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Kikuo Takano e la nostalgia del cielo

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In una intervista, Paolo Lagazzi, uno dei traduttori di Kikuo Takano (1927-2006), afferma che la parola di Takano: «è radicata nelle cose: il mondo la abita e la percorre nelle sue forme, nei suoi doni, nella sua luce, nei suoi spazi. Ma, attraverso le cose, la parola di Takano aspira all’altrove, come un albero piantato in terra con radici profonde e teso con i rami al cielo più alto. Questa tensione è anche un movimento d’amore: mentre interroga il mistero dell’Essere, Takano non dimentica mai gli esseri concreti: uomini, animali, fiori, frutti, foglie».

La sua capacità di raccogliere una densità e una esigenza ampia di significato nella realtà si sofferma su un intenso simbolismo, che apre la luce e contiene il segreto del mondo. Come quando a L’Aquila, a ritirare un premio, si soffermò così: «Se qualcuno mi chiedesse “dov’è il paese dell’aria limpida e pura”, subito risponderei che quel paese è L’Aquila. E se socchiudo gli occhi vedo il grande santo avvolto nella sua misera tonaca, e sento le gioiose grida della folla che lo accoglie. Sento l’eco dello zoccolo dell’asino che sta montando. Vengono accolti ancora oggi in modo giusto i tesori del Tempo passato e quel gran dono mistico sigillati nel futuro dei giovani, grazie alle mani e agli occhi che si fissano sulla scena volenterosi e ardenti di preghiera. Il Gran sasso ci interroga da lontano, e la risposta viene dal suono di campana ripetuto novantanove volte. […] Se vieni a visitarla, comprendi che questa è la patria di gente forte e gentile, nobile d’anima, e proprio qui, in questo luogo alita un supremo spirito divino».

Nato a Niibo nel 1927, primo di sei figli, dopo la maturità, si iscrive alla facoltà di ingegneria civile dell’Istituto statale agrario e forestale di Utsonomiya. Dopo la sconfitta del Giappone nel secondo conflitto mondiale, la devastazione della città lo induce ad abbandonare gli studi per tornare al suo paese natale (riprenderà solo più tardi gli studi per volontà dei genitori). Nel 1948, consegue la laurea in ingegneria civile e insegna matematica nel liceo regionale di Niigata. Dopo aver esordito su una rivista che si rifaceva a T.S.Eliot (Arechi, fondata da Nobuo Ayukawa e Ryuichi Tamura), Takano è assiduo frequentatore della filosofia di Heidegger e Jaspers, che hanno influito per la decisione di quale fosse il livello a cui porre la vita della poesia e il senso ineliminabile della trascendenza: «Noi dobbiamo coltivare con la vanga delle parole questa terra desolata che grida e piange. Mi sembra che l’immagine che offriamo sia tuttora esile come una piantina d’uva; intanto cerchiamo di piantarla con tutta la nostra volontà. Continueremo ad annaffiarla pazientemente perché essa metta radici. Le sue radici assorbiranno poi la stessa terra desolata, ed essa troverà un giorno dita di luce che la raggiungeranno da lontano, salendo fino al tronco e ai rami. Il suo piccolo frutto ancora duro maturerà lentamente, e si preparerà a offrirci il suo profumo e il suo dolce sapore». La maturazione, tra il 1965 e il 1995, di non scrivere versi, per non offrire il fianco all’egemonia culturale nipponica, saldamente arroccata sul gioco del linguaggio, ma di concentrarsi sulla matematica, e sulla composizione di testi per la musica, sottende il fatto che scrivere poesie «vuol dire innanzitutto soffermarmi con uno stupore profondamente fresco, di fronte a ciò che esiste, accettare insieme la molteplicità e la continuità degli esseri, fissare su di loro lo sguardo fino a quando svaniscono. La poesia era per me l’unica via per incontrare il senso e la bellezza misteriosa dei legami tra gli esseri, legami che più fissavo più perdevo (ma tutto diventava limpido): era la via misteriosa in cui era possibile trovare un grande conforto».

Lo «stupore fresco» davanti alla realtà è il germoglio di una “povertà” «mai spoglia di bellezza» (D.Rondoni), come il generare l’abbraccio della forza e dell’abbandono alla leggerezza memorabile e struggente: «Se fisso un albero che ha la cima tesa al cielo e la radice sprofondata a terra, osservo come due forze divergenti convergano in una: il risultato è l’albero in piedi, senza che si possa distinguere tra il desiderio del cielo e quello della terra».

Gli oggetti che emergono dal suo dettato poetico hanno una difesa, non solo della grandezza solenne dell’io che guarda, ma posseggono il gusto, l’indizio, o meglio, l’annuncio dell’inizio. Come il desiderio di cielo e l’inesauribile interrogazione totale: «Ma non potremmo avere anche noi un’anima / con cui tendere al cielo? / non potremmo avere un’anima / piccola ma decisa / a riflettere il cielo, / come l’acqua torbida dello stagno?».

L’immagine umana simile a una «trottola», che egli comunica, è un respiro, una decisione, una posizione di fronte al mondo, al suo esserci e al bagliore del mistero dell’esistere: «Il cuore sarà la bilancia / su cui pesare il cielo, l’invisibile cielo?».

La parola lascia il suo foro che, come un varco, tocca