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Rowan Williams e l’improvvisa incisione del divino

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La poesia di Rowan Williams (1950), arcivescovo di Canterbury e primate della Comunione anglicana, si sporge nella materia e nella trama infinita del finito, attinge dalla teologia per far risuonare l’intimo segreto del mondo e la sua esperienza, e afferma, infine, la sua identità gallese nella pienezza della tradizione.

Non è la prima volta che la vivacità dell’espressione Anglicana fa emergere una fertilità immaginale  e una ricca densità: dopo i laici T.S. Eliot e C.S. Lewis e prima ancora John Donne e George Herbert.

Si deve a padre Antonio Spadaro, direttore de «La Civiltà cattolica» la conoscenza dell’opera del primate Williams, che qualche anno fa ha curato per Áncora, una raccolta antologica (dal 1994 al 2001) delle poesie, con la collaborazione e traduzione di Andrew Rutt e Elena Buia Rutt.

Rowan Williams è nato a Swansea, nel Galles, da una famiglia presbiteriana. A dieci anni, dopo il trasferimento nel borgo di Oystermouth, ha frequentato la locale parrocchia anglo-cattolica.

Ordinato prete nel 1978, dopo anni di studio e di pastorale, ha insegnato a Cambridge e Oxford, conseguendo il dottorato su Vladimir Lossky, teologo della Chiesa ortodossa russa. Nel 1992 e nel 2000 è stato consacrato vescovo di Monmouth e successivamente Arcivescovo del Galles, fino a diventare arcivescovo di Canterbury nel 2003, nel giorno della commemorazione del poeta George Herbert.

Incontrare la sua poesia, significa frequentare l’orlo di un testo schiuso, di una crepa fratturata, e le cui immagini appaiono dense di dettagli e di realismo, come scrive Bianca Garavelli su “Avvenire”: «a volte persino crude, in cui alcune rappresentazioni visive dei misteri cristiani assumono un volto diverso da quello a cui siamo abituati. Per esempio, la maternità di Maria viene anticipata dalla descrizione delle madri «scarne» di bimbi «consunti», visti intorno a un santuario mariano, a significare l’autentica presenza del Figlio in mezzo a noi».

La durezza granitica dei suoi versi, tenta di straripare, come «piccoli messaggi che riempiono le crepe» e le parole-pietre dischiudono scene, slavano e contengono paesaggi improvvisi.

Un invito, pertanto, a scalare il ritmo interiore e lo scenario imprendibile della sua terra. La ruvidezza della lingua percuote la brughiera, la durezza della sua voce tocca la pietra asciutta, testarda e tracimante dei ruscelli: «Tutto il girono oliano e lucidano, strofinano / come se la pietra fosse angustiata, increspata dal / tocco di brezza dell’angelo; come se la pietra / fosse contratta quale un muscolo inciampato, e una mano indurita e calda / potesse distenderla; come se il respiro roco e determinato / e l’olio caldo potessero fermare il soffocamento, rompere un sigillo / su un polmone non visto e gelato».

L’avvenimento della poesia si impone nel timbro di frasi grezze, nella levigazione di una lotta serrata, di un rango difficile e impervio che screpola la terra per sorgere da un respiro, da un battito che nomina il mondo, nell’azione di Dio, nell’avvento della Grazia, per rimanere, come scrive Antonio Spadaro «con la mano tesa nel tentativo inutile, ma sempre tentato, di acchiappare ciò che sempre sfugge: il significato, l’essenziale, il divino nel mondo»: «Pietra e ferro / mi si stringono intorno. / Davanti a me, una nube di vespe, / vive e morte, qualcuna appiccicata nella / densa e bianchiccia trama incollata lungo il percorso. Sento / le mie gambe rallentare; so che non c’è angolo / da girare a sinistra. / Sento la prima puntura sulla mano destra / tra polso e pollice. / So che morirò».

La concretezza della sua voce, quindi,  distende una incresciosa genesi ravvivata e germogliata, che ha bisogno di «scricchiolare / e ingobbire», per poi ambrarsi, creparsi e brillare, come uno schizzo o uno spruzzo. Sfigurare il lessico e tormentarlo, accumulare visioni e avvenimenti per intuire varchi nuovi e visti.

L’acqua delle piogge gallesi che irrora e fa vacillare la terra diviene la grazia fluviale che accumula per rompere ogni frotta, poiché essa è «straripante, irresistibile, stravagante e ostinata, / non sarà mai invitata, ad andare e venire, / come le parole, o la grazia. / […] essa cade a lavare le ferite; argini di contenimento» (Acque di Cornovaglia).

