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Antonis Fostieris: la finitudine della sillaba

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La torsione della lingua, il rinnovamento delle forme espressive, la vivace fecondità del pensiero contemplativo, il legame misterioso di cosa e nome compongono la fertilità di Antonis Fostieris (1953) che ricerca, come afferma Massimo Cazzulo, nell’introduzione di Nostalgia del presente[1], ripubblicato da Crocetti, il sapore cratileo

«alla scoperta del potere evocativo che ogni ente acquista in virtù del suono che lo connota. Ma se nel Cratilo Platone affronta l’argomento da un punta di vista puramente speculativo, Fostieris cerca di liberare il senso riposto delle cose, squarciando l’involucro fonetico che le avvolge, inserendole nelle caselle di una tassonomia quasi scientifica. È come se il nome che designa ogni realtà percettibile formasse intorno all’oggetto una sorta di velo che ci impedisce di raggiungerne il cuore, di riportarne alla luce l’antica purezza […]».[2]

L’essenzialità non diventa, pertanto, una isolata riduzione formale, custodisce l’irripetibilità nuda del tempo, la gioia e il dolore di una caccia compiuta che si riappropria del suono come esperienza e rifugio («Il nero sono le parole / Cadute una sull’altra / Le poesie stampate / Una sull’altra / E tutti i colori che lì trovarono / Il rifugio definitivo»), scardinando la versatilità della lingua, con rimandi, rievocazioni, pluralità verbale e incastro raffigurativo che cerca, in ogni linea, di fare atto nella realtà, divenire gesto, sillaba di silenzio e anima, dolore generativo dell’amore oscuro e frantumazione di pleniluni:

«Dove sei, chi sei, non so dove ho camminato / Non so nulla e non imparo nulla / Se ti amo è perché non ho altro da fare o da pensare / Ed è perché non ti rivedrò più in futuro / E neppure nel tempo che verrà dopo gli anni / Così posso dire che la mia felicità è completa / Come del resto tutto in questo mondo è completo / Basta una goccia perché trabocchi / E si versi la schiuma della loro follia […] / Oscurità mio specchio sfavillante / Dentro di te si aprono migliaia di strade / Il tuo stomaco digerisce tutti i suoni e i colori / Dentro di te mi sciolgo evaporo svanisco / Oscurità mia luce abbacinante / Sei l’universo prima della nascita e dopo la morte / Dunque sei l’universo anche in vita, dentro di te svanisco / Sei il nulla nudo e sono il nulla / Dentro di te svanisco».

Vi è, in Fostieris, una delicatezza vibratamente oscura che restituisce sperdutezza umbratile e caduta, solitudine cosmica e prisma metamorfico che innerva, appieno, la fisica della realtà, la sua sostanza, la matericità dell’essenza e dell’assenza («Se ti amo è perché ti amo nel tuo dolore / Se ti odio è perché mi acceca il mio dolore / La mia disperazione / Balza dalla sua oscurità nella notte / E si contorce con rumore dei serpe / Nella stanza / Ancestrale mostro domestico che mi nasce dal ventre»):

«Guarda le sue radici, non ho mai pensato / Che sono fatte di buio e di terra scavata / La casa, il suo corpo astrale, viaggia verso l’alto / Aerostato della fantasia o della disperazione / Irrimediabile lucciolio sulla sua assenza / – O è forse l’assenza delle cose / La nostra assenza che si specchia / Nel commiato e nella corruzione che ci attornia? / Chi ama ciò che esiste? / L’universo arde e tremulo svapora / Nelle sue abissali estensioni fuochi di secoli / Un’ineffabile nostalgia mi trascina in cielo».

La finitudine della parola, il silenzio fonetico, la luce sulle carte, il senso uterino della fine, la prossimità antinomica del reale si manifestano nel chiaroscuro, nell’alternanza contrastiva delle architetture verbali, nel disequilibrio (e conseguente equilibrio) dell’universo, che si protende in una dialettica di finito e infinito, presocratico essere e non essere, sussurro e grido, che escono dalle tipografie del nulla e dalla costante insolubilità di tenebra e segreto, fino al sangue versato della luce e ai paesaggi del nulla, dove galleggiano le bacchette alate di ogni vertigine:

«Camminai fin là dove l’oscurità / Fitta di luci dà sull’oscurità / Intorno a me uomini e oggetti in movimento / Il pensiero l’universo compresso. / Camminai con me stesso dentro di me / Anima tumultuosa in un’infinita solitudine / Udendo soltanto il trascendentale ticchettio / Sulle vene gonfie del vento. / Sono un vento propizio dunque e una nave / E forse un’esistenza prima ch’essa esista / Forse il corteo funebre di un’esistenza / O una poesia incompiuta / Incurante del suo viaggio nel futuro. / In alto i cembali e tamburi celesti / Il frastuono delle cose lontane e inaccessibili. / Vedi: / L’eternità muore di noia / Dopo aver oltrepassato il tempo / Non ha timori che la tengano in vita non ha sorprese / Né una morte che la tenga in vita. / Ma io? / Camminerò fin dove la mia oscurità / Si getterà nell’oscurità / Tuffandosi con gioia soprannaturale nelle tenebre del cielo / Che forse è la nave che sono io con un vento propizio / Forse la parola segreto / o cimitero / o nulla. / Ma la parola segreto non è una parola / È uno scrigno nero – un cedimento. / Anche i cimiteri – certo – sono cimiteri / Dicano pure gli altri che sono aeroporti».

