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Servizi (a)sociali – parte prima-

Questa è la storia di Marta. Ma anche di Veronica, di Anna, di Filomena e di altre 11 ragazze di “buona volontà”. I loro volti sono reali, ma i nomi li lasciamo alla fantasia, per motivi che il lettore comprenderà nel corso, o magari solo alla fine di questa storia vera, a seconda della sua perspicacia.

Quindici tra psicologhe, sociologhe, educatrici, alcune diplomate, in maggioranza laureate, un mattino di tre anni fa ricevono una lettera d’incarico. Vivono sparpagliate tra centro e periferia dell’hinterland di quel pezzo di Campania che ancora ci si ostina a chiamare Terra di Lavoro e un anno e mezzo prima hanno risposto a un avviso pubblico del quale non ricordano bene più neppure il contenuto. Perché le buste gialle si sprecano in questo periodo e chissà che, tra una domanda e l’altra, qualcuno dai “piani alti” non dia uno stralcio di risposta.

Contrariamente a ogni previsione, il Comune capofila, al quale le ragazze hanno presentato domanda, quel dì si scomoda e le manda a chiamare. Per rendere edotto il lettore di prima e fargli capire cosa sia un “comune capofila”, dobbiamo necessariamente parlare di una legge, la 328 del 2000, che disciplina le modalità di intervento socio assistenziale su base geografica, parlando degli uffici di settore comunali, che ricevono indicazioni operative dai <<piani di zona regionali>>, ovvero programmi di intervento stilati dalle Regioni, che a loro volta sono obbligate a <<implementare attività>> in base alle disposizioni nazionali, ovvero ai fondi stanziati dal Ministero delle Politiche Sociali. Un gioco di matrioske in virtù del quale si passa da Stato- Regioni- Comuni e viceversa pur di mettere ordine in un settore complicato come quello dell’assistenza. E quest’ultima si declina di volta in volta in: contrasto alla povertà, famiglie multiproblematiche, minori  a rischio, disabilità, tossicodipendenze e molti altri mali dell’uomo animale sociale.

In teoria lo Stato Italiano avrebbe varato una legge quadro che applica il principio della sussidiarietà verticale per snellire le maglie burocratiche e migliorare il sistema di welfare. Il meccanismo è quello di decentrare sul territorio le competenze, conferendo alle amministrazioni locali il potere di dirimere le proprie questioni più urgenti e più specifiche, come è scritto nella nostra Costituzione e come la logica del buon senso vorrebbe, dato che tutto il mondo è paese, ma ciascun paese ha un mondo di problemi tutto suo.

In pratica, nel territorio in cui risiedono le ragazze, la legge è divenuta molto spesso una modalità “brunettesca” (l’aggettivo è un compendio semiserio desunto dall’unione del nome Brunetta con l’aggettivo grottesco), per demandare dal Ponzio locale al Pilato Statale i compiti di amministrare risorse e personale. Il che significa assicurare copertura finanziaria a progetti che hanno come fine ultimo proprio il recupero “degli ultimi”, come direbbe il Vangelo.

Ma ritorniamo alla storia delle ragazze di “buona volontà”: nel marzo di tre anni fa si ritrovano a firmare senza fare troppe domande la lettera di accettazione che le vedrà protagoniste di un <<intervento di assistenza educativa domiciliare a nuclei familiari in difficoltà>>. Perché proprio loro?

Perché un anno prima, come accennato sopra, le fanciulle avevano partecipato a un bando per titoli e curriculum come personale esterno da inserire in una lista ad hoc, dalla quale il Comune avrebbe dovuto attingere in caso di necessità.

Così: di necessità virtù. Il Comune in questione, con i suoi blandi tempi tecnici, sceglie e chiama a raccolta le ignare ritenute più idonee allo svolgimento dell’ “assistenza educativa”. Ma di cosa si tratterà mai? Ovvero, cosa saranno chiamate a fare queste ragazze? Vorrebbero avere delle spiegazioni in parole tanto povere, quanto le famiglie che a loro volta sono state selezionate per beneficiare dell’intervento.

Ma di quella povertà loro ancora non sanno nulla.

Il giorno dell’adunata, due assistenti sociali si affrettano a spiegare loro che il lavoro sarà, tutto sommato, abbastanza semplice. Frasi sciolte qua e là del tipo: <<Andrete a casa dei minori per fargli fare un po’ di doposcuola>>, oppure,  <<Li farete studiare, alcuni sono un tantino svogliati..>>. Va bene, ma quante ore durerà l’intervento? Risposte: <<Dipende… 10-15 ore a settimana, a seconda della famiglia, del vostro tempo a disposizione poi…fate voi>>. La sola raccomandazione sembra essere: <<A fine intervento fate firmare un apposito registro dai genitori dei bambini. Poi, una volta ogni tanto, ci portate una breve relazione del vostro operato. Niente di che>>.

Ma il compenso? <<Quanto ai vostri pagamenti, be’ si tratta in linea di massima di fondi europei, o magari regionali, o in casi più rari comunali: a volte ci mettono un po’ a sbloccarsi, per cui verrete pagate, questo sì, ma al limite ogni 2/3 mesi…>>.

Se la trasparenza degli atti amministrativi si potesse toccare con mano, in quel momento le ragazze avrebbero palpato pura aria viziata del fiato di chi non sa bene cosa dire, ma fa del chiacchiericcio cronico la sua ragion d’essere.

Per vivere in Campania (probabilmente in tutt’Italia), oggi, si deve scendere a compromessi con tante parole e troppi parolai.

La diarrea verbale degli enti pubblici è uno status symbol che nel nostro Sud lucra ferocemente sull’ansia da ricerca del posto.

Qui ed ora il lavoro mobilita l’uomo, e così le intrepide tutor, chiamate a raccolta da un vago telegramma e da sibilline spiegazioni, si mobilitano per cominciare a lavorare.

Di cosa accadrà o non accadrà in questo lavoro per i servizi sociali, vi diremo nella prossima puntata.

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