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Narrare Napoli in versi e in musica

Oggi si chiama storytelling, ma il termine anglosassone non ci tragga in inganno: siamo di fronte ad un fenomeno universale, molto ben attestato nelle zone mediterranee fin dalla più remota antichità. Certo, in tempi relativamente recenti è divenuto un Genere, studiato per lo più all’americana, cioè pragmaticamente e con un certo dispendio di terminologia creata ad hoc. Per esempio su Wikipedia. org – da cui traggo traducendo liberamente – per storytelling si intende “la comunicazione di avvenimenti per mezzo di parole, immagini e suoni, spesso mediante l’improvvisazione e con vari tipi di abbellimenti estetici. Nelle antiche culture le narrazioni erano intese come una forma di intrattenimento ma anche di educazione e di preservazione della memoria collettiva; si presentavano fortemente strutturate, essendo costituite obbligatoriamente, oltre che dalla trama, da personaggi ben caratterizzati, il tutto secondo un punto di vista squisitamente narrativo.

E’ accertato che le prime forme di storytelling sono state orali ed hanno preceduto di gran lunga quelle scritte. Si ritiene anche che fossero accompagnate abitualmente da particolari gesti ed espressioni facciali  ed erano con ogni probabilità collegate a rituali religiosi: si pensa infatti che alcuni dei rudimentali disegni incisi sulle pareti delle caverne siano da interpretare come primitivi metodi di storytelling nonché come sussidi mnemonici per i cantori che le narravano. Sulla scorta delle pitture degli Aborigeni australiani si presume che le storie venissero raccontate usando una combinazione di narrazione orale, musica, arte rupestre e danza: uno spettacolo a tutto tondo. L’avvento della scrittura ha ovviamente mutato il sistema, ma non ha certo fermato l’appassionata attenzione della gente nei confronti delle storie narrate. Riporto di seguito ciò che scrissi in una mia dispensa[1] di scrittura creativa[2] del 2001:

“FAME DI STORIE

Si può forse perfino parlare di un’insaziata fame di storie, che accompagna l’umanità dai suoi albori. Basti pensare, per limitarci alla sola cultura mediterranea, agli aedi (Omero era uno di essi) e ai tragici greci o ai romanzieri egizi (soprattutto del Nuovo Regno). Anche se connessa originariamente più alla poesia che alla prosa, la narrativa sembra far parte delle più sentite esigenze umane,  evidentemente rispondendo ad un bisogno profondo della psiche. La fame di storie si può spiegare anche così, in chiave psicoanalitica. In effetti quando una storia ci piace – che si tratti di Pinocchio o dell’Odissea o di un racconto di Stephen King – significa che in noi avvengono, tra i tanti, soprattutto tre processi psicoemozionali: l’identificazione, la proiezione e la catarsi.

Per effetto dell’identificazione noi diventiamo virtualmente uno dei personaggi[3]: sentiamo come lui, proviamo le sue paure, le frustrazioni, i desideri. Ci riconosciamo in lui, le sue virtù sono le nostre, nostre le sue debolezze[4]. L’identificazione fa sì che la storia ci coinvolga direttamente, qualunque sia il tempo e il luogo in cui si svolge, compresi i non – tempi e i non – luoghi della fantascienza o della fantasy. Si tratta, naturalmente, di un processo non del tutto cosciente, come del resto la proiezione che ne consegue. Se riusciamo a identificarci con l’Eroe, proiettiamo su di lui i nostri sentimenti, ma del pari ci proiettiamo anche sui suoi nemici: la loro sconfitta, la loro distruzione diventano strumenti anche per la nostra brama di rivincita, per il nostro rancore, per la nostra incapacità di perdonare. E a volte riusciamo a liberarci di questa zavorra mentale, spazzando via nel contempo i sensi di colpa che ci causa. La catarsi, di cui ha parlato Freud a proposito del teatro greco, in fondo non è altro che questo: una purificazione che ci permette, tra l’altro, di riconciliarci con noi stessi. Tale azione che consiste a ben vedere nell’integrare all’Io tutte le sue parti[5], è uno dei mezzi – e dei fini – della scrittura creativa.”

La fame di storie – e torniamo a Wikipedia. org – è stata stimolata e accresciuta oltremodo proprio dall’invenzione della scrittura: le storie sono state riportate, trascritte e condivise ovunque, in tutte le parti del mondo. Sono state incise, dipinte, stampate su legno o su bambù, su ossi e su avorio, su ceramica, argilla, pietra, foglie di palma, cuoio, seta; ultimamente sono state registrate su pellicola, stoccate elettronicamente in forma digitale, perfino tatuate.