La presenza di contrasto e visione è una sentenza di durezza caduta e di morbido passaggio, di desolazione umana e periferica, che si agita e resiste, come afferma ancora Spadaro: «La vita vince solo se spacca la pietra arida: l’aggettivo dry, secco, è ricorrente molto spesso nelle poesie di Williams […]. La spaccatura, il solco, la fessura (cleft, altra parola chiave) che si apre nel terreno martoriato, nei tronchi degli alberi, nella pelle, diviene lo spazio disponibile, la condizione, per l’avvento dell’inaspettato. Il divino irrompe violentemente, «come sangue, come rottura (like blood, like breaking)», squassa (burst) e fa ribollire (to boil) un paesaggio raggrinzito (shrink) e congelato (frozen, gelid), destinato altrimenti a marcire e soffocare (to chocke, to smother, to muffle)».

Il bagliore inseguito e solcato che compare, diventa una ferita promessa accesa e certa, perché «devono esserci morbidi tizzoni che mandano su luce / da fuochi che la nebbia notturna ha attutito ma non ucciso».

La Grazia che improvvisa appare e sconcerta in scene impervie, rappresenta l’indizio della tomba scoperchiata e il sepolcro vuoto dopo la Resurrezione. In questo c’è la vita che scolpisce, indurisce, dove Cristo promana il suo avvenimento, nella bellezza «sconosciuta e affilata» del «rosso fiammante di dicembre».

Scrive ancora padre Antonio Spadaro: «Dio nei versi di Williams non ha mai i tratti dolci e romantici dei pittori preraffaelliti o di molta tradizione britannica. Dio ha qualcosa di ispido, di ruvido o, almeno, così si presenta all’uomo che lo accoglie, come a condividere radicalmente una condizione umana difficile e aspra».

La segreta visita di Dio è una ferita inferta al buio, in essa Egli entra nell’uomo, come pietra di scandalo, come plasmatore e intaglio: «Verrà, verrà / verrà come pianto nella notte, / come sangue, come rottura, / non appena la terra si dibatterà per liberarlo. / Egli verrà come bambino».

Il Bambino che si arrampica sul braccio e spalla di Maria, sua madre, spiazza, nel suo abbraccio il lettore, per la potenza dell’ascesa e l’implorazione dello sguardo, «soffoca ogni poro, come il vischio / morbido e splendente». E Maria, nel suo dolore quasi irrespirabile, sembra divenire la singolare espressione dell’umanità intera (Nostra Signora di Vladimir): «Il bambino ci ha ricoperti nei nostri letti, / non riusciamo a chiudere gli occhi, / il suo peso preme deciso, / si adatta su cuore e polmoni, / e soffocati ci giriamo / nella finestra di un buio senza confini / per scrollarci di dosso il calore che spinge insistente». Dio ricopre il nostro respiro essendo respiro. La sua tenerezza si “adatta” fisicamente, carnalmente all’inevitabilità di ogni poro, amato e voluto e la ferita della terra è ciò che permette che Egli possa manifestarsi. Come in Penrhys, dove le madri scarne di una periferia degradata e repellente alla fermata dell’autobus «scuotono i capelli bagnati, / accendono sigarette», tra «cartoni e preservativi e qualche randagio foglio / di giornate che il vento gli incolla / in faccia – / Il consunto bambino subgotico, ciondolando maldestramente / intorno, sta incollato a una madre scarna. / Angelus Novus». In quel luogo mariano, la forza veemente e testarda «di voler far nascere qualcuno», caratteristica delle ragazze di quel quartiere, «assume tratti di epifania per cogliere il divino nelle orme dell’umano, anche il più apparentemente lontano dalla grazia» (Antonio Spadaro). Il nido della salvezza promette compimento. Ne La dodicesima notte, Williams indica il giorno che precede l’Epifania: uomini offuscati negli occhi ascoltano il buio pungente e soffice della notte stellata e la voce del Bambino che parla di assoluzione e segna a dito la via della salvezza. Commenta Spadaro: «L’Epifania è visione della storia e del pieno coinvolgimento umano di quel Bambino alle vicende umane. […] In un certo modo la poesia di Williams si propone, infatti, come la poesia della notte, cioè del buio (già però abitato silenziosamente da Dio) che precede la luce dell’Epifania». Nel buio smarrito e oscuro, il limite inadeguato dell’uomo scorge la propria peculiare attinenza e scorge i colori di una luce mai vista, come il pittore che disegna una icona, come l’io bisogno che chiede l’infinito per affermare il suo fiato.

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