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Tra-noi.Saggi sul pensare all’altro

Tra-noi.Saggi sul pensare all’altro
Di Emmanuel Levinas, Jaca-Book, 21 euro

Emmanuel Levinas si è distinto per la coerenza, la continuità e l’acutezza con cui ha fatto progredire le proprie ricerche: «muovendo dall’esperienza del vuoto e del silenzio compiuta nei campi di prigionia, egli è giunto a mettere in questione la nozione di libertà costruita dall’umanesimo occidentale e, conferendo un nuovo senso ad una certa debolezza umana, ha approfondito in modo tutto nuovo il problema del negativo, dimostrando che la pazienza non è semplicemente il contrario della finitezza ontologica dell’umano e che l’uomo può ritrovare una parentela diversa da quella che lo lega all’essere, se procede alla propria identificazione non più sul piano di un’ontologia senza morale, e proclamante, anzi, il primato della politica, ma su quello di una trascendenza che, attestata dalla relazione di responsabilità che unisce l’io all’altro, ristabilisce, invece, il primato dell’etica, sancito nei millenni dalla religione ebraica». [1] Levinas, nelle sue opere, sottolinea il bisogno di guardare avanti, di riappropriarsi del futuro, mettendo in questione la sovranità di quell’io “detestabile”, che,  nel corso della storia, ha soffocato l’Alterità d’Altri, provocando innumerevoli drammi. Occorre, cioè, «rispondere del proprio diritto d’essere, non in riferimento all’astrazione di qualche legge anonima, di qualche entità giuridica, ma nel timore per altri. Il mio nel mondo o “il mio posto al sole”, il mio presso di me non sono stati usurpazione di luoghi che appartengono all’altro uomo già oppresso o affamato da me? »[2] Levinas nel tentativo di superare la fenomenologia husserliana e di procedere ad una critica radicale della filosofia heideggeriana, elabora una nozione molto interessante, quella di coscienza non-intenzionale, che vale la pena riprendere.[3]
Egli, analizzando l’ intenzionalità della coscienza, ritiene che «in quanto apprendere, il pensiero comporta un prendere, un afferramento, una presa su ciò che è appreso e un possesso»[4]. Il pensiero, cioè, per sentirsi completamente soddisfatto, appagato, tende ad assorbire l’essere che si dà alla conoscenza, a fagocitarlo: «l’opera hegeliana in cui confluiscono tutte le correnti dello spirito occidentale e dove si manifestano tutti i livelli, è insieme una filosofia del sapere assoluto e dell’uomo soddisfatto. Lo psichismo del sapere teoretico costituisce un  pensiero che pensa secondo la proprio misura e, nella sua adeguazione al pensabile, si conforma a se stesso, sarà coscienza di sé. È il Medesimo che si ritrova nell’Altro. L’attività del pensiero ha ragione di ogni alterità e, in fin dei conti, in ciò consiste la sua stessa razionalità».[5]La coscienza, quindi, è riduzione dell’Altro al Medesimo, implica esposizione all’afferramento, alla presa, alla com-prensione, all’appropriazione: « coscienza come lo scenario stesso dello sforzo dell’esse in vista di questo stesso esse , esercizio quasi tautologico del conatus al quale si riconduce il significato formale di questo verbo privilegiato che, alla leggera, si definisce ausiliario».[6] Ma essa non è soltanto coscienza diretta sul mondo, coscienza intenzionale; è anche coscienza di se stessa, coscienza che ha per oggetto l’io, i suoi stati e i suoi atti mentali. Coscienza confusa , riflessa, «in cui la coscienza diretta sul mondo cerca soccorso contro l’inevitabile spontaneità della sua rettitudine intenzionale, dimentica del vissuto indiretto del non-intenzionale e dei suoi orizzonti, dimentica di ciò che l’accompagna».[7]Si presenta, in altri termini, come cattiva coscienza, che, denudata di tutti i suoi attributi, si trova a rendere conto della sua stessa presenza: «nella passività del non-intenzionale – nel modo stesso della sua spontaneità e prima di ogni altra formulazione di idee metafisiche su questo argomento- si mette in questione la stessa giustizia della posizione nell’essere che si afferma con il sapere intenzionale, sapere e impresa del presente/tenente in mano: essere come cattiva coscienza; essere in questione, ma anche sottoposto alla questione, dovere di rispondere, dover parlare, dovere dire io, essere alla prima persona, essere io appunto; ma allora nella propria affermazione di essere io, dover rispondere del proprio diritto d’essere».[8] Ogni uomo è, quindi, chiamato a rendere conto del suo essere, anzi, del suo esser-ci, del suo essere qui e ora in quanto usurpazione del posto al sole di ogni altro esserci.

