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Il prisma di Marianne Moore

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Si può – lo so – essere perdonati, / si può, per un amore senza fine.
Marianne Moore

L’inconfondibilità della traccia poetica di Marianne Moore[1] (1887-1972) non conosce il prisma della reclusione, anzi scompone il gesto modernista di Wallace Stevens e W.C. Williams in una intransigenza di ampiezza e di immagine che scompagina la metrica tradizionale e il ritmo.

L’utilizzo fratturato delle tecniche moderniste[2] e il privilegio per la componente animale impongono lo scarto di una nitidezza insistita che ama fratturarsi, idiosincraticamente, per poi unirsi in una fervida purità contrattile (lo «spazio per l’autentico»), protesa alla osservazione, ammantata di sensi e segreti, e immaginazione che non è l’«animato simulacro del respiro più intimo e inafferrabile dell’essere che è la parola scritta, ma un’espressione viva, corporea, che nasce dal silenzio e nel silenzio si articola, prende forma[3]»:

Neanche a me piace: vi sono cose più importanti di tutte / queste inezie. / A leggerla, però, con totale disprezzo, vi si scopre, / dopo tutto, uno spazio per l’autentico. / Mani capaci di afferrare, occhi / che sanno dilatarsi, capelli che possono drizzarsi / all’occorrenza, queste cose sono importanti / non già perché si possa sovrapporvi un’interpretazione / altisonante, ma perché / sono utili. Quando diventano così elaborate da divenire / inintellegibili, / di tutti noi si può dire la stessa cosa, / che noi non ammiriamo / quello che non potremo mai comprendere: la nottola / appesa a testa in giù o in cerca di qualche cosa da / mangiare, elefanti al lavoro, un cavallo selvaggio che si rotola, un lupo / instancabile in agguato / sotto un albero, il critico impassibile che arriccia la pelle / come un cavallo che sente una pulce, il tifoso di baseball, L’esperto di statistica – / e non è giusto fare preclusioni contro “documenti d’affari / e libri di scuola”; sono tutti fenomeni importanti. Ma c’è da / fare / una distinzione: se vengono gonfiati da mezzi poeti, / il risultato non è poesia; / né mai potremo avere poesia / e i poeti tra noi non diventano / “letteralisti dell’immaginazione”[4] – superiori / all’insolenza e alla volgarità, disposti a sottoporre / a ispezione “giardini immaginari con rospi veri dentro”. / Frattanto, se pretendi da una parte / la materia grezza della poesia / allo stato più grezzo che ci sia, / dall’altra parte ciò che è genuino, / allora ti interessi alla poesia.

 

O ancora volgendosi alla natura, conduce la spoliazione dall’insincerità umana, per sostare sulla costanza, sulla fermezza, sul rigore di un emblema invulnerabile e di una conquistata sopravvivenza che tendano all’infinità del desiderio, come la sua attenzione per la lumaca, come scrive Lina Unali:

 

La lumaca si muove tra i due poli del suo soggettivismo, tra la sua visione e la sua esperienza: il corno occipitale, proteso più verso il cielo che verso la terra, è l’organo  direzionale (come la fede per Scoto); il suo «method of  conclusions», testimoniato dall’assenza di piedi, l’ha portata ad un aristocratico rifiuto di ciò che non le è essenziale («the incidental quality») e che la porrebbe in contatto con un aspetto della realtà da cui ella rifugge […] La lumaca è modello di stile: colui che l’osserva,  per nulla distratto e tratto in inganno da elementi inessenziali, è in grado immediatamente di cogliere ciò che quella superficie nasconde [..]: amalgama di ‘visibile’ e ‘invisibile’ di ciò che è alla portata dell’occhio  umano e di ciò che ne è lontano, che gli occhi degli uomini da soli non possono vedere.[5]

Ecco il testo di Marianne Moore:

Se «la concentrazione è il primo dono dello stile», / tu la possiedi. La contrattilità è una virtù, / così come la modestia è una virtù. / Non già l’acquisizione di una cosa qualsiasi / capace di adorare, / o la qualità incidentale che per avventura / si accompagni a qualcosa di ben detto, / non questo apprezziamo nello stile, / ma il principio nascosto: / nell’assenza di piedi, «un metodo di conclusioni» / «una conoscenza di princìpi», / nel curioso fenomeno della tua antenna occipitale (A una lumaca).

