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Il silenzio luminoso di Ana Blandiana

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La poesia di Ana Blandiana (1942), pseudonimo di Otilia Valeria Coman, fa confluire l’ineffabilità dell’essenziale alla povertà luminosa di ogni sacralità, al lacerto appartato e discreto che rasenta gli occhi del mondo e il suo silenzio, come un rimbalzo invano di vesti striminzite:

 

«Scrivo con bianco su bianco / anche se so che nessuno / riuscirà a leggere, / neppure io stessa, / dopo che avrò dimenticato cosa ho scritto. / Il bene e sempre / difficile da capire – / è più semplice accettare un’eresia / in paradiso / che non un benevolo sacrificio umano. / M’intestardisco / a scrivere bianco su bianco / anche se mi si dice / di utilizzare almeno / lettere con lustrini, / allorché disegno rami d’ulivo / o buone azioni / tediose. / Solo che, / qui e ora, / non ho che un solo colore / che possa / comprendere ogni cosa / e scrivo con bianco su bianco / invano» (Bianco su bianco).

 

Nata a Timisoara nel 1942, laureata in filologia presso l’Università di Cluj. Dissidente  e ribelle verso la dittatura comunista di Nicolae Ceausescu, che ha contestato con coraggio, dopo il crollo del regime ha rifondato, nel 1990, il PEN Club romeno, costituendo poi il movimento “Alleanza Civica”. Insieme al marito, il compianto giornalista e scrittore Romulus Rusan (1935-2016), ha dato vita il “Memoriale delle Vittime del comunismo e della Resistenza” di Sighet, che rievoca l’inferno vissuto per quasi mezzo secolo, dopo la seconda Guerra mondiale, dai cittadini dei Paesi dell’Europa centro-orientale, in cui l’Unione Sovietica ha imposto il regime.

Membro dell’Accademia Europea di Poesia, dell’Accademia di poesia “Stéphane Mallarmé”, e dell’Accademia Mondiale di Poesia (UNESCO), e, dal 2016, membro corrispondente dell’Accademia Romena, Ana Blandiana vanta un’opera che conta decine di volumi di versi, racconti o saggi, tradotti in 26 lingue.

Dopo il volume Un tempo gli alberi avevano occhi, uscito presso  Donzelli nel 2004 (premio Giuseppe Acerbi) curati da Biancamaria Frabotta e Bruno Mazzoni, è appena stato pubblicato per l’editore Elliot e tradotto, dallo stesso Mazzoni, L’orologio senza ore[1] del 2016, che ricompone una sorta di allineamento eun incantesimo verbale, rimasti intatti nella traduzione e tesi alla ricerca, pur nella tattile dolenza, del senso, del fondamento della realtà e da una concentrata vitalità.

Nella parola, nel suo simposio e nella sua assoluta, non dico purità, ma concentrazione, si afferma tutta la veridicità di ogni avventura umana, l’incanto vivo di ogni colore, il dolore e la pena segnati dalla percezione, dalla meditazione e dallo sguardo prospettico, come afferma Bruno Mazzoni, che scrive:

 

«L’idea di preservare la purezza lirica significava in realtà, per Ana Blandiana (nom de plume di Otilia Valeria Coman), il bisogno di riaffermare la dignità della persona umana. Fin dal suo esordio dichiarava «voglio toni chiari, voglio parole chiare», e non sarà casuale che Blandiana, a mano a mano che ha proceduto nel suo percorso artistico, abbia teso a essenzializzare sempre più il proprio linguaggio e ad allontanare la già misurata strumentazione retorica. Per lei, compito della poesia e andare al di là della fisicità della forma verbale, per cogliere l’ombra delle parole, la loro essenza: «Non sono mai corsa dietro alle parole. Tutto ciò che ho cercato / E stata la loro ombra… […] E non hanno più ombra, / Le parole che hanno venduto la propria anima» (Caccia)».[2]

 

È il gioco dei tempi, la stupefatta ironia dell’osservazione, la comunione docile del tempo, in tutta la sua legittimità e scorrevolezza frammentata:

 

«Dopo il futuro verrà / il piucchefuturo / e, a seguire, minaccioso, / un altro futuro / che, per sgomento, / nessuno riesce a immaginare / come se non credesse / che ci possa essere. / Solo questo istante, / in cui cadiamo / erosi dai secondi, / esiste nello stesso tempo pressante / col piucchepresente, / nel cui centro si cela / l’abisso di un altro presente / ancora più attuale».