Le storie sono state precocemente utilizzate nel teatro. In area mediterranea forse è possibile pensare che le forme più precoci di drammatizzazione siano state le sacre rappresentazioni dell’antico Egitto ove periodicamente si mettevano in scena gli eventi mitici collegati alla morte e alla resurrezione di Osiride. Passata in ambito greco, la rappresentazione delle storie toccò vertici mai raggiunti né prima né dopo; scoprire nella canzone napoletana una liaison con precedenti tanto illustri non fa specie se si riflette sui rapporti, strettissimi in ogni campo, intercorrenti per secoli tra la madrepatria greca e la Magna Graecia in cui si riconosceva il Meridione d’Italia. Tracce di tutto ciò sono arrivate fino a noi ed un esempio eclatante è rinvenibile nella  Sceneggiata Napoletana, di cui parlerò più ampiamente in seguito, perché ora è giunto il momento di esemplificare quanto detto con un caso tipico di canzone narrativa drammatizzata: “LACREME NAPULITANE” (Bovio – Buongiovanni, 1925). Anche se in apparenza qui non sembra del tutto evidente la struttura completa della sceneggiata, ad una più attenta analisi si ritrovano facilmente

<<i canoni entro cui si muovono le storie portate in scena dagli autori delle sceneggiate napoletane, come l’amore, il tradimento, l’onore, talvolta la malavita, sintetizzate nel trinomio dei protagonisti:

isso (“lui”), detto anche “tenore”, l’eroe positivo;

essa (“lei”), detta anche “prima donna di canto”, l’eroina;

‘o malamente (il cattivo), l’antagonista.

Ben definite anche le parti di contorno:

‘a mamma, la seconda donna;

‘o nennillo (“il piccino”), un fanciullo generalmente figlio della coppia principale;

La donna è vista quasi sempre in termini negativi, pronta a tradire l’amato e portatrice di valori soltanto in quanto mamma[6]>>.

Per l’ascolto propongo naturalmente la versione inarrivabile di Mario Merola

http://www.youtube.com/watch?v=pLJNILvSOXA

anche perché Merola fu il protagonista del film (1981) diretto da Ciro Ippolito e contenente un numero enorme di pezzi famosi eseguiti anche da altri interpreti. La trama, piuttosto semplice, è palesemente cucita sulla canzone. YAHOO! CINEMA la riporta così:

<<Magliaro d’onore, Salvatore [Mario Merola] fa il pendolare fra Napoli e Milano. Nel frattempo sua moglie Angela, ex cantante di successo, è corteggiata da un camorrista. Angela è senza macchia ma la malizia dell’infame, unita ad un brutto scherzo, fa sì che Salvatore ritenga di scoprire la consorte in flagrante adulterio. Scacciata di casa, la donna viene separata dalla bambina e Salvatore se ne va in America. La situazione precipita: la bambina va a finire sotto la macchina del camorrista e intorno al suo lettino dell’ospedale si ricompone la famiglia e il film finisce con la festa della Prima Comunione della bambina>>.

Vistosa la traccia fornita dal testo, anche se quest’ultimo è decisamente più ricco di spunti sentimentalmente rilevanti:

Mia cara madre/
sta pe’ trasi’ Natale/
e a sta’ luntano chiù me sape amaro./
Comme vurria appiccia’ duje tre biancale,/
comme vurria senti’ nu zampognaro!/
‘E ninne mie facitele ‘o Presepio/
e a tavola mettite ‘o piatto mio:/
facite, quanno e’ a sera d’ ‘a Vigilia,/
comme si’ mmiezo a vuje stesse pur’ io …/


E’ Natale, nella canzone: la festa più dolce per chi ha il riferimento animico del calore familiare, la certezza degli affetti corrisposti. Per chi è solo – e i motivi sono in fondo irrilevanti –  è il topos di tutto ciò che non ha, che non ha più (o che non ha mai avuto?). La nostalgia si accentua nel confronto tra il Natale di casa -  di Napoli, con tutte le sue piccole-grandi dolcezze che fanno patria e famiglia e tradizione profonda – e quello altrui che niente fa risuonare nel cuore dello straniero. Rispetto alla sceneggiata classica ci siamo: c’è il protagonista – che è anche l’Io Narrante – e c’è la Madre, la Santa Donna, più avanti identificata con la Madonna dei Sette Dolori dinnanzi al figlio crocifisso. Rispetto al film ci siamo quasi: qui il numero dei figlioletti e imprecisato, mentre nel film c’è soltanto una bambina. L’atmosfera accorata è comunque accentuata dalla ritualità festiva, cerimonia da cui essere esclusi implica una sorta di morte simbolica: ecco la richiesta alla madre di mettere in tavola per il Pasto Sacro anche la porzione per l’Assente. Il piatto messo a tavola gli garantisce in qualche modo che il legame vitale non è spezzato, malgrado tutto.