Il sentimento della fine non ha, però, matrice nichilistica o pulsione di morte. La continuità del tempo, l’accerchiamento vitale, l’incombenza determinano il suo segno, la sua cifra sussurrata e l’inesorabilità caduca e refrattaria. Non esiste una ricetta per un istante che duri:

«Ogni opposizione / Si sgretolerà sotto il tallone del tempo / Che procede con passi e falcate di granito. E schiude / Un presente sospetto / E brucia / I sarmenti delle azioni con fiamme di sole alte fino al cielo / Dove il presente / Significa semplicemente il passato del futuro / O più precisamente il futuro di un altro passato / Giacchè, a quanto so, ancora non esiste la ricetta / Per un istante che duri».

Come una ferita dal nulla, il filo che raggiunge il cielo, il telegrafo dell’oscurità, la gloria della vita che macina l’oblio e scioglie ogni “nerità”. Ciò che resta è un’esile sfoglia in cui l’attimo è pressato e quel che resta di più è quel che fugge:

«Se sei passata per poco nel mio canto / È perché non esisti / Poiché ciò che vive / Dice da sé la gloria della vita / Poiché ciò ch’è vissuto ha visto sgonfiarsi alla luce / La palla-pena del suo trionfo. / Ma anche tu hai cantato a tempo, / Con il silenzio, / Aspettavi che si esaurisse l’Inno / Che si spegnessero i lumi della divinità / Mentre ora si odia quel che fu adorato / E quel che fu detto se lo porta il tempo / Lo macina l’oblio, lo disperde il fu. / Hai cantato a tempo, con il silenzio, / Sonavano le trombe dell’utero / E rispose nella stessa lingua la morte / Voce senza suono / Denso, incontenibile fin dall’inizio il nero / Dentro di lui si scioglie / Con stridori di luce / La sfera».

Massimo Cazzulo scrive:

«Come il silenzio circonda la poesia o il vuoto la materia, così la morte accerchia la vita, si presenta sotto forma di un futuro indeterminato ma sempre incombente, di una trappola pronta a scattare in qualsiasi momento e a trasformare l’essere in un terno non essere. Ma è importante notare che Fosteris non vede nella morte qualcosa di terribile o un mistero metafisico, ma un evento del tutto naturale. È il ritorno al nulla, al vuoto e, semmai, è la vita a rappresentare un’anomalia nel suo scorrere eterno, uno iato che la morte ricompone per sempre».[3]

La densità corporea, gli appunti per il futuro, il bagliore cromatico e pungente, l’assorbimento cosmico, le bucce di sillabe e le lacrime estranee, l’entusiasmo delle tenebre in cui la poesia non mendica elogi celebrano la nostalgia del presente, la sua remota costellazione, la velocità dello scontento, l’attesa che si accorda con la memoria in una anomala Sehnsucht del presente, come un bisbiglio di mare:

«Ho nostalgia del presente che vivrò. / (L’attesa si accorda con la memoria: / Entrambe falsificano quanto più possono / La sventurata realtà. Lo vedi.) / Quali eventi macchineranno di nuovo / La mia partecipazione? Quale variopinto / Straccio di passione / Imiterà di nuovo la porpora? / Mi stupisce / A che velocità si genera la noia. Se conoscessi / La matematica dei sentimenti correrei / Immobile come Achille (l’idea di Zenone) / Più lento della tartaruga della mia vita. / Non dobbiamo avere fretta. / Come osare sorpassi con il clacson / Quando avanti a te sono imbottigliati gli inferi. / Come puoi prevedere qualsiasi cosa accada, / In questo presente così remoto».

 

[1] Fostieris A., Nostalgia del presente, a cura di Nicola Crocetti e Massimo Cazzulo,Crocetti Editore, Milano 2021.

[2] Cazzulo M., Introduzione, in Fostieris A., cit., pp.5-6.

[3] Id., cit., p.13.

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Fostieris A., Nostalgia del presente, a cura di Nicola Crocetti e Massimo Cazzulo, Crocetti Editore, Milano 2021, pp. 132, Euro 13.

Fostieris A., Nostalgia del presente, a cura di Nicola Crocetti e Massimo Cazzulo,Crocetti Editore, Milano 2021.