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“Sanguepazzo” di Marco Tullio Giordana

Osvaldo Valenti e Luisa Ferida sono attori famosi durante il ventennio fascista. Restano insieme anche quando decidono di aderire alla Repubblica di Salò. Arresisi ai partigiani, sono accusati di essere torturatori.  I due sono antesignani di un amore folle e distruttivo. Il regista ha cercato con tutta l’onestà documentaria e antideolgica possibile di ricostruirne la vicenda in un ambito di attendibilità storica. C’è riuscito? A mio avviso, si. Lo sforzo era, però, contemporaneamente di costruire un film che avvincesse: su questo punto i risultati sono meno entusiasmanti, anche se siamo in presenza di un film denso. La personalità di Valenti, che spesso i suoi amici chiamavano “Sandokan”, era quella di un attore-istrione sul set come nella vita: un fanfarone, che spesso confondeva la vita con una grande provocazione. Dotato di grande talento gestuale (anche se non di grande voce), lavorò con tutti i famosi registi dell’epoca, come Alessandro Blasetti, che propiziò l’incontro con la Ferida. Lei non era una semplice figurante, come appare nel film, ma un’attrice di teatro già affermata. Comunque, nella sostanza, è vero quanto detto nel film, circa la tempestosità, ma anche la vibrante energia erotica, del rapporto tra i due. Luca Zingaretti ne dà un’interpretazione validissima: la sua perentorietà caratteriale, ma anche la sua disperazione di cocainomane perso, sono rese con un’efficacia di sfumature e di tratti compresenti di grande accuratezza psicologica. E tutta la relazione trai due è molto ben descritta da una carnale, luminosa, sicura della sua incombente femminilità muta, Monica Bellucci. Come anche tutta l’architettura del regime fascista nell’ambito del cinema, compresa la fase RSI, è resa con una sicurezza di tratti che non è solo scenografica, ma concentrata su facce e modi di porsi, che la rendono assolutamente credibile. Lo è di meno quella parte dedicata alla prigionia, dove prevale il personaggio del regista-resistente Golfiero (un clone di Luchino Visconti?). Anche se Boni ne offre un’interpretazione intensa, risalta un approccio che vorrebbe essere riflessivo sulla serie di eventi, ma è solo rallentante. In questa parte del film, il miglior personaggio, per costruzione, è quello del Capo partigiano, l’attore M.Donadoni. Questi incarna i tormentosi dubbi che alla fine anche noi formuliamo. I due furono vittime di se stessi e furono travolti, come ha dichiarato il regista, per incoscienza e incapacità di distinguere la realtà storica dalla finzione. Pensarono che la famigerata Banda del torturatore Koch era una roba da film e non l’essenza di in regime folle e sanguinario.

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