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Giorgio Caproni e il mare della città

La figura di Giorgio Caproni (1912-1990) nasce sotto l’influenza di Umberto Saba, ma si è imposta nella tradizione post-montaliana. La sua poesia rimane uno dei segni tangibili della stretta convergenza della lealtà poetica nei confronti delle sfaccettature dell’esistenza. Poesia visibile, fatta di ritmo e lingua asciutta e rime chiare come frecce di sole (Rime che non siano labili, / anche se orecchiabili. / Rime non crepuscolari, / ma verdi, elementari), di risarcimento e di grazia. Pier Paolo Pasolini presentava la sua opera nello stupore degli attacchi, per suggestione e importanza fisica delle parole. Parole che si impongono nel viaggio alla ricerca del senso della vita e del mondo. Livornese di nascita, da bambino si trasferisce a Genova: <<La mia città dagli amori in salita / Genova mia di mare tutta scale>>. La città offre i segni di una tensione verticale verso l’alto, un luogo dove far riposare il desiderio nel compimento, Genova frontiera di madre amata e dipinta di giovinezza (Tu sai cosa darei / Se la incontrassi per strada) e abitazione del Mistero e poi il mare, il mar Tirreno della sua giovinezza e dei volti: <<Il mare non lo conobbi, fui conosciuto dal mare>> (Divertimento). Scrive Edoardo Rialti: “ L’uomo, ogni uomo, si sorprende immerso, circondato in un mistero che egli non comprende ma che invece comprende lui, lo abbraccia, affascinandolo e spesso turbandolo. Il poeta non conosce, non capisce il mare, ma il mare conosce lui, custodisce non solo il proprio segreto, ma in qualche modo anche quello dell’uomo che lo scruta”.

Ed ecco il viaggio (Congedo del viaggiatore cerimonioso), parabola dell’esistenza che si approssima al termine della sua stazione. Il suo dolore non è mai solo suo, ha profondità universale, resta conosciuto e inconoscibile, in cui si soffre, come direbbe Giovanni Raboni, l’esilio dell’uomo dal luogo di tutti i luoghi. Un esilio da un anelito, si potrebbe dire: <<Uno dei tanti, anch’io. / un albero fulminato / dalla fuga di Dio>>. Caproni sembrerebbe scriverci dal deserto una lunga lettera di commiato con una valigia pesante (che assomiglia molto al fascio leopardiano del Canto Notturno) e un accenno di domanda potente: <<Lo abbiamo / lasciato passare dritto / davanti a noi // E solo / quand’è scomparso, il deserto / ci è apparso chiaro. // Che fare […] Abbiamo / scosso le spalle. Faremo, / ci siamo detti, senza / di lui. // Saremo, / magari, anche più forti e liberi. // Come i morti>>. Ma di lì in quel vuoto è apparso un limpido buio di grazia: <<Apparve (sulla trentina, / di strano colorito) un tizio/ (certo, di razza non latina) da me mai prima visto/ né conosciuto. // “Mi chiamo”, / mi fece, “Gesù Cristo”>>. Questa esigenza religiosa è radicale, anche se rimane nel sipario di interrogazione, di domanda d’origine.  Interroga quel Dio tanto lontano magari avvolto in una nube vuota d’osteria,e  poco più in là il territorio ‘buzzatianamente’ altro del mistero. Quel grande mare da cui veniamo e andiamo non sembra avere connotati né soluzione, il cuore gli dà la caccia (il franco cacciatore), teso ad affermare sì che non esiste significato ma che nulla di ciò che c’è, anche se perduto (res amissa) è in grado di cancellare il buco, il vuoto, il nome. I volti, le presenze vere allontanano il superfluo, i moralismi facili, si intinge di amore verso le cose e le persone: per quanto tu ragioni c’è sempre un topo – un fiore- a scombinare la logica. Direi che tutto il ragionamento è perfetto, se non avessi davanti questo prato di trifoglio […] e il persistente blu della notte,  che fa emergere il guizzo di Dio.

Ciò che aveva attraversato le strade dei suoi genitori e di sua madre, soprattutto, si rivede nel suo vertice prezioso: la donna amata. Non il vertice di un simbolo ma la consistenza di ciò che visivamente rende la terra preziosa e vivente, che accende il seme del piangere, pieno di nostalgia e stupore: <<Senza di te un albero / non sarebbe più un albero. / Nulla senza di te / sarebbe quello che è>>, ma dentro l’annichilimento di città e menzogne si impone una presenza vera: <<Il mare brucia le maschere, / le incendia il fuoco del sale. / Uomini pieni di maschere / avvampano sul litorale. / Tu sola potrai resistere/ nel rogo del carnevale. / Tu sola che senza maschere / nascondi l’arte di esistere>>. Quella donna vista come una luce di speranza dà vita all’orizzonte e attira sguardo e movimento: <<se il mondo prende colore/ e vita, lo devo a te, amore…>>, come un’origine visibile di identità.

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