Già Heidegger, argomenta Levinas, aveva sottolineato che il Dasein, l’Esserci, in quanto essere-al-mondo è sempre essere-con, Mit-Sein, essere con gli altri. Ma proprio in questo rapporto con gli altri, l’uomo si confonde con l’essere degli altri, fino a cadere miseramente sotto la dittatura neutra e impersonale  del Si: « il Si c’è dappertutto, ma è tale da essersela sempre squagliata quando per l’Esserci viene il momento della decisione. Tuttavia, poiché il Si ha già sempre anticipato ogni giudizio e ogni decisione, sottrae ai singoli Esserci ogni responsabilità.(…) Il Si sgrava quindi ogni singolo Esserci nella sua quotidianità. Non solo. In questo sgravamento di essere, il Si si rende accetto all’Esserci perché ne soddisfa la tendenza a prendere tutto alla leggera e a rendere le cose facili. Ognuno è gli altri. Nessuno è se stesso. Il Si come risposta al problema del Chi dell’Essrci quotidiano, è il nessuno a cui ogni Esserci si è già sempre abbandonato nell’indifferenza dell’essere-assieme».[9]Per sottrarsi alla brutale tirannia del Si e ritornare ad un’esistenza autentica,  per riconquistare l’Eigentlichkeit, l’Esserci, secondo Heidegger, deve progettarsi in base alla sua possibilità più propria: la morte. Nella decisione anticipatrice della morte, che non significa nè la «realizzazione della morte»,[10] né un semplice pensare alla morte stessa, può cogliere pienamente se stesso, la sua essenza. «L’anticipazione svela all’Esserci la dispersione nel Si-stesso e, sottraendolo fino in fondo all’aver cura che si prende cura, lo pone innanzi alla possibilità di essere se stesso, in una libertà appassionata, affrancata dalle illusioni del Si, effettiva, certa di se stessa e piena di angoscia: la libertà per la morte».[11]

Levinas oppone al discorso heideggeriano una differente concezione dell’Esserci. Dal suo punto di vista, infatti, se è vero che il Dasein è, costitutivamente essere-con-gli-altri, esso si presenta come preoccupazione per l’altro uomo, sollecitudine per l’altro: «preoccupazione come santità, quello che Pascal chiamava amore senza concupiscenza».[12] In quanto tale, l’Esserci, prima di preoccuparsi e angosciarsi  per la sua morte, prima di pensare a sé, alla propria situazione, deve preoccuparsi per l’Altro, prendersene cura. «Il timore per altri, timore per la morte del prossimo, è un timore mio, ma per nulla timore per me. Esso rompe così con la meravigliosa analisi fenomenologica che Sein Und Zeit propone dell’affettività: struttura riflessa in cui l’emozione è sempre qualcosa che turba, ma anche emozione per se stessi, dove l’emozione consiste nel turbarsi, doppia intenzionalità del di e del per che partecipano, per eccellenza, all’emozione, all’agoscia; essere-per-la-morte dove l’essere finito è turbato della sua finitezza per questa finitezza stessa»[13]. La mortalità d’altri mette in questione il conatus essendi di un io che si vuole sovrano, padrone assoluto, signore incontrastato dell’ente, del mondo. Nella responsabilità per l’altro, responsabilità anteriore a ogni deliberazione logica che richieda una decisione ragionata, l’uomo è chiamato a diventare ostaggio dell’altro, ad assoggettarsi completamente ad esso, ad obbedirgli in maniera incondizionata. Si tratta di un’obbedienza che è bontà estrema, amore disinteressato; un’obbedienza che precede l’ascolto di un ordine e sorge davanti al volto d’Altri, ponendosi come base di una convivenza pacifica, in cui non vi sia posto per odio, risentimento, volontà di sopraffazione.

Levinas, non lasciandosi sedurre dalle argomentazioni di Heidegger, cui, del resto, riconosce grandi meriti speculativi, cerca di andare oltre la metafisica della soggettività, della volontà di potenza, costruisce un discorso imperniato sul primato dell’etica, della responsabilità. A differenza di Axelos, che non riesce ad evadere dalla filosofia del pensatore tedesco, dalla sua seducente gabbia concettuale, egli, memore delle terribile vicende storiche che hanno caratterizzato il ventesimo secolo, non  contribuisce alla disintegrazione dell’etica, ma tenta, piuttosto, di rifondarla, rivitalizzandone le fondamenta, ascoltando l’appello proveniente dall’Altro, nel cui volto “Dio viene all’idea”.


[1] G.LISSA, Etica della responsabilità e ontologia della guerra, cit., pp.74-75.

[2] E.LEVINAS, La coscienza non-intenzionale in Saggi sul pensare-all’Altro, Milano, 2002, p.165.

[3] Non è nostra intenzione prendere in esame in questa sede il complesso e profondo pensiero di Levinas, che richiede particolare attenzione e competenza. Cercheremo, piuttosto, di analizzare qualche breve saggio di questo filosofo, che, più di ogni altro, a nostro avviso, ha saputo sottoporre a dura critica Heidegger, proponendo un’etica della responsabilità, basata su un totale ripudio della tirannia dell’io e su una messa in questione radicale degli esiti nichilistici di certe tendenze della filosofia novecentesca.

[4] E.LEVINAS, La coscienza non-intenzionale in Saggi sul pensare-all’Altro, op.cit., p.159.

[5] Ibid., p.160.

[6] Ibid., p.162.

[7] Ibid.

[8] Ibid., p.164.

[9] M.HEIDEGGER, Essere e Tempo, cit., pp.159-160.

[10] Ibid., p.312.

[11] Ibid., p.318.

[12] E.LVEVINAS, Morire per…, in op.cit., p.242.

[13] Id.,  La coscienza non-intenzionale in op.cit., pp. 165-166.

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