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I “Racconti” sinisgalliani: sono un lungo sintagma narrativo, poetico ed elegiaco

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La pubblicazione, per Mondadori, dei Racconti[1], a cura di Silvio Ramat, di Leonardo Sinisgalli (1908-1981) restituisce un lungo sintagma narrativo, poetico ed elegiaco, con la forza di un accesso a una intimità non disvelata, al segmento memoriale, avvinto all’evento, alla descrizione attenta, alla vitalità feriale e ossimorica, innanzitutto, di un paese, poi dei viaggi, dei volti raccolti nella sperdutezza, dei riti sfogliati, dei luoghi che sconfinano nell’emersione.

La cadenza degli avvenimenti riscopre la memoria più vera e tenace, quasi facendosi orizzonte sottile. È la materia vivente che si svolge senza opacizzarsi, senza risultare ripiegata su se stessa. A volte risulta essere una lunga descrizione-feritoia, altre volte i particolari sono mezzi musaici che lasciano impronte, mappe, dicibilità di particolari che recuperano l’ancestrale arcaicità di un mondo perduto, come in questo caso:

 

«Quando migrano le mandrie dalle terre alte al tepore dei paesi di marina i buoi entrano all’alba tra i muri delle case. I bambini, scossi nel sonno dal clamore dei campani, si buttano scalzi dal letto alle finestre, a guardarli. Coperti di velli i pastori si appoggiano alle lunghe aste. Fuma la pelle alle bestie ruminanti. Le donne corrono ai balconi a strappare i panni colorati. I buoi stanchi del cammino e indolenti perdono la strada diritta e restano ammassati nei vicoli ciechi, su un panno di sole, abbattuti. Allora i nostri uomini escono dalle case in maniche di camicia e armati di pali cercano di alzare da terra i colossi dirupati. Ma è fatica inutile, ché bisogna correre alle funi, attorcigliarle alle corna e lavorare di polso come se si alzasse una campana. Il toro si fa trascinare fino all’imbocco del vicolo, poi si mette diritto a guardare il sole. I nostri padri allora, per asciugare il sudore, cominciano a bere. Il bue che lascia la mandria per stendersi al sole è una bestia malinconica: bisogna ammazzarla per evitargli di soffrire».[2]

 

Le carte di Sinisgalli sono s-confinate. Ossia emergono rigando le ombre, di coloro che non ci sono più, certo, ma sembrano rivivere in un soffio o in un fischio, conservato in una lettera di profilo, in una preghiera di luce e in una compagnia di giochi. Silvio Ramat scrive:

 

«Le distanze geografiche, il cattivo stato delle strade e l’insufficienza dei mezzi di trasporto fanno sì che i ritorni di Leonardo al paese si limitino alle vacanze estive: donde la mitizzazione delle selvatiche durezze e delizie di tutto ciò che – persone, rituali, eventi – pertiene a Montemurro e ne reca i suoni e i colori, i sapori e le forme, unitamente però a una maturazione frettolosa dall’infanzia all’adolescenza, accelerata dal vivere in comunità, i quegli spazi, i convitti, canonicamente luoghi anche di crudeltà, di schiettezze brutali; a compenso intervengono rari soccorsi di solidarietà virtuosa e di affetto, e si scatenano invece gli antagonismi e le paure, la voglia di rivalsa contro le emarginazioni e le punizioni patite nei ritmi quotidiani della vita di collegio».[3]

 

Non c’è qui recupero di vita, si diceva, ma vita stessa che si distende, disfacendo ogni orma di oblio, che tenta di appropriarsi di ogni segno, diventando essenziale negli oggetti, nelle pietre, nelle voci scamiciate, nelle mani screpolate come «navigli interrati». Un’osmosi di passato e presente, una consolazione sorgiva, una solitudine umbratile, un battito luminoso di speranza nel pudore di una forza quasi oscura, dove l’urto delle cose si fa sentire e scopre nudità di sangue e stelle: il viso di madre o l’inchiostro cucito nel sonno.