 

La riflessione pacata come una palpebra, il sottile chiarore di ogni scena, la consistenza della natura, lo sgomento verso il male «nei giardini rinserrati / del paradiso» sono sospiri di un sipario onirico ritmato: «Non sogno che me stessa. / Benchè sia più personaggi / che si fanno paura a vicenda, / io so di essere sempre io, / pronta in qualsiasi momento a sognare sé stessa».

Marco Dotti scrive:

 

«Accanto a una indomita «lotta contro l’inerzia» (secondo l’espressione di Nicolae Labis, poeta tra i maggiormente rappresentativi per la cosiddetta generazione degli anni Sessanta, a cui la scrittrice, al di là di ogni ragione anagrafica, legittimamente appartiene), Blandiana è stata però capace di coltivare, magistralmente, «un’istanza di verità assoluta», volta alla «rifondazione del senso» perduto, ridando dignità alle parole, e al loro margine bianco, «il silenzio». «In un mondo in cui si parla e si scrive così tanto», dichiara, «lo scopo della poesia è diventato quello di ripristinare il silenzio, la capacità di tacere», di indicare e simbolizzare. Poesia bianca su sfondo nero, dunque, ansiosamente in bilico tra la ricerca di una purezza stilistica e la piena consapevolezza del pericolo di rendere sterile, attraverso un eccesso di forma, la libertà che ogni sincera vocazione poetica non solo richiede, ma, severamente, esige. […] Purezza e pericolo, orfismo e diffidenza estetica sembrano chiudere il cerchio di una ricerca per definizione impossibile («talvolta pensare la poesia significa negarla»), spinta fino al limite «assurdo» dell’inoperosità, del désœuvremente del silenzio, marcata da suggestioni che ricordano tanto il «libro bianco e assoluto» di cui vagheggiava Mallarmé […]».[3]

 

Se diviene possibile raffrontare il battito elementare di Ana Blandiana con i fermagli inattesi di Wislawa Szymborska e la sua elementare indicibilità, la poesia della poetessa rumena cerca di trascrivere i bizzarri silenzi dell’essere, fino alla tensione al coglierne il senso assordito, il dettato non trascrivibile di ogni esistenza possibile, come il silenzio che la parola, nella pausa, circoscrive e valorizza, come un grido desolato e sgomento fino all’eterno, «così è sempre stato per me / il sospiro dell’aldilà: / ben più che di morte»:

 

«Le grandi pause di scrittura, / simili a bizzarri silenzi / interrotti di tanto in tanto / da un singulto profondo / come di fiera dolente, / suoni inarticolati in cui / il mio orecchio umano / non è in alcun modo in grado / di cogliere un senso / e non capisce se è lui assordito / o se colui che fino ad ora mi dettava / si rifiuta di parlare ancora / e sente che il grido desolato / è l’unica forma di espressione, / che io / non so / trascrivere».

 

A tal proposito, Roberto Galaverni afferma:

 

«La poesia di Blandiana, in effetti, possiede alcune qualità che ne favoriscono la ricezione e, diciamo così, l’esportabilità. Anzitutto, è semplice, chiara, diretta. Certo, sappiamo che quello della chiarezza o della facilità è di certo un concetto ingannevole. Ma è vero che questa poetessa non si trincera dietro la lingua, non gioca sugli effetti di ambiguità, né si avvale del mezzo poetico come qualcosa di diverso e di alternativo rispetto al linguaggio d’uso comune. Anzi, tutto il suo sforzo di scrittura appare inteso a conferire perspicuità al discorso, come se avvertisse nella parola stessa un limite o un’inadempienza congenite […] In secondo luogo, i suoi versi non fanno riferimento a un tempo e a un luogo determinati, a una dimensione particolare, idiosincratica e irriducibile. L’oggetto d’interesse di Ana Blandiana è invece anzitutto sé stessa, ma semplicemente in qualità di rappresentante ella condizione umana come tale. Non si troveranno dunque persone, luoghi, accadimenti con i loro nomi precisi, bensì eventi esistenziali e conoscitivi assoluti – il senso di sé, il rapporto tra sogno e la veglia, la solitudine, il sentimento del tempo, ad esempio -, vale a dire quella che il curatore, nel suo scritto di accompagnamento ha definito come una «dimensione sovratemporale».».[4]

