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Percy Bysshe Shelley:Il chiarore dello sguardo

“I poeti sono i non riconosciuti legislatori del mondo”. Questa sentenziale espressione, di P.B.Shelley (1792-1822), cara anche a Tasso prima di lui, sembra fornire una decisione perentoria sul carattere formativo dell’uomo nei suoi rapporti sociali e politici. Quasi nella sua tacita appartenenza all’esperienza filosofica di Vico, peraltro in filigrana, persegue il suo cammino poetico immergendo il linguaggio in una fervida arcaicità, in cui la parola diviene limpida espressione di orizzonti vasti e dilatati. Poesia di forme, dunque, poesia in-ascoltata, ma creativa e inconoscibile.

Ha una tensione il verso di Shelley ad una soggettività mitica che reca il deposito antico di figure e sogni e erge la sua forza verso una superiore conoscenza del mondo, in cui l’io lirico avverte il proprio universo percettivo, in uno scenario ora gotico, ora classico, ora moderno. <<La sacra ombra di un’invisibile/ forza fluttua benché invisibile a noi vicino/ visita il mondo con una così incostante/ ala come i venti d’estate che strisciano da fiore a fiore…>>. Il poeta è legislatore perché obbedisce al sacrale ministero della Bellezza e insegue la sua predestinazione e fusione con l’anima cosmica e palingenetica delle cose.

La memoria poetica di Shelley è sospesa su di esse, come nella simbiosi dei riflessi degli alberi di pino sugli stagni: <<Come un’amata, la foresta aveva/ prestato al cuore dell’acqua buia ogni sua foglia…>>. Anche il mito risulta simbolizzato percettivamente, in una dimensione atemporale, è il nome dei prolungamenti onirici sulla realtà, ed è soprattutto, come testimonia il dramma di Prometeo, il pensiero della civiltà.

Come scrive il poeta Giuseppe Conte: <<Il bene del mondo, della natura e degli uomini è la continuità, la fusione amorosa; il male è la impossibilità di assurgere a una gioia stabile, a una condizione felice che non sia quella del sogno>>. Tutto muta nelle sospensioni naturali delle stagioni, cosicché il destino mortale degli uomini si slancia verso la redenzione, purtroppo inattingibile. Sembra quasi che la difficoltà di questo sacro inseguimento abbia radici d’ombra, in una forma in cui <<la dialettica dell’infinito desiderio e di limiti finiti tentano di sconfiggere il desiderio>> (Harold Bloom).

Una allegoria di Spiriti combattenti, il Primo ricorda al Secondo la permanente esistenza delle ombre che tarpano le sue fughe dalla luce, pur riconoscendo la prepotente bellezza dei suoni e  dei colori, (<<Un’ombra è sulle tracce del tuo volo di fuoco. La notte viene>>), Il Secondo avverte l’infinita potenza del suo Desiderio, attraversabili anche nelle oscurità, nel risveglio ricolmo di alba, un’alba umana, profondamente radicata nella vita: <<e una forma argentina, al suo primo amore/ simile, passa con selvaggi luminosi capelli/ e quando si risveglia sopra l’erba fragrante/ La notte è giorno>>. Il contrasto tra la sua misura visionaria e l’afflizione di un destino mortale, che la poesia cerca di innalzare nella sua primordiale attrattiva cosmica, vive di un panteismo generoso e ingenuo, forse retorico in alcune venature, che non è paragonabile a quella tattilità musicale e molteplice di D’Annunzio, come già vide Emilio Cecchi nel suo saggio sul Romanticismo Inglese, ma che si proietta verso un itinerario filosofico tout court, in quanto intuizione del reale nella totalità, come testimoniato nell’Ode al Vento di Ponente.

Scriverà Oscar Wilde nel 1897: <<Il posto di Cristo è veramente con i poeti […] . E’ vero, Shelley e Sofocle fanno parte della sua compagnia>>.

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