Nata nel Missouri a Kirkwood, vicino St.Louis, dopo i problemi economici familiari, si diresse prima in Pennsylvania, frequentando il Bryn Mawr College e laureandosi nel 1909, poi a Brooklyn, dove visse con sua madre.

Iniziò presto la sua carriera poetica, dapprima con il seminascosto Poems (1921), fatto stampare in Inghilterra a sua insaputa da Hilda Doolittle e Winifred Bryher, e poi, successivamente, con Observations (1924) che la resero nota negli Stati Uniti.

I viaggi in Europa la impongono all’attenzione di T.S.Eliot o Ezra Pound, ad esempio, e la direzione della rivista letteraria «The Dial», divenendo un punto focale della dialettica modernista[6], ma mantenendo il drappo di una vocazione alla funzionalità e spiritualità del mondo fisico, al sospiro epigrammatico e alla impronta impersonale della sua voce, nascosta e poi rivelata,come scrive lo stesso Eliot:

 

[…] devo dire che Marianne Moore ha tenuto conto della lezione di Ezra Pound: che la poe­sia dev’essere scritta con la stessa ele­ganza della prosa. Si direbbe che la Moore abbia immerso il suo spi­rito nelle per­fe­zioni della prosa; nella pre­ci­sione della prosa, piut­to­sto che nel suo splen­dore; e che abbia tro­vato, per vie auto­nome, il suo ritmo, la sua poe­sia, il suo modo di pesare e apprez­zare la parola singola. Il primo aspetto per il quale la poe­sia di Marianne Moore è desti­nata a col­pire il let­tore è quello del minuzioso par­ti­co­lare piut­to­sto che dell’unità emo­tiva. Il gusto dell’osservazione minuta, della ricerca di parole esatte per espri­mere certe espe­rienze dell’occhio può per­sino distrarre l’attenzione del let­tore. Le minu­zie pos­sono addi­rit­tura irri­tare i disat­tenti o destare in essi sol­tanto lo stu­pore com­pia­ciuto che si prova davanti a una palla d’avorio che con­tenga altre undici palle, davanti al veliero rico­struito in tutti i par­ti­co­lari den­tro una bot­ti­glia, o danti allo sche­le­tro del pesce-crocifisso. Lo smar­ri­mento che nasce dal ten­ta­tivo di seguire un occhio così acuto, un pro­cesso d’associazione così agile e rapido può pro­durre l’effetto di certa poe­sia “meta­fi­sica”.[7]

 

Il collage delle citazioni e l’immagine particolare divengono le tappe sintomatiche che tendono alla chiarezza visibile della visione dell’oggetto, attraverso una limpidezza cristallina: «La potenza del visibile / è l’invisibile; e lo sa bene, / anche là dove non cresce l’albero della libertà, / il coraggio che chiamano brutale».

La forza delle parole polisillabiche impastano la perentorietà di un deliberato occultamento di sé, il travestimento che, come quel mitile da lei descritto «si apre e si chiude come fosse un ventaglio fiorito», per farsi decisione tagliente, preciso ordine che insegue il rilevamento e il disvelamento del reale:
Della luce del sole si può dire / più di quanto si dica del linguaggio: ma linguaggio / e luce, a vicenda / aiutandosi – francese l’uno e l’altra – / non han disonorato un aggettivo / che rimane ancora radicato. / Sì, luce è linguaggio. Libera franca / imparziale luce di sole, luce di luna, / luce di stelle, luce di faro, / sono linguaggio. E il faro / di Creach’h d’Ouessant, / sulla sua indifesa / scaglia di roccia, è il discendente di Voltaire, / la cui giustizia fiammeggiante andò / a raggiungere un uomo già colpito: / dall’inerme / Montaigne, il cui equilibrio, / conservato malgrado la durezza / del bandito, accese la scintilla / salvatrice del rimorso; di Émile Littré, / mosso dalla passione filologica, / ammaliato dagli otto volumi / d’Ippocrate, il suo / autore. Era / un uomo di fuoco, uno scienziato / della libertà, questo tenace Maximilien / Paul Émile Littré. Se l’Inghilterra / è difesa dal mare, / noi, con la consolidata Libertà / di Bartholdi, che regge alta / la torcia accanto al porto, udiamo / l’ingiunzione della Francia: “Ditemi / la verità, e specialmente quando / sia spiacevole”. E noi, / noi possiamo rispondere soltanto: / “Questa parola Francia vuole dire / affrancamento: vuole dire una / che “rianima chiunque pensi a lei”. (Luce è linguaggio).