In Parenti lontani, capitolo che apre Belliboschi, Silvio Ramat afferma che

 

«la vita di lui è già implicita nella vita dei «parenti lontani»; del sentito dire se viene dalla bocca di qualcuno di loro, non si può dubitare che sia veridico. La fonte primaria sarà la stessa nonna Mattia, oppure suo marito, il nonno, un po’ più in ombra di lei ma amato anch’egli e determinante in qualche circostanza quando riesce a trattenere in famiglia ancora per un anno il nipote, prima di affidarlo al parroco che scorterà lui e l’amico Silvestro nel faticoso viaggio verso Caserta».[4]

 

L’irrevocabile distacco, lo strappo, la dura lontananza segnano quel preciso attimo, accanto alle sventure (la malattia della sorella Angela o il ritorno di zio Gaetano), come la lontananza che raggruppa ultimità e prossimità, dolore e gioia, attraversamento di figure e toponimi. La letteratura diventa così squarcio vivo di memoria raggrumata e risognata, primavera lacerata e illuminata e scoperta del mondo nella polvere. E poi il ricordo del’17 che riguarda la fanciullezza della madre Carmela, a Pietragalla, in un antico ricordo di uomini inghiottiti dalla terra, l’ombra del maestro, i capponi della vecchia Apollonia, arsa viva da un fulmine. Il bagaglio di Sinisgalli si riempie di ombre (come la morte del giovane istitutore Silvio, pugnalato una notte mentre tornava a casa), o il fuoco di Pietro ospitato per una notte e che brucerà ogni cosa, diventando l’incompiuto atto amaro di una colpa non espiata o inadempiuta. Che spesso diventa semiseria o semitragica come nel Ritrattino. Oppure il cosmo immenso di Elisabetta, che in un altro racconto sul lago finirà nascosta nella sagoma di un cigno, o quel che avviene nel racconto Il rospo. Vi è l’incanto di una strada con un orientamento obliquo che racconta un segreto. Egli doveva prendere l’autobus per andare da un amico, una scossa lo fa finire addosso ad un altro passeggero, è Fratel Mauro. Poi il racconto vira, improvvisamente, sulla sua immobilità in una primavera imminente. Lo trattiene a letto in una sorta di sonnolenza senza sogni, finchè le due esistenze, lo spazio e il luogo, il tempo e il suo contrario diventano essi stessi sogno: il rapporto di carità e di amicizia con lui, inspiegabile come le cose grandi, fin quando la sera vede un grande rospo su una lavagna e l’odio furioso di un’intera classe verso quell’uomo. Verrà richiamato sul letto dell’infermeria, lui, l’alunno più caro di tutti, dall’Assistente: «c’è solo una forza misteriosa capace di farci guadagnare o perdere la vita per sempre». Vi è, in Sinisgalli, sempre una forma di congedo con la realtà, in parte imposta dalle vicissitudini terrene, in parte sperimentata nella finitudine. Ma egli, attraverso la narrazione e la poesia riesce a dimezzarla, se non a sfrondarla. Richiamare non serve a vincere la perdita o la sospensione, bensì ad affermare, innanzitutto, il dolore dei transiti e dei passaggi plurimi. Le Pleiadi apparse come stelle amiche aprono tutti i volti di un lungo e immenso teatro di gesti, azioni, particolarità, luoghi (la solitudine di Roma o la potenza di Milano) sia che si svolgano nel mito, sia che appaiano nella fecondità delle amicizie e degli amori (Olga raccolta in una calligrafia di sogno e bellezza o l’estatica Anna), sia che occupano la clandestinità di parole e numeri. Montemurro è la genesi di una pienezza addossata ad una mancanza, uno sguardo ricolmo e in absentia, dove l’estremità solenne e realista unisce le sue anime in un unico lampo di luce sopraffina.

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Leonardo Sinisgalli, Racconti, Mondadori, Milano 2020, pp.40, Euro 15.

 

[1] Sinisgalli L., Racconti, Mondadori, Milano 2020.

[2] Ramat S., Sinisgalli narratore, in Sinisgalli L., cit., p.23.

[3] Id., cit., pp.XI-XII.

[4] Id., cit., pp.XII-XIII.