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Da Saviano a Raffaello

Non intendo unirmi al coro ossequioso di quanti ritengono Gomorra, sia il libro che il film, l’ultima parola sul degrado delle nostre vite e delle nostre coscienze, la Cassazione della nostra sofferenza materiale e spirituale. Il racconto, a tratti verboso e scontato, di vicende di camorra, non lascia intravvedere la disperazione della gente, giacchè evita di indagare, di andare in profondità, mantenendosi in superficie e così dimenticando i pregi dell’andare in apnea, di trattenere il fiato. Ma meglio procedere con ordine. Il libro di Saviano, scritto sottoforma di romanzo, rappresenta la spettacolarizzazione malriuscita di una guerra che continua ancora oggi, una guerra fatta di silenzi, versamenti di sangue, eccessi hollywoodiani. Una guerra in cui uno stato, quello italiano, rinuncia ad esercitare la propria sovranità per la connivenza palese dei suoi rappresentanti, per una questione di do ut des, di incapacità cronica ad affrontare determinate problematiche. O, come ritengo più probabile, per nascondere il vuoto umiliante che attraversa le nostre istituzioni sempre più appesantite da una nomenklatura invadente, da richiami retorici ad una presunta questione morale, i cui termini non sono mai definiti. Tutti temi, insomma, che a Saviano non interessano, chissà per quale oscuro motivo. Non voglio criticare questo personaggio che, nonostante tutto, ha rischiato e rischia a tutt’oggi la sua vita, ma sta di fatto che la lente, attraverso cui guarda la realtà, non mette bene a fuoco certi meccanismi, riducendosi a cronaca letterariamente modesta di storie tragiche e non così semplici come vengono presentate. Di storie fatte di giochi di potere, di incroci fra camorra e politica. Di omissioni gravi e di sabbia buttata sui cadaveri per occultare e rendere più agevole la digestione della nostra Madre Terra. Di storie verso le quali solitamente si dimostra solo disprezzo, dimenticando le tribolazioni del nostro lumpenproletariat, gli anni perduti dei pusher, dei baby killer, dei tossici con le vene scassate che affollano l’asse mediano e le vele di Scampia, delle madri che piangono i figli aspettandoli fino a notte inoltrata davanti ad una tazza di latte e ad un pacchetto di Marlboro di contrabbando. Questo libro non ricompensa le “vittime”, ma le fa entrare solo in un quadro a tinte fosche, dove si tenta di rappresentare un mondo vasto, ma non ne viene abbozzata neppure la minima parte; sicchè, i buchi neri ingoiano tutto indisturbati. Passando al film di Garrone, la faccenda diventa ancora più desolante. Un pastiche di tecniche narrative distanti le une dalle altre, un montaggio che appesantisce anzichè rendere incalzante e brutale il ritmo del film. Una satura lanx di luoghi comuni. Non c’è passione e non c’è neppure distanza, ma solo il prevalere di un punto di vista "medio" che a poco serve. Mi è venuto, guardandolo, di pensare ad altri film su Napoli, film che mi hanno emozionato, che mi hanno assestato dei cazzotti forti alla bocca dello stomaco, facendomi trattenere il respiro per alcuni istanti. A Pater familias di Patierno o a Le mani sulla città di Francesco Rosi. Film che ti fanno sentire, vedere e toccare i mondi paralleli trascurati dalle cronache uffciali, dall’attenzione riservata ai luoghi comuni, catapultandoti in un viaggio terribile nel tempo e nello spazio, in un ritorno al presente che è sempre e comunque un proiettarsi nel futuro prossimo della nostra quotidianità. Da un lato, cioè, la critica di Rosi al mondo politico, alla convergenza tra mafie e classe dirigente, alla democrazia moderna ridotta a ciò che è sempre stato e sempre sarà: comitato esecutivo del capitalismo, difesa dell’interesse economico dei più che schiacciano i molti, controllandoli con sistemi disciplinari capillari e brutali. Dall’altro, il mondo dell’hinterland descritto da Patierno tramite le vicende di un ragazzo che, tornando a casa per un permesso dal Carcere di Poggioreale, ricorda i momenti di un passato che ancora lo opprime: le rapine dei suoi amici, la morte di qualcuno di loro, episodi di violenza familiare. Il tutto condito da una regia semplice e asciutta, che non cede mai alle facili esemplificazioni del Circo Barnum nel quale viviamo tutti quanti. Un circo che spegne la mente offrendo a tutti un companatico spirituale che funziona da oppiaceo. Pochi ne sanno prendere le distanze, pochi sanno valutarlo con la dovuta cautela. Chi scrive non prova vergogna delle sue radici, ma prova su di sè le contraddizioni del contesto nel quale è vissuto per ventiquattro anni. Da quando, bambino, si buttava nelle acque del Granatello e si ritrovava, appena uscito, le macchie di nafta sulle gambe; oppure vedeva una sposa con l’abito sporco di sangue del marito assassinato davanti a lei fuori della chiesa; oppure giocava a pallone in strade piene di siringhe sporche, che i più grandi tra noi provvedevano a togliere. Da quando si iscriveva ad un liceo d’elite, di figli di papà che si mostrano insofferenti nei confronti del diverso, del non omologato; oppure si ritrovava, ex scugnizzo resinaro, nella facoltà di filosofia di Napoli, immersa in un torpore intellettuale che spaventerebbe anche il più crudo e oppressore tra i dittatori. Chi scrive è soltanto inquietato dall’assenza totale di una cultura in grado di "negare" lo stato di cose esistenti, dall’allineamento, dall’uniformità di giudizio. Dalla mancanza di creatività nel pensare a delle alternative, dall’assenza della forza morale atta a realizzare progetti nuovi. Dal fatto di vivere su un palcoscenico a cielo aperto, sul quale ci aggiriamo sempre più storditi, confusi, normalizzati. Un palcoscenico sul quale si muovono strane figure, si cantano canzoni che tutti conoscono…attimi dove il cuore corre e supera gli ostacoli…sensazioni che ci coprono di brividi…perchè siamo innamorati…quest’amore a cioccolato…il sapore delle labbra che tu hai…la nostra storia sembra scritta da un cartone alla tv….tu ragazzina innamorata ma viziata un pò di più con i tuoi sogni nel cassetto mi ripeti molto spesso ca cu me vuò realizzà….troppo gelosa ma ti giuro ke mi piaci kome sei….sincronizzati a quest’amore fino al 3003…io che ti amo da morire vivo sulament’ ‘e te e tu pur pazz’ ‘e me…. Le ragazzine cantano estasiate, aspettano i loro divi al prossimo matrimonio o alla prossima festa di piazza. Poco lontano, qualche altro morto ammazzato giace in un’auto dimenticata o bruciata. Ma non importa: fa parte tutto del folklore partenopeo, tutto viene metabolizzato, trasformato in quello che non è e non potrà mai essere. E pure chi è lontano da queste zone, pure chi non ascolta Raffaello e simili, ha poco da sentirsi superiore: rappresenta solo l’altra faccia della stessa ipocrisia.

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