 

Ecco l’appunto che diventa dialogo che dipana la sua arsi di gravità e dettaglio. Divagare, collegare situazioni morali ed estetiche, rintuzzare l’ombra misconosciuta delle cose, individuare la creaturalità minima per farla brillare: «Voi poeti, non fate troppo chiasso / anche la “tromba curva” dell’elefante “scrive”; / e verso un libro-tigre che sto leggendo – / quello che voi conoscerete, credo – / io mi sento obbligata. / Si può – lo so – essere perdonati, / si può, per un amore senza fine».

La parola-evento soggiace a un tremendo stato consapevole, assume il fascino di una naturalezza tesa e vivida, come accade in Black Earth: «Apertamente, sì, / con la naturalezza / dell’ippopotamo o dell’alligatore / quando si inerpica a riva e sperimenta / il sole, faccio / queste cose che faccio, che piacciono / solamente a me stessa»:

La letteratura è un fase della vita. Per chi ne ha paura / la situazione è senza rimedio; per chi le si accosta in confidenza / non conta quello che se ne può dire. / L’opaca allusione, il simulato volo verso l’alto / non ottengono nulla. Perché stendere un velo sopra il fatto / che Shaw si muove con impaccio sul terreno dei sentimenti / ma per il resto è gratificante; che James / è tutto quello che di lui si è detto? Non esiste uno Hardy romanziere / e uno Hardy poeta, ma un uomo solo che interpreta la vita come emozione. / Il critico deve sapere quello che a lui piace: / Gordon Craig con il suo “questo sono io” e “questo è mio”, / con i suoi tre re magi, i suoi “tristi prati francesi” e il suo “ciliegio cinese”, / Gordon Craig così soggettivo e privo di pudori – un vero critico. / E Burke è uno psicologo, di una curiosità acuta da procione. / Summa diligentia; per quell’imbroglione che ha un nome così divertente – / molto giovane e molto temerario – Cesare attraversò le Alpi / sul sommo di una “diligenza”! / Noi non siamo maniaci del significato, / ma ci sconcerta la dimestichezza con i significati errati. / Noioso calabrone, le candele non sono fatte per l’elettricità. / Cagnolino che corri per il prato ad addentare la biancheria / e sostieni di avere preso un tasso, ricorda Senofonte: / basta un comportamento elementare per metterci sulla pista. / “Una buona salva di latrati”, qualche robusta grinza che increspa la pelle tra le orecchie, è tutto quello che noi pretendiamo. (Cogliere e scegliere).

Scrive Nadia Fusini:

 

Questo movimento prende in Marianne il nome di umiltà. Ha un risvolto etico, naturalmente; anzi fornisce all’etica la sua base prima – un’idea e un sentimento dell’essere e dello stare al proprio posto filtrato, in vicinanza del suolo, che è tutto, dal sentimento del niente. Nessun kantiano slancio verso le «cose celesti» la tenta. Né è schiava del coatto dinamismo propriamente virile dell’autocoscienza hegeliana. La seduce invece una differente «responsabilità»; sente cioè di voler essere responsive and responsible, di voler rispondere del proprio essere al mondo con un differente

gesto di affermazione, che non sia quello di una dignità del sé provata nella lotta mortale con l’altro.

Pensa modi di risposta dinamici e vitali, ma non aggressivi, quali «l’affetto», «la cura», «il riserbo» che sostengano l’io nell’esperienza, anche se non riusciranno forse del tutto a difenderlo. Modi che nella specie animale Marianne vede affidati alla femmina del maschio; all’argonauta femmina,a d esempio. E che la donna potrebbe accogliere, perché no?, dalla natura dei propri carismi o doni, tanto più interessanti dei controvalori virili. (l’«amore del potere», «l’ambizione» che sono «malattie dell’anima» per Marianne, e impediscono di vedere brillare altre luci). Gesti che la donna che è Marianne assimila, ridefinisce e rivaluta.[8]

 

La collocazione del verso in una gestualità immaginifica fa della sua poesia una sorta di vortice pittorico e di spaiata mimesi visionaria, in cui l’«innato genio per la disunione» si appropria dell’interezza grammaticale che è al servizio del rigore, dell’approssimarsi accesa dell’immagine verso il suolo, e poi della riflessione etica: «Dürer avrebbe trovato un motivo per vivere / in una cittadina come questa,  con otto balene arenate / da guardare; l’aria mite del mare che ti entra in casa / in un giorno sereno, l’acqua disegnata / con onde regolari come le scaglie / di un pesce».

