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Silvia Avallone e la speranza nuda

L’opera di Silvia Avallone ha radici lontane. È una giovinezza che risuona e che attraverso l’intima essenzialità della lingua e dei suoi versi scabri, si appoggia sì all’irregolarità, alla non-scadenza, a quello che Bertoni chiama “non-educazione del verso”  ma che vive di cadute e impennate decise.

Il debito con certa sonorità d’annunziana o echi montaliani o ungarettiani non toglie vivacità a un verso, che impregna la pagina e che non gli lascia tregua.

Esiste una parola che ama la scena, un passaggio breve che afferma la sua forza viva, dura e resistente ed è la parola miracolo.

Il miracolo è un doppio movimento, si agita sull’innaturalezza e sulla sua desiderabilità. Per avere questo desiderio occorre una presa di sguardo irriducibile, da bambini. Essi vedono i miracoli perché colgono la realtà in atto, nel suo dispiegarsi come <<un’isola sospesa / di marzapane, fluttuante da qualche parte / nell’universo, luminosa come un paradiso>>.

Un canto adolescente pieno di archi e di scene, di particolari e di attimi di nascita e rinascita: <<Il firmamento è qui – è il mondo/ dove gioco a diventare una stella. / È la festa del dio vivente / e la magia dei nostri corpi/ appesi al sole.>>.

Una speranza perentoria dove il paradiso è lo ‘scandalo’ di una certezza nel futuro in forza di una realtà presente. Vita che non è solo vita, corpo che è quotidiano respiro di nuovo inizio.

Il grande Giuseppe Conte nell’introduzione a Il libro dei vent’anni scrive: Silvia Avallone rappresenta un miracolo di verità e di vitalità, in un momento in cui tutto sembra abbandonarsi verso l’apparenza del nulla (…) l’innocenza di Silvia Avallone è uno sguardo aurorale sul mondo, come se ogni cosa fosse ancora da scoprire, ma non è affatto disarmata.

La fotografia che appare nel suo romanzo Acciaio, che ha vinto il premio Campiello come opera prima, il premio Flaiano ed è arrivata secondo nel 2010 al premio Strega, è una messa a fuoco di una provincia, Piombino (pur non essendo un romanzo su questo luogo), dove l’imponente presenza dello stabilimento siderurgico della Lucchini, dispiega il teatro di storie impregnate e vissute. L’inventata Via Stalingrado è uno sfondo di passo: << Da una parte c’era il mare, invaso di adolescenti in quell’ora bestiale. Dall’altra il muso dei casermoni popolari. E tutte le serrande abbassate lungo la strada deserta. Il mare e i muri di quei casermoni sotto il sole rovente del mese di giugno, sembravano la vita e la morte che si urlavano contro. Non c’era niente da fare: via Stalingrado, per chi non ci viveva, vista da fuori, era desolante. Di più: era la miseria>>

La storia dell’amicizia tra Francesca e Anna, le due protagoniste una mora l’altra bionda, si muove su un limite, si sporge dal limite.

Le donne di Acciaio hanno la forza di chi non censura nulla, di chi comprende che l’idillio senza fine deve mescolarsi con la durezza dei processi vitali, della voce che respira.

L’amicizia di queste due donne ha ampiezza e presa di sguardo di generazione, che non si definisce e che anzi, in uno spazio di tempo di trasformazione, afferma una tinta viva, in una realtà complessa e, solo apparentemente, disperata.

Anche la loro amicizia si spinge oltre, dipinge sogni e speranze, e vive momenti topici, come l’11 settembre, rivisto come rumore di fuochi lontani, ma recepito in un bar di provincia, che in quel momento diventa teatro del mondo, respiro di umanità.

La crudezza e il suo linguaggio duro non sono mai annichilimento.

C’è sempre una speranza sottaciuta, un gioco positivo di ombra che sostiene le storie, percorrendo spesso binari diseguali rispetto all’identità dei personaggi.

Persone vive in un mondo che ha la penombra dei passaggi, degli sguardi che si comprendono e si vivono, dietro le apparenze, dietro gli spostamenti indolenti.

Il tono elegiaco e lirico di  queste pagine non ha alcuna edulcorazione. E’ un tono realistico di messa a fuoco, un processo vivido di pagina, da molti definito brutale, ma fortemente rievocativo, proprio come ciò che sostanzia l’essere:  Il Cotone, il quartiere dell’acciaio. Nudo come una tomba. Non una panetteria, un alimentari, un’edicola. Forse la serranda abbassata di un’officina. Lo spolverino prodotto dal carbone te lo sentivi entrare nei polmoni, appiccicarsi addosso, annerire la pelle.

L’adolescenza non è solo un’età di formazione, di speranze infinite, di fuochi accesi, è il tempo in cui lo sguardo si forma, o meglio, prende forma dalle cose, dall’ampiezza del reale.

Il dolore, la morte non sono spostati come occhi indifferenti, hanno la solennità tragica e lieve dei corpi.

La discoteca, descritta e vissuta dai personaggi, è un trapasso di occhi, perché in quel movimento scomposto e assordante avviene il tempo di una nuova riconciliazione con se stessi e con il mondo.

Alla fine del romanzo queste figure si muovono, sulla spiaggia dell’isola d’Elba, dove far combaciare i loro orizzonti, in un unico sollievo di anima.

 

 

 

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