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Il sacro inseguimento di Germain Nouveau

Germain_Nouveau

 

Si deve a Luciana Frezza, la principale antologia in Italia di Germain Nouveau (1851-1920), avendo curato e tradotto una selezione di testi del poeta francese in una edizione Einaudi del 1972. Oggi quasi dimenticato e caduto in un magma di oblio e divulgazione mancata, sfortunato anche con la critica e l’editoria del suo Paese, restia a rendergli giustizia (opere stampate postume o addirittura a sua insaputa), viene rivalutato solo in ambito surrealista, grazie agli slanci partecipati di Aragon, Eluard o Breton, che portano alla luce la sua traccia misconosciuta.
Di recente, un interessante lavoro di Eddie Breuil, Du Nouveau chez Rimbaud, pubblicato dalla parigina Honorè Champion, mette in luce l’ipotesi, sostenuta da un grosso impianto filologico e grafologico, che Nouveau abbia non solo copiato ma addirittura scritto di suo pugno le Illuminations di Rimbaud, in almeno alcuni punti nodali come Villes e Métropolitain e che persino il titolo dell’opera farebbe riferimento al Jardin Mabille di Parigi, locale da ballo con illuminazione a gas, frequentato da Nouveau.
Nonostante la partita di attribuzione desti scandalo e perplessità, con tutte le prospettive di interesse a cui essa richiama, le Illuminations rappresentano, ancora una volta, un work in progress singolare e dilatato, non solo per le innumerevoli ristampe (1898, 1914, 1945, 1946 nella Pléiade, 1985, 1999) ma perché testimoniano l’indizio di una ricognizione versificatoria potente e metafisica che attinge luce e che non termina mai di irradiare il suo fascino segreto.
La poesia di Nouveau, pertanto, acquista una singolare nuova esposizione che deve scrollarsi ogni etichetta che possa, in qualche modo, minacciare la peculiarità artistica e figurativa di questo autore, vista nell’ombra del suo più noto amico.
Luciana Frezza scrive: «[…] naïf, simbolista, surrealista, poeta satirico; la più pericolosa è però quella con la quale viene comunemente designato, di mistico-erotico, o di mistico tout court […] per quell’alone di nebulosa falsità che circonda la parola misticismo, come rileva Elémire Zolla nella prefazione ai suoi Mistici, a causa dei preconcetti e delle associazioni inconsce che essa suscita in ciascuno e nei diversi strati della cultura e della società. Mistico Nouveau lo è certamente: libero da ogni velleità di successo, vagabondo divoratore di chilometri a piedi con sacca e bastone, confuso tra i poverelli che ricevono la minestra dal convento, considera la poesia un mestiere, solo più vacuo, di dubbia utilità per gli altri e certamente non buono per sé quanto a ricavarne da vivere. La sua opera, fatta essenzialmente di mondi in opposizione, sacra e profana […], induce inoltre nell’errore di mettere questi mondi a confronto, di pronunciarsi a favore dell’una o dell’altra prospettiva, di preferire il Nouveau poeta religioso all’erotico o sedicente ateo e viceversa. Si aggiunga un altro fondamentale elemento, la presenza del sorriso, la critica alla società esercitata attrave5rso la satira, spesso avvolta nell’ambiguità, e si avrà un’idea di quanto sia difficile etichettare un microcosmo così complesso ed armonioso, che trova in sé i rimedi per i suoi mali, gli antidoti per i suoi veleni, governato da una dialettica degli opposti e della contraddizione espressa, in una civiltà cristiana, in termini di cristianesimo».
La pronuncia simbolica di Noveau acquista, in questa veste, l’esito di una frammentazione conoscitiva che slabbra i contorni della freschezza, si appropria di una carnalità che è mendicanza, come scrisse Mario Luzi, e sbriciolamento miniato.
L’accostamento a Rimbaud, pur privo di un annidamento prominente e metafisico, determina un accostamento di freschezza vitale, di etica profusa e di una lacerazione che è sorpasso ferito della dimensione dell’arte, fino alla ripugnanza di se stessi. Per Nouveau, l’arte è «un mezzo di comunicazione umana, di colloquio, sia essa di volta in volta esaltazione della fede o della gioia dei sensi, o il pungiglione seminascosto di una personalissima rivolta in sordina» (Luciana Frezza).
