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Una cosa divertente che non farò mai più di D.F. Wallace

<<E allora oggi è sabato 18 Marzo e sono seduto nel bar strapieno di gente dell’aeroporto di Fort Lauderdale, e dal momento in cui sono sceso dalla nave da crociera al momento in cui salirò sull’aereo per Chicago devono passare quattro ore che sto cercando di ammazzare facendo il punto su quella specie di puzzle ipnotico-sensoriale di tutte le cose che ho visto, sentito e fatto per il reportage che mi hanno commissionato>>.
<<Questa volta “Harper’s” ha sganciato più di 3000 dollari senza aver letto neanche una delle mie succose descrizioni ipnotico-sensoriali. Mi continuano a dire – con grande pazienza, al radiotelefono della nave – di non affliggermi per questioni del genere. Credo davvero che questa gente che lavora nei giornali sia in malafede. Dicono che tutto quello che vogliono è una specie di cartolina turistica gigante scritta da uno che ci è stato – vai, ti fai i Caraibi alla grande, torni e racconti quello che hai visto>>.

Da questi brevi stralci possiamo intuire il contenuto di “Una cosa divertente che non farò mai più” (A Supposedly Fun Thing I’ll Never Do Again, Minimum Fax 1997) di David Foster Wallace.
Wallace è ritenuto uno dei massimi talenti della letteratura americana degli ultimi anni ed è  scomparso prematuramente nel 2008, lasciando tutti, familiari e lettori, sconcertati.

Leggendo questo reportage ci si imbarca effettivamente su quella nave, ci si affaccia  con la testa dentro la cabina in cui alloggiava Wallace, si percepisce il suo agorafobico disagio.
Il testo, a tratti pura satira sugli americani in crociera, in alcuni momenti fa sprofondare in una terribile malinconica e pensosa tristezza. Prendiamo ad esempio questo passaggio: <<In queste crociere di massa c’è qualcosa di insopportabilmente triste. Come la maggior parte delle cose insopportabilmente tristi, sembra che abbia cause inafferrabili e complicate ed effetti semplicissimi: a bordo della Nadir – soprattutto la notte, quando il divertimento organizzato, le rassicurazioni e il rumore dell’allegria cessavano – io mi sentivo disperato. Ormai è una parola abusata e banale, disperato, ma è una parola seria, e la sto usando seriamente. Per me indica una semplice combinazione – uno strano desiderio di morte, mescolato a un disarmante senso di piccolezza e futilità che si presenta come paura della morte. Forse si avvicina a quello che la gente chiama terrore o angoscia. Ma non è neanche questo. E’ più come avere il desiderio di morire per sfuggire alla sensazione insopportabile di prendere coscienza di quanto si è piccoli e deboli ed egoisti e destinati senza alcun dubbio alla morte. E viene voglia di buttarsi giù dalla nave>>.
Leggendo col cosiddetto senno di poi, alla luce del suicido dello scrittore americano, avvenuto nel 2008, brandelli come questo assumono un significato profondo.

A riflessioni simili, si alternano periodi come il seguente: <<Ho imparato che in realtà ci sono intensità di blu anche oltre il blu più limpido che si possa immaginare. Ho mangiato più che mai e piatti più sofisticati che mai, per di più nella stessa settimana in cui ho imparato anche la differenza tra beccheggiare nel mare agitato e rollare nel mare agitato [...] Ho visto completi fucsia e giacche rosa mestruo e scaldamuscoli viola e marrone e mocassini bianchi senza calzini [...] Ho sentito cittadini americani maggiorenni e benestanti che chiedevano all’Ufficio Relazioni con gli Ospiti se per fare snorkeling c’è bisogno di bagnarsi, se il tiro al piattello si fa all’aperto, se l’equipaggio dorme a bordo e a che ora è previsto il Buffet di Mezzanotte [...] Sono stato oggetto in una sola settimana di oltre 1500 sorrisi professionali  [...] Ho mercanteggiato per dei gioielli senza valore con ragazzini malnutriti. Ora conosco ogni possibile giustificazione o scusa per chi spenda 3000 dollari per andarsi a fare una crociera ai Caraibi>>.

Wallace, pur mostrandosi alquanto a disagio sulla nave, la percorre in lungo e in largo, annotando qualsiasi dettaglio che attiri la sua ossessiva attenzione.
Il libro contiene anche un buon numero di note lunghe spesso più d’una pagina, vere e proprie divagazioni indispensabili  per comprendere lo sguardo di Wallace sulle cose. Nonostante le lunghe note, l’attenzione del lettore è sempre alta e la narrazione riesce a non perdere il ritmo e non risultare noiosa.
L’autore sembra avere una superiore e acquisita consapevolezza, una visione a trecentosessanta  gradi della realtà che lo circonda. Interponendo riflessioni che mettono a nudo la sua interiorità a minuziose descrizioni, Wallace sfrutta in modo sapiente la parola, elaborando un linguaggio qualitativamente superiore e mai compiaciuto.
Chiudo prendendo spunto da un commento trovato per caso in rete a proposito di questo libro: <<Divertente e arguta in molte parti ma alla fine si tratta di una critica alle crociere e al turismo di massa… un po’ troppo facile>>. Questo commento mi ha colpito subito, sembrandomi superficiale e anche un pò semplicistico. Certamente il testo di Wallace è il reportage di una crociera, ma in fondo è un libro che parla della vita. E’ un libro profondissimo ed  importante per comprendere un autore dalla straordinaria sensibilità come Wallace. Dopo appena tre pagine di lettura, ho capito che non si trattava di un comune reportage, ma di un libro complesso e sentito, uno scritto che trasuda della personalità di questo narratore dallo sguardo attento e disincantato, dalla sensibilità fuori dal comune,  in grado di osservare quello che gli sta davanti, per restituircelo trasformato, diverso.

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