 

La fascinosa stoffa del vivente, l’esistere degli alberi (a cui l’anima sembra appartenere come assi di un mondo occulto) e degli uomini, la fine e la malattia, la riflessione che è memoria e visione di un territorio inevaso lucidano la bellezza, penetrandola, scoprendone orme e specchi, nei quali rimane vivida la propria figura di ombra e in cui il trapasso di ogni mondo parallelo trasfonde, in una solitudine di luce, un messaggio scritto nell’infanzia non ancora letto:

 

«Nell’eterna ombra amarulenta / del noce io ho scelto / il sonno da cui possa elevarsi / la mia anima verso il mito; / a cercare il ramo d’oro / nella verde oscurità / con un sussurro fluitante come un atollo che nel fiume dell’aldilà si smarrirà / attraverso secoli, decenni e anni / defunti come già le spente stelle. / Oh, Eli, Eli, lama sabactani, / obliata in universi paralleli, / dove aspetto di vedermi / ombra estranea, sovrana, / avanzando nel diluvio / col ramo d’oro in mano?…».

 

È l’ora perfetta in cui avviene l’oasi dell’essere, le palpebre di nuvole e le bruciature dell’estate, che diventano patria fragile («occhio di cavallo / riparato dal mondo» aveva scritto nel 1972 in Ottobre, Novembre e Dicembre) di un «profumo / che si lascia dietro, come un assieparsi di significati / non divenuti mai parole».

In tale atrio purissimo e tenace, Ana Blandiana guarda nell’orlo dell’abisso e del significato, vivendo però il limite sovra inciso, il non-tempo, la purezza imbrattata dal nulla, come un riflusso che tiene il suo segreto: «Il mare, crescendo col buio dell’aldilà, / inghiotte le paludi considerate terra nel chiarore del giorno, / a volte afferra chiglie di panciute barche / e ombre leggere di velieri / cullati laggiù in lontananza / sopra le distese umide, / dove all’alba, / a mano a mano, / verranno seminati i pesci, / condannati a morire / quando l’onda si ritrarrà nuovamente…».

O come la sterminata unione tra uomo e donna, il loro sperdimento velato da «frammenti, briciole, cocci, granelli di sabbia, / che non riescono a riunirsi, / a comporsi, / uomini e donne, / solitudini incompiute / che si riproducono cosi di frequente», mentre il Dio della realtà ricrea il mondo continuamente, nella sua fedeltà, «a differenza di te, / Signore, / rimasto unico e solitario».

Nella ferita e nella difesa dentro la morte, oltre il più lontano possibile, la poesia di Ana Blandiana scopre la sua genesi, il limite frapposto dell’evento e il tentativo di sanare uno strappo scoperto, come la solitudine sorgiva e generativa di lingue diverse, che creano il mondo o la somiglianza all’Uno.

Nella sostanzialità mitica, nei transiti memoriali, raffermi nel tempo, nello spazio raffigurato di ogni vicenda umana, dimidiata tra ombra e rivelazione, poiché «Blandiana sfugge comunque alla tentazione di simbolizzare, di metaforizzare: lascia che le cose seguano il loro corso naturale, segreto, talvolta incifrato, senza mai forzarlo a dimostrare qualcosa, dando soltanto ascolto al pensiero poetante che scopre nessi profondi ed eleva le cose più semplici e quotidiane, scevre da inutili orpelli retorici, a poesia[5]»: «Viviamo dentro una ferita / senza sapere / di chi sia il corpo ferito, / né perché. / La sola certezza e il dolore / che ci circonda, / il dolore / che la nostra presenza / infetta / mentre cerca di sanarlo…».