Quando John Ruskin affermò nella sua cattedrale vivente, Pittori moderni, che

 

La cosa più nobile che spirito umano possa fare a questo mondo è vedere qualcosa, e dire in modo diretto quello che ha visto. Ci sono centinaia di persone che sanno parlare per una sola che sa pensare; ma migliaia sanno pensare per una che sa vedere. Vedere chiaramente è al contempo poesia, profezia e religione[9],

 

Marianne Moore proclamò la sua fedeltà all’osservazione trascrivendo questo dettame, (Elizabeth Bishop dichiarò «per quanto io ne sappia, Marianne Moore è la più grande osservatrice vivente») e assaporando la devozione all’artigianato poetico in tutto il suo agglomerato immaginale e concavo.

Poesia descrittiva che ama ricomporre la scena del corpo vivente, come un microscopio di sogno e visione, per riprodurre alla lettera ciò che si immagina creativamente.

Nadia Fusini ancora:

 

[…] la poesia di Marianne non è affatto naturale, spontanea. Al contrario in lei l’artificio estremo si applica alla natura con effetti ironici dissacranti, sovversivi. Schemi ritmici e stanzaici  elaborati annunciano semmai un’idea di poesia che si progetta decisamente come costruzione e schema, più che come sfogo dell’anima. Il registro egotistico-sublime, caro al poeta romantico, è del tutto disatteso, a favore di un tono impersonale, e insieme fortemente idiosincratico […].[10]

 

La percezione diviene, pertanto, il fulcro di quello che Eliot chiama «spettro di associazioni»:

 

Alcune poe­sie di Marianne Moore –per esem­pio, quelle che riguar­dano ani­mali o uccelli– hanno un vastis­simo spet­tro di asso­cia­zioni. Sarebbe dif­fi­cile dire quale sia il “soggetto-tema” di una poe­sia come Il ger­boa. Per uno spi­rito così agile, e per una sen­si­bi­lità così reti­cente, il sog­getto meno impor­tante, com’è appunto un gra­zioso ani­ma­letto sal­tel­lante che ha il colore della sab­bia, può essere il mezzo migliore per libe­rare le emo­zioni più pro­fonde. Sol­tanto il “let­te­ra­li­sta pedante” può giu­di­care banale il soggetto-tema: la bana­lità è den­tro di lui. Ognuno di noi deve sce­gliere quel qual­siasi soggetto-tema che gli offra il mezzo per la libe­ra­zione più effi­cace e più segreta: e que­sta è una fac­cenda del tutto per­so­nale.[11]

 

È nella discrezione che lo scandaglio personale usurpa il silenzio inscalfito, si mette in ascolto, ne riverbera la profondità sospesa per fondersi, comprendersi, comporsi: «Il sentire più profondo si manifesta sempre nel silenzio; / non nel silenzio, nella discrezione».

La fluidità solitaria, che diventerà impossibilità metafisica nelle sue ultime produzioni, è la forza delicata ed esatta, come disse ad un intervistatore: «Mi sembra che Wallace Stevens metta il dito su quella cosa che è la poesia quando parla di “una violenza interna che ci protegge da una violenza esterna”».

Questo risvolto, o segno di poesia, è testimone di una segreta fortezza di ordine e precisione, di meticolosa attenzione per il segreto del mondo che ha bisogno di esattezza cogente e dove persino le parole del lessico quotidiano devono fluire in una libera estasi sacrale, in una elementare liturgia intensa.

L’ostinazione alla non facile malleabilità, in cui il concerto di animali, oggetti, piante, metalli, rappresenta la scaglia di una elusività fuggitiva e inafferrabile, per raggiungere un tentativo di perfezione morale, come il pitcher del baseball, così il poeta cambia le sue mosse, lanciando la sua palla nella linea retta dell’aria del dicibile e dell’indicibile.

