Print This Post

“Non è un paese per vecchi” di Ethan Coen e Joel Coen

Nel deserto del Texas, un cacciatore di nome Moss trova una valigia piena di dollari sulla scena di un massacro per uno scambio di droga andato a male. Molti sono sulle sue tracce, tra cui un killer psicopatico e l’anziano sceriffo. Il film ha fatto messe dei più importanti oscar 2008: miglior film, migliore regia, migliore sceneggiatura non originale (tratta da un romanzo dell’acclamato scrittore di western contemporanei C.McCarthy), miglior attore non protagonista (lo spagnolo J.Bardem). E’ un film spiazzante. La cornice narrativa sembra essere quella di un noir: la borsa coi soldi e la sua caccia spietata, con contorno di morti violente. Ma, a parte la violenza, pur spesso presente e altrettante volte “laterale”, cioè non direttamente esibita, noi assistiamo soprattutto alla sua messa in scena “da fermo”, come di un qualcosa che avviene intorno a noi e diventa il sostrato abitudinario del nostro vivere. I due registi-sceneggiatori è come se avessero optato una scelta radicalmente antitarantiniana. Tarantino è fin troppo affascinato dalla messa in scena in chiave fortemente spettacolare della violenza, del suo manifestarsi sia coreograficamente che nel montaggio ecc. I Coen risultano, almeno qui, molto più sobri. E’ come se volessero dare maggiormente spazio alle amare riflessioni umane, piene di sconforto e di pessimismo, che gli anziani, messi in scena in quei posti tristi e pieni di solitudine, fanno sugli episodi sanguinari cui assistono impotenti. Una violenza che tritura spietatamente tutto e tutti quelli che si accostano a quelle scorciatoie dell’arricchimento, rappresentate dai soldi dell’illegalità. Fortemente emblematica è la figura del killer: è un angelo della morte che annuncia l’impossibilità di chiudere, se non col sangue, il percorso che vorrebbe essere di mettere capo al “sogno americano”, ovvero l’arricchimento veloce. Egli è dotato di una staticità facciale e gestuale, in cui non è semplicemente rappresentata la follia,  ma la variabile incontrollabile di un processo che, una volta messo in moto, ha meccanismi suoi propri, su cui non è possibile più intervenire. Il film introduce tutti gli aspetti della narrazione nei modi narrativi del film di genere, ma se ne distacca perché ha la forza di non portarli “a termine”. E’ come se i due registi inducessero noi spettatori a prendere le distanze da quanto sta avvenendo sotto i nostri occhi, ma anche a fare attenzione all’esemplarità brechtiana dell’insieme, senza soffermarsi sulle singole vicende, talvolta “smontate” da battute ironiche. In questo senso globale, è un film filosofico.

Lascia un Commento

L'indirizzo email non verrà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

È possibile utilizzare questi tag ed attributi XHTML: <a href="" title=""> <abbr title=""> <acronym title=""> <b> <blockquote cite=""> <cite> <code> <del datetime=""> <em> <i> <q cite=""> <strike> <strong>