La parola è l’oggetto della sua consistenza. In essa, Ana conferisce tutta la potenza dello sguardo. Può essere il suono di un film muto oltre ogni rumore («Nelle mie orecchie / mari sconosciuti / scuotono le ali. / Li sento come s’innalzano / dal suono che colpisce il mio timpano / mentre serrano fra me e il mondo / il drappeggio delle onde / non udite dagli altri»), un istante-lacrima («Solo gli istanti-lacrime / continuano a fluire / dall’eternità fatta d’esca, / sognando un crepuscolo / sulle acque lontanissime / col loro inesistente porto»), la paura di essere al mondo e in vita, e di divenire vita, come un grido inerme e una immersione. L’anima è guidata, come se fosse un’attrazione sconosciuta, un fondo inerme che si concentra, dona respiro alle maglie dell’universo, dove tutto si occulta, si frantuma, si consegna al «friabile tetto del mondo / che non spera altro / che ridiventare argilla.» («Penetro nel mistero, / però il mistero rimane intatto, / avverto soltanto che non è la prima volta / che scopro le orme su cui cammino»):

 

«Ho avuto paura di venire al mondo, / peggio: ho fatto tutto quanto e dipeso da me / per evitare tale sventura. / Sapevo di dover gridare / per dimostrare che sono in vita, / mi sono quindi ostinata a tacere. / Allora il dottore ha preso / due secchi pieni d’acqua, / bollente e fredda, / e mi ci ha immerso più volte,a turno, / come in un battesimo alternato, / in nome dell’essere e del non-essere, / allo scopo di convincermi, / e io ho gridato furiosa NO / dimenticando che il grido significa vita».

 

Nella sua icona verde, il magma elementare racchiude una scena solitaria che deve difendersi, imparare lo sguardo degli altri, fronteggiare l’indifferenza e le scorie di ogni detrito dimenticato che dimora nel proprio nucleo:

 

Simile a un’icona verde / ritagliata nel prato / dal telaio della finestra, / l’erba cresce sul mio scrittoio / in mezzo alle matite / che prova a convincere / affinché fioriscano, / in mezzo ai tasti del computer / fieri di esserle maggese. / I suoi steli producono larvali ombre / sulle pagine, / malerbe, / aggrovigliate come lettere

di un testo foriero di disgrazia, / come immagini / di future desolazioni / che attendo bramosa. (Icona verde).

 

L’assenza diviene un rimando di sogni e visioni di cieli annosi. Decide forse lo spaesamento acuminato dello sguardo, impone lo svanire per essere ricordo e capire la paura ineffabile e definire l’inerzia: «Perché dovrei aver paura? Come che sia / muoio attimo dopo attimo per via. / Il cammino sul quale mi porti / è fatto di minuscole morti. / Cellule appaiono e scompaiono / in me e di certo non me ne curo. / Sarà la stessa cosa più in là, / dopo che sarò morta e resusciterò? / Ma, fino ad allora, come mi accorgerò / del perché e di chi devo aver paura?».

Nella poesia di Ana Blandiana vi è così un’attestazione di approdo, che diviene appartenenza, quando pur scontrandosi con le clessidre senza sabbia e il nulla, rappresenta, infine, il vertice profondo di un urto:

 

«Nartece azzurro, / azzurro oltremare, / come un pilastro / nella perennità. / Con braccia tese a reggere il cielo, / privo di nubi, / azzurro oltremare. / Cicale e rugiada, / latte nell’orciolo, / cova viva d’uova / di rondinotti, / odore di fumo, / garza per bluse, / armenti in strada, / d’azzurro oltremare. / Povero e amato, / più non rinasce / il villaggio di servi, / azzurro oltremare».

 

[1] Blandiana A., L’orologio senza ore, a cura di Bruno Mazzoni, Edizioni Elliot, Roma 2018.

[2] Mazzoni B., Se le parole…, in Blandiana A., cit., p.122.

[3] Dotti M., I versi di Blandiana in elogio al silenzio, in “Il Manifesto”, 8 dicembre 2004.

[4] Galaverni R., Szymborska ha una sorella che scrive in Romania, in “Corriere della Sera – La Lettura”, 1 luglio 2018.

[5] Mazzoni B., cit., p. 124.

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Blandiana A., L’orologio senza ore, a cura di Bruno Mazzoni, Edizioni Elliot, Roma 2018, pp. 128, Euro 16,50.

 

Blandiana A., L’orologio senza ore, a cura di Bruno Mazzoni, Edizioni Elliot, Roma 2018.

Dotti M., I versi di Blandiana in elogio al silenzio, in “Il Manifesto”, 8 dicembre 2004.

Galaverni R., Szymborska ha una sorella che scrive in Romania, in “Corriere della Sera – La Lettura”, 1 luglio 2018.