor di morire?»), l’amore crocifisso e sfregiato, la tenerezza del sorgere, la rapacità animale, il buio dell’inverno e i suoi sigilli.

La tensione di Lowry è una nave perduta, una musica che sparisce tra le ombre delle onde, il battuto lunare e ancestrale come un continente di sogno e vita, un tempo concesso al cielo, che vorrebbe lasciare la muffa dell’anima e la bonaccia tetra e implacabile, quando il tuono dirompe nel dolore:

 

«Il vulcano è scuro e subito il tuono / inonda le fattorie. / In questo buio, peno a uomini intenti a procreare, / librati, chini, in ginocchio, accosciati, ritti, supini, / milioni di miliardi di perone che gemono, / la mano della donna eterna abbandonata sul fianco. / Vedo i membri induriti in una enorme roccia / ora squassata… / E grida che potrebbero essere gemiti di morenti / o gemiti d’amore…».

 

Il viaggio, il tempo consunto e riemerso, la paura, l’alcool nel vento che sussurra, l’amore ineffabile e assetato rappresentano il tempo di Venere, come una croce di luce smarrita, nelle stelle come fucili d’argento, nei notturni che scintillano, nel desiderio di felicità e negli abiti del dolore, come alfabeti sbattuti e annegati:

 

«Poi quando te ne vai, simile a una stella cadente / o a questo sobbalzante carro di fuoco / che, come un amore perduto, lascia una scia di fulmini / (ed io sono un povero pioppo che pensa al suo Cristo, / legno che mai non dimentica di essere stato una croce / e che da allora i agita, ci sia il vento o no), / ma ancor più come Venere, col desiderio oscuro / che ora mi acceca: / da principio la tua luce ricorda / una falce; poi ruotando, un cerchio bianco infuocato / – ti veli nel tuo volgerti, non perché sei lontana, / fino a  che bruci, e sei l’astro più fulgido – / Prega allora nella tua ora più lucente e solitaria / perché, riuniti, possiamo sempre riuscire / a tenere fermo il sole, tra noi stessi e l’amore».

[1] Birney E.,

[2] Panzeri F., Malcolm Lowry fra l’incompiuto e il dolore del mare, in “Avvenire”, 21 maggio 2021.

[3] Lowry M., L’urlo del mare e il buio, a cura di Earle Birney e Massimo Bacigalupo, traduzione di Francesco Vizioli, Crocetti, Milano 2021.

[4] Bacigalupo M., in ID., cit., p. 14.

Lowry M., L’urlo del mare e il buio, a cura di Earle Birney e Massimo Bacigalupo, traduzione di Francesco Vizioli, Crocetti, Milano 2021, pp.192, Euro 18.

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Lowry M., L’urlo del mare e il buio, a cura di Earle Birney e Massimo Bacigalupo, traduzione di Francesco Vizioli, Crocetti, Milano 2021.

Panzeri F., Malcolm Lowry fra l’incompiuto e il dolore del mare, in “Avvenire”, 21 maggio 2021.