Nadia Fusini in un articolo di “Repubblica” del 1992 dal titolo Marianne Moore, l’America nelle vene, descrive questo sapido movimento di coraggio e fondamento poetico di sottrazione e fuga:

come descrive

 

Del basilisco piumato, ad esempio, contempla rapita le arti di fuga: corre sulla terra, nuota per acqua, vola nell’aria. Della procellaria declama «la levità unita alla forza». Della lumaca ammira il modo del suo contrarsi, lo stile appunto «contrattile», quel pudore dello spostarsi sostando. Del pangolino ama la testarda resistenza, il modo in cui «si ritrae dal pericolo e dal combattimento». Se l’arte della fuga è in ogni animale ciò che più l’attira, questo accade perché nel movimento della sottrazione Marianne Moore riconosce il fondamento di un’etica che dagli animali gli uomini dovrebbero imparare. Il suo bestiario è difatti, come l’orto medievale, un giardino medicamentoso di virtù. Somma, tra le virtù, quella del coraggio. E precisamente, il coraggio della fuga.[12]

 

La fuga di Marianne Moore non è solo l’espressione di una favola briosa, di un paragone, di un’allegoria vivace e intraprendente, ma la lotta contro un vuoto, per mettersi al servizio della sovrana bellezza della destrezza vulnerabile, della solitudine come imprinting di uno spessore di radici e di protezione, lontano da ciò che non si spiega o non si capisce.

 

L’origine del suo verso spoglia ogni orpello per dedicarsi all’incandescenza dell’«imperfetta eccellenza della vita», per appropriarsi dell’«infinita curiosità», dell’«inesauribile spirito di osservazione, di ricerca»  e, infine, del prisma di «una grande gioia nella cosa in sé».

Ecco lo spasmo creativo che si appropria della ferita senza ribellione, della lucidità non euforica e della dettagliata numerabilità delle cose, descritte, rimpolpate, sospese.

L’occhio, che contorna la vitalità delle cose, supera e affronta l’ostacolo della paura e dei suoi frammenti/segmenti («Una volta, là dove una foglia / del fico d’India si aggrappava al filo spinato, / germogliò una radice che s’immerse / per due piedi nel suolo sottostante; […] e un viticcio verde si avviluppa / e fa nodi su nodi / fino a quando / non sia annodato trenta volte – / così il ramo legato sopra e sotto / è imprigionato e non può più muoversi»), esplora le dinamiche della sottrazione, del limite e della rinuncia, sfoglia le lotte delle vicende interiori in una trasposizione ideale verso il mondo esterno.

Attraverso il prismatico linguaggio della propria materia personale e della propria «pelle di salamandra» lambisce il movimento dell’anima e il suo rumore:

 

Vede / profondo ed è contento chi / accede alla mortalità / e nella sua prigionia si leva / sopra se stesso, come / fa il mare dentro una voragine, / che combatte per essere libero / e benché respinto / trova nella sua resa / la sua sopravvivenza. […] L’uccello stesso, / che è cresciuto cantando, tempra / la sua forma e la innalza. È prigioniero, / ma il suo cantare vigoroso dice: / misera cosa è la soddisfazione, / e come pura e nobile è la gioia. / Questo è mortalità, / questo è eternità.

 

[1] moore m., Poesie, Adelphi, Milano 1991.

[2] Cfr. nardi p., Marianne Moore. La poesia dello spazio, Artemide, Roma 2007.

[3] Cfr. Aa. V.v, Con la tua voce, incontri con dieci grandi poetesse del Novecento, a cura di Gabriela Fantato, La Vita Felice, Milano 2010.

[4] «Letteralità dell’immaginazione». In Yeats W. B., Ideas of Good and Evil,, A. H. Bullen, 1903, p. 182: «La limitazione delle sue vedute derivava dalla stessa intensità della sua visione: egli era un realista dell’immaginazione, un realista troppo letterale, come altri lo sono della natura; e poiché credeva che, sotto lo stimolo dell’ispirazione, le figure viste dall’occhio della mente fossero “esistenze eterne”, simboli di essenze divine, odiava ogni grazia dello stile che potesse offuscare i loro lineamenti».

[5] unali l., Marianne Moore, in «Studi americani», 9, 1964, p. 393.

[6] fink g.-maffi m.-minganti f.-tarozzi b., Storia della letteratura americana. dai canti dei pellerossa a Philip Roth, Rizzoli Bur, Milano 2013.

[7] Eliot T.S., Il fascino di un microscopio, in Moore M., Poesie, cit., pp. 513-514.

[8] Fusini N., Nomi. Undici scritture al femminile, Donzelli, Roma 1996 (2012), p.277.

[9] ruskin j., Pittori moderni, Einaudi, Torino 1998.

[10] Fusini N., cit., p.288.

[11] Eliot T. S., cit., p. 515.

[12] Fusini N., Marianne Moore, l’America nelle vene, in “La Repubblica”, 8 febbraio 1992.

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