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“Il resto della notte” di Francesco Munzi

Torino. Una domestica rumena allontanata da una ricca casa, perché sospettata di furto, innesca una vicenda, con incontri tra immigrati e locali balordi, dagli esiti drammatici. Il regista è autore di una convincente opera prima, “Saimir” (05), anch’essa sulle tematiche dei migranti. Nel suo secondo lavoro, pure scritto da lui, dimostra un controllo narrativo, sia in sede di scrittura che di direzione globale, davvero notevole. E’ un film corale. Ha una storia che è l’elemento unificatore, ma trova il tempo e l’energia narrativa per illustrare in modi scarni ed efficaci, attraverso l’attenzione ai i vari personaggi che ne sono coinvolti, altri spaccati di vita. Il film prende l’avvio da una ricca casa, isolata in collina, e lì si chiude, in un perimetro descrittivo di ferrea funzionalità. Questa circolarità fa pensare al grande regista Krzysztov Kieslowski, anche se gli intenti sono del tutto diversi. Mentre il polacco metteva in evidenza i conflitti riguardanti la dimensione profonda dell’umanità, spesso in una tensione di compressa spiritualità, Munzi coglie il dramma dell’inadeguatezza del vivere, in una dimensione che è sì anch’essa esistenziale, ma che si confronta con la concretezza invasiva della modernità globalizzata. Con la sua falsa idea di ricchezza diffusa, genera una violenza che c’impone di fare nostri quegli elementi di consumo di cui non abbiamo realmente bisogno, anche se ci sono imposti. E ciò origina l’aggressività contro gli altri e contro noi stessi o l’infelicità continua, la disperazione, gli stati d’ansia. Tale è il senso dell’opera, affidato al dire del prete all’inizio del film, da cui la ricca padrona di casa, sola, egoista e infelice, scappa. Tuttavia all’intento morale non corrisponde, per buona sorte del film, alcun moralismo o edificante buonismo. Gli eventi e le impressioni, che ci danno dei personaggi che li attuano, si susseguono nella loro fatale scansione, in cui il mal-fare convive con sinceri sentimenti cui non sanno dar voce se non in modi estremi, spesso autodistruttivi, come fa il padre del bambino. Ma verso di loro non c’è giudizio, ma uno sguardo che si eleva dalla momentaneità, anche se colpevole e perfino falsa, e cerca di vedere più a fondo in queste anime, nella loro precarietà di migranti in un contesto difficile. Ma anche i nostrani sono tutti, senza eccezione alcuna, scombussolati dal vivere che subiscono. Questa “lontananza”, che non è distacco o indifferenza verso il “male di vivere”, è, invece, a mio avviso, uno sguardo registico molto più maturo e profondo, perché, come R.Bresson, scava nel cuore e fa riemergere le correnti profonde della solidarietà, prima nascoste.

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