Ma è una rivolta che farfuglia e poi lascia passare questa mendicanza alla furia del trascendente che penetra nella stoffa dell’esistenza con virulente traccia, fino a farsi domanda e preghiera elementare, ricerca avida e luogo veggente o ragionato disordine e ignoto, come scrive ancora Luciana Frezza. «Per cominciare, la dissipazione giovanile che in Nouveau è solo istintiva avidità di vita, curiosità di esperienze, gioia pagana e sensuale, in Rimbaud è la condizione necessaria della Veggenza» e secondariamente, «il rifiuto della propria opera, per cui si suole accostarli, totale nell’uno, è nell’altro parziale […] e le ragioni ne sono del tutto diverse. […] In Nouveau il rifiuto è motivato più che altro dal terrore di vedersi falsato di fronte a se stesso, e cioè dalla coscienza di una perenne, interna trasformazione che gli faceva di volta in volta temere di non riconoscersi in ciò che aveva scritto: infatti, anziché abbandonare con indifferenza la propria opera al suo destino, come fece Rimbaud, la inseguì a lungo, per bruciarla o correggerla, incurante del successo ma non della sua verità, in vani tentativi di strapparla dalle mani di amici e di editori poco rispettosi del suo diritto di disporne come meglio gli piacesse».
È un inseguimento innamorato, pieno di tagli e fessure, che, persino, nella dimostrata pacatezza gioiosa cerca la prova di una continuata viandanza, di una terrena appartenenza che apre, scorcia feritoie, porge la sua umanità e la sua deragliata marginalità.
Tutte le sue opere, dai Premiers vers a La doctrine de l’amour, sotto le mentite spoglie non approvate di Savoir aimer del 1904 e alle postume Poésies d’Humilis, tradotte in Italia nel 1948 e alle Valentines et autres vers, la condensazione della sua condizione ripropone la variegata espressione, esiliata ed evasiva, di chi vive la contraddizione su se stesso, di chi subisce il contorno dell’anima come annuncio dell’io e come sovversiva fame di vita vivente.
Quando arriva a Parigi, ventunenne, nel 1872, le schermaglie dialettiche tra i letterati del tempo fanno da schermo alla sua spregiudicata digressione chiassosa e alla sua sottile ironia di nota, e, infine, alla sua amicizia con Verlaine (specie nell’incancellabile ricordo, indizio primo di un incontro religioso, di una visita ad Arras, a casa della madre del poeta delle Feste Galanti) e Rimbaud.
La scansionata spregiudicatezza degli inizi è ironia crescente, abbondante confidenza onirica e tumulto di immagine dannata e sofferta («[…] Tutta la stanza odora / della sua gioia. L’ancella, un’abissina / graziosa sogna e s’affligge ai vetri: la neve / continua, è da non credere come ha ucciso il giardino! / Ed il riso estasiato persiste lungamente / dell’una, mentre l’altra, minuto Idolo nero, / sulla Stagione eburnea si drizza stranamente»), fino alla mendicanza e agli occhi distolti («Eppure, oh! eppure, dei petti d’innocenza, / delle dita sonanti, allo sbocciare del sogno / sopra il ventre gentile come un tamburo che canta, / diane ai desideri e cariche ai singhiozzi, / di quella tua eleganza di riccioli e di gale, / vecchio Bebè, degli occhi semplicemente asciugati, / delle vostre pietà e delle vostre arti / che m’avrebbero reso cane com’è chi ama, / non doveva restare che un’ironia immonda, / un languore degli occhi distolti senza sforzo. / Quale braccio, spietato agli Evasi del mondo, / ti caccia verso l’Est, mentre fuggo al Nord!»), o ancora come accade in Sogno claustrale, il dramma adorato di una ferita insanabile si attesta in un sospiro di grata, «Profumo gelido di sagrestia, t’adoro, / coro d’agata, luce che sotto sanguinanti / cortine, vede schiudersi nella danza dell’ostie / il sogno violetto d’un dolce vescovo bianco; / cappella di sospiri, grate, ombra gelosa / dove la collegiale dai favolosi voli / occhieggia con il cuore d’una piccola sposa / un serafino pallido in fondo al blu dei cieli».
Sono le sue stanze realiste che il suo graffio incide, la suola sfaldata, lo spavento del sigaro e il veleno perduto di un cantico sfrangiato: «Delle notti del biondo e della bruma / alcun ricordo non resta / non una trina d’estate, / nessuna cravatta comune. / E sul balcone ove il tè / si prende all’ore della luna / rimasta non è traccia alcuna, / alcun ricordo non resta. / Sola sopra il lembo d’una tenda / una spilla a testa d’oro appuntata / luccica, grosso insetto che dorme. / Punta di fine veleno impregnata, / io ti prendo, sii pronta per me / nell’ore dei desideri di morte». Ecco il suo arabesco indovino, l’argento dorato che penetra: «Abiteremo un boudoir discreto, / pervaso sempre da un aroma divino, / dove luce non entra, s’indovina, / se non debole e dolce come sera».