E ‘nce ne costa lacreme st’ America/
a nuje Napulitane!/
Pe’ nuie, ca ‘nce chiagnimmo/
o cielo e Napule,/
comme e’ amaro stu’ pane!/

Nel ritornello la storia esce per un momento dal binario della soggettività, estendendosi a tutti i Napulitane, i soli in effetti a piangersi[7] il cielo di Napoli. In realtà è possibile espandere ulteriormente la generalizzazione: a chi non sembra bello, unico, insostituibile il proprio cielo? A chi non sembra amaro il pane altrui[8]? La parentesi universalistica continua all’inizio della seconda strofa:
Mia cara madre,/

che sso’, che sso’ ‘e denare ?/
Pe’ chi se chiagne a patria nun so’ niente:/
mo tengo quacche dollaro e me pare/
ca nun so’ stato maie tanto pezzente./
Me sonno tutt ‘e notte a casa mia/
e d”e criature meie ne sento ‘a voce,/
ma a vuie ve sonno comm ‘a na’ Maria,/
cu ‘e spade ‘mpietto/
‘nnanz ‘o figlio ‘ncroce./

Considerazioni filosofiche sui valori esistenziali autentici, i soli che davvero contano – o dovrebbero contare – per tutti gli esseri umani indistintamente. Poi un po’ di sana autocommiserazione, che coinvolge anche la madre-Maria e, implicitamente, le criature, rimaste ora anche senza il padre dopo essersi visti malamente deprivati della mamma. Dopo il secondo ritornello, il finale, straordinario per una ragione che vedremo:

M’avite scritto/
che Assuntulella chiamma/
chi l’ha lassata e sta luntana ancora./
Che v’aggia di’? Si ‘e figlie vonno ‘a mamma,/
facitela turna’, a chella signora./
Io no, nun torno, me ne resto fore/
e resto a fatica’ pe’ tutte quante./
Io, c’aggio perzo a casa, ‘a patria e ‘onore,/
io so’ carne ‘e maciello, so’ emigrante/

Niente lieto fine, fondamentalmente perché il torto in effetti c’è stato. L’adulterio si è compiuto, così come la fuga peccaminosa, come il dissennato abbandono del tetto coniugale e soprattutto dei figli. Ora, a quanto sembra, l’infame si è pentita, vorrebbe ritornare sui propri passi, forse spera nel perdono. Ma quello che il marito le concede obtorto collo perdono non è, bensì un estremo atto d’amore paterno nei confronti dei bambini, Assuntulella in primis. Sarebbe perdono se lo sposo accogliesse l’idea di poter tornare: ma non si torna dall’Aldilà e chi ha “perzo a casa, ‘a patria e ‘onore” è di fatto già morto anche se ancora respira (carne ‘e maciello). La scelta dell’emigrazione si rivela infine per quello che è, almeno in questo caso: un suicidio morale, cui corrisponde la decisione di non lavare nel sangue l’onore irrimediabilmente insozzato.

Può sembrare strano, ma LACREME NAPULITANE non è l’unica canzone a presentare l’emigrazione come unica possibile alternativa alle sofferenze d’amore. Chiudo la puntata con un esempio molto diverso ma che rimane in tema:  ‘A CANZONE ‘E NAPULE, cantata (meravigliosamente) da Mirna Doris

http://www.youtube.com/watch?v=JBv8AVUKxkU

La decisione più pregnante in assoluto mi sembra comunque quella di non vendicare il vulnus subito dall’onore. La tradizione proponeva, quando non imponeva tout court, ben altre scelte, in un gioco dei ruoli sclerotizzato da secoli, come vedremo nelle canzoni narrative della puntata seguente.


[1] So bene che non si dovrebbe autocitarsi,  ma siccome da allora non ho cambiato idea …

[2] “Creating Worlds”.

[3] Di solito il protagonista, ma non necessariamente.

[4] Ecco perché non esiste un Eroe completamente positivo,  perfettamente inattaccabile: l’invulnerabile Achille concentra la sua fragilità nel tallone, il fortissimo Heracle cede troppo spesso al vino, perfino Superman deve fare i conti con la  kriptonite. Senza qualche pecca, qualche punto di rottura la nostra identificazione con il personaggio non sarebbe possibile e la sua storia, non riguardandoci, ci lascerebbe indifferenti.

[5] “Homo sum. Nihil humanum a me alienum esse puto”,  scriveva Terenzio.

[6] Da Wikipedia.

[7] Da notare la forma parariflessiva del verbo, che ne intensifica la valenza.

[8] E ricordiamo Dante, nel XVII del Paradiso.

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