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Giuseppe Ungaretti tra misura e mistero

L’esperienza poetica di Giuseppe Ungaretti (1888-1970) è un continuo viaggio alle radici, a una coscienza leopardiana, pascaliana d’espressione.

Scrive egli stesso: <<La poesia è scoperta della condizione umana nella sua essenza, quella d’essere un uomo d’oggi, ma anche un uomo favoloso, come un uomo dei tempi della cacciata dell’Eden: nel suo gesto d’uomo, il vero poeta sa che è prefigurato il gesto di avi ignoti, nel seguito di secoli impossibile a risalire, oltre le origini del suo buio>>.

La nettezza di Ungaretti ha la forma del passaggio, della tensione che <<se per dannata ipotesi, sparisse dal cuore e dai pensieri dell’uomo, l’uomo si destituirebbe dalla sua dignità, si farebbe simile al bruto non scoprendo più nell’armonia del creato la speranza dell’altezza come diceva Dante, lo spavento della bellezza, come diceva il Leopardi>>.

Il miracolo poetico ha un <<segreto>> ineliminabile, dove il teatro dell’umanità, con l’esilio e l’abbandono rappresenta traccia e visione, memoria e compimento.

Alessandria è il deserto, la notte, il nulla e la nudità di una voce divenuta percezione di una storia, non un emblema, ma un sostrato di amore e di pena.

I luoghi divengono, nel suo fare poetico, luoghi umani, vissuti primordialmente, impressi e leopardianamente vaghi.

Il suo <<grido unanime>> è la scoperta di essere poeta. Un riconoscimento dentro una tensione, come un <<fruscìo>> usato dall’ <<interminabile tempo>>.

La dura esperienza della morte, che nella sua poesia ha internamente la riflessione di Dostoevskij, significa percepire il limite e la nuda esperienza della condizione umana.

Misura e mistero: su questa elementare saggezza dell’esperienza, scrive Davide Rondoni, Ungaretti costruiva la sua ricerca del <<canto italiano>>, del canto cioè che avesse memoria viva di una civiltà. Lui, profugo ovunque, brancicò su Dante, Jacopone (colpito dal suo >>amor muto>>), Petrarca, Leopardi alla ricerca del canto, del ritmo come misura del mistero.  

Vedere l’invisibile nel visibile e sperimentare l’illuminarsi di una visione di uno spazio di luogo. Qui nello spazio di un porto sepolto, vissuto nello sradicamenti di chi è nato nell’altrove, lontano vagabondo in cerca di casa: <<In nessuna / parte / di terra / mi posso / accasare/ (…) Cerco un paese / innocente.>> Chissà quanta vicinanza c’è a quel <<paese sincero>> descritto da Dante nel Paradiso.

La poesia che, pur sentendo il peso dell’esilio, della lontananza, sente colori e inseguimenti interni. Da lì nasce la sua forza di tensione al vero e al mistero, come in quella Parigi dove egli scopre la delicatezza delle cose. Alessandria, Parigi, Milano, la guerra, dapprima cercata e poi sperimentata come condizione e esistenza, sempre attaccato alla vita, come quando <<quella genziana riesce ad alzare il capo e fiorire, è raccolto in lei tutto il cielo profondo della primavera>>.

L’Allegria è la percezione nuda delle parole, trovate nel silenzio e nell’abisso, nel <<delirante fermento>> in cui la vita fiorisce in parola ferma e netta, attraverso le sue gradazioni dure, come la pietra di San Michele, attendendo una voce che possa farle risuonare e vibrare, unendole e impastandole.

L’orrore del vuoto è l’orrore di un mondo privo di Dio, in cui si sperimenta la propria <<fralezza>>, la propria ferita.

La trama di Ungaretti conosce il dolore e la perdita, dal fratello Costantino a quella terribile del figlioletto Antonietto, di soli nove anni. Lì in quel guanciale di sofferenza egli plasma la propria matura interiorità: <<E t’amo, t’amo, ed è continuo schianto!…>>.

Intitolare la propria opera Vita di un uomo significa scendere a sorprendere le proprie esigenze ed evidenze originali.

Nella profondità lacerata, nel tentativo di ricucire il cordone dell’io con la propria dimora, scopre il riconoscimento di un orizzonte, di una tradizione viva e di un viaggio: <<il mio supplizio/ è quando/ non mi credo/ in armonia/ Ma quelle occulte/ mani/ che m’intridono/ mi regalano/ la rara/ felicità>>. Scrive Roberto Filippetti: L’io registra il naturale destino di morte della propria imprigionata esistenza: è circondato da una realtà peritura, sia che si guardi attorno, sia che alzi gli occhi verso il firmamento. Ma quest’uomo – il livello della natura in cui anche il «cielo stellato» prende coscienza della propria precarietà – non si chiude disperatamente nel negativo; sente invece urgere dentro prepotente la domanda di Dio.

Il limite cosmico rimanda all’infinito, l’inconsistenza del reale, analogicamente, grida il bisogno di un Centro in cui tutto consista, e dove la Redenzione viene vista come sostanza ermeneutica: <<Vedo ora nella notte triste/ Imparo,/ so che l’inferno s’apre sulla terra/ Su misura di quanto/ l’uomo si sottrae, folle/ alla purezza della sua passione>>.  Nel 1968, due anni prima che morisse, il Governo italiano gli tributa onorificenze solenni in Campidoglio. Scrive egli stesso: <<Non so che poeta io sia stato in tutti questi anni. Ma so di essere stato un uomo: perché ho molto amato, ho molto sofferto, ho anche errato cercando poi di riparare al mio errore, come poetavo. E non ho odiato mai. Proprio quello che un uomo deve fare: amare molto, anche errare, molto soffrire, e non odiare mai>>.

Ecco la sua cifra, la sua nostalgia, l’impronta che reca la sua natura e la sua corona.

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