Quando scrive La dottrina dell’amore, che subisce una strana sorte editoriale, data l’enorme mole di testi, la fede di Nouveau è una cattedrale mistica, uno sfarzo di ordine, un disegno che tenta di costruire e costituire se stesso, per innalzare un edificio a qualcosa che possa compiere e dare il fiato per vivere.
Sostiene Luciana Frezza: «È la sua, a questo punto, una fede giovane ma adulta, nuova rispetto all’educazione religiosa ricevuta in collegio e riscoperta insieme al peccato, alla bella sregolatezza dei primi anni parigini; una fede in cui, per il pittore Nouveau, agiscono da calamita i colori, gli arredi, le atmosfere, in una parola il fascino visivo e sensibile del culto. […] Anche se il suo pregare è dapprima essenzialmente un guardare, con l’occhio rapito del povero esecutore di copie, tutto solo nella quiete dei musei o delle cattedrali, anche se ridipinge le immagini stilizzate di Maria Immacolata e le apoteosi absidali di Saint-Labre o delle Assunzioni, è veramente del contenuto morale della religione cristiana che la sua anima si è innamorata […]».
Il nesso con la totalità, con il fondo, con l’ultimità composta di gioia ad attrarre la lacrimosa ferita di gioia di Nouveau, in giardino composto e ricomposto di vigilie e veglie, dove «gli oggetti e o fatti comuni della vita sono guardati con fervida attenzione, in un rinnovato splendore di essenze gioiosamente ritrovate nelle cose».
La sacra profanità dei segni, la simbolica rappresentazione della realtà in perenne ricerca di significato e di colloquio composito, la visione amorosa di ogni sentimento concreto, la compartecipazione carnale e spirituale, rendono la scena del poeta un mistero segreto e trasparente, allegorico e rivelato.
L’anagramma dell’inseguimento è l’azzurro mistico di un altare stellato di ceri, che insegue il tratto incendiato che compie, la serigrafia dello sguardo che diviene sartia e profumo, e traccia lo sviluppo di un sentiero, conquistato pezzo a pezzo, che può assomigliare al sogno di mani, alla mistica primavera che circola nelle vene e penetra nell’esperienza dell’orizzonte e della sua ultima desinenza, dove la sacralità del reale arcaizza e dilata «i poveri oggetti umani, le forbici d’un sarto, le reti d’un pescatore, le mani, il corpo sacro e la fisica delicatezza dell’anima» (Luciana Frezza).
In quella visionarietà fatta a spasmi, a quella umiltà che appartiene alle cose terrene ma che si sporge per paura di cadere, come da un cappello incrostato, Nouveau offre la sua vulnerabile iride e il suo orlo lucente dove «la grazia è acqua che scorre a ruscelli / lungo il suo busto e le nervose braccia; / e il santo, nell’apoteosi del cielo / che si apre come una rosa, / così plana, al malinconico inferno / mostrando stelle dentro i suoi capelli!».
La contrazione è per l’autore l’inizio di una estensione ancora contrita, di un dolore per una lontananza ribelle. Manca, infatti, l’ipotesi di un cambiamento, però la sete, inestinguibile come una piaga o un desiderio, non cessa, vuole appagarsi, vuole infilarsi nella gemma vivente dell’esistenza, «accettando una vita da accattone, in familiarità con pidocchi e scarafaggi; immergendosi nella felicità carnale fino ad assaporare in essa la morte ed amando la morte, oppure, appoggiato alla spalla confidente di Valentine, celandovi la sua risata distruttiva, più sicuramente ispirata delle precedenti ludi pseudofrancescane» (L.F.).
Ma è l’esattezza dell’incontro con Valentine (molto probabilmente Valentine Renault o forse la stessa festa di san Valentino) a incantare l’anima, a invocare la perfezione compita di un corpo unico e compiuto che ha del sole nelle sue tenebre, come una carestia insonne, come una acconciata preparazione all’Ideale. L’amore di Nouveau è guerra, rapida e vassalla, slancio verso il mondo (e le sue camere chiare) e follia di sproposito di vertigini, fino al dileggio e al doloroso dileguo di una scomparsa rivoltosa.
Sostiene Luciana Frezza: «Qualsiasi cosa faccia, chiunque celebri, Nouveau lo fa con insistenza e con metodo; comincia con l’intessere le lodi della sua donna, lodi forse ancor più caricaturali perché metodiche […] a significare che la Donna costituisce ormai per lui un campo inesauribile di ricerca, uno studio appassionato a cui applicarsi con lo stesso zelo richiesto da altre, meno concrete, discipline. […] divenuto improvvisamente lui il protagonista, in una serie di pantomime in cui ritrae se stesso denigrandosi per denigrare, le si rivolge polemicamente, nella caduta dei pupazzi di credi e valori, religioni e convenzioni, come all’unico valore, all’unica salda certezza. Ad ogni sfogo, ad ogni contraffatto moto di rivolta, la vediamo intermediaria sempre di un ruolo quasi stilnovistico alla rovescia: intermediaria sempre, è scala alla negazione, gradino per gradino, in una sorta di progressivo assorbimento in sé del poeta».
Ma laddove la pazzia dilaga in una forma di estrema rarefazione affettiva, molto vicina alla devastazione e all’autodistruzione, dove persino lo scherzo è una rappresentazione rattrappita di sé, l’io si approssima in una zona sospesa e imprecisa. È teatro o è la vita? Il dileggio vuole irridere la morte, calpestarla, allontanarla, sorprenderla in didascalie di ciprie svelte, in un’anima illusa, come i baci che porta sulla soglia delle parole, sul comune dolore e sul silenzio.
La tensione alla sacralità oggettuale si staglia in un orizzonte di confidenza e di dipendenza, in una terra che è vessillo di possessione e testamento estremo, fiamma sensuale di prigionia ed assenza, dove la donna ospita l’uomo fino alle radici:

«Bello come vedere i tuoi occhi / inumiditi dall’ebbrezza / quando il duplice serio gioco / delle lingue che preme la bocca / fa stravolgere fino al cielo, / nella voglia della carezza / le pupille dei tuoi occhi; / come gioire delle parole / che la tua voce mi lancia in volo / rosse faville, frecce nel cuore, / brucianti al pari delle tue dita, / mentre tu mescoli alla tua voce / dentro al mio orecchio che vai lambendo / il tuo respiro caldo che bevo; / come mordere i tuoi capelli, / la cascata del bruno vello / dove il fianco nervoso si staglia, / e afferrare i crini di quello / più segreto, che io voglio / con i crini della tua ascella / mordicchiare come capelli; / abbrancarti delicatamente / i fianchi nudi come lottando, / udire il gemito ridente / che ricorda il canto d’un flauto / a cui si mischia, di tanto in tanto, / un lieve strider di denti; […] dev’essere bello morire, / perché fare ciò che chiamiamo / l’amore, piacere imperioso / della donna mischiata all’uomo, / è dolce al momento del godere, / è bello, dici, sì…come, / come se si stesse per morire».

È l’arma perfetta che unisce schianto e tremore, come il bacio che comunica il respiro e destina compimento, e quel respiro diventa battito e, come scrive Giovanni Fighera, «Nell’esperienza dell’amore la persona coglie la propria dimensione strutturale di essere dipendenza da un altro e percepisce un compimento, una soddisfazione, una letizia maggiori rispetto ad una posizione narcisistica di auto soddisfazione. L’apertura all’altro è una dimensione naturale per l’essere umano che spesso, crescendo, finisce per dimenticarselo fino a quando non fa nuovamente esperienza di essere amato. Quando accade questo? Solo quando qualcuno gli fa percepire che tiene proprio a lui, che gli vuole bene così come è, incondizionatamente, senza preclusioni».
Ecco Nouveau: «Il bacio più temuto / è quello dell’Amore: / per fuorviare il dubbio / batti, batti tamburo. / E l’arte, di gioire / insieme, è dell’Amore: / le assomiglia il morire: / batti, batti, tamburo. / e morire insieme / è arte dell’Amore: / battete per chi trema, / batti, batti, tamburo».
Ma questo taccuino di inseguimenti vagabondi screma la sua esperienza mistica e il suo abbandono a Dio, nella certezza del futuro in forza di una realtà presente, come chiara ragionevolezza di destino. Uno dei suoi ultimi canti è l’Ave Maris Stella, dopo la malattia mentale, dopo l’ultimo confino tragico e lieto da un eremo, dove irridere il mondo è una piccola sosta di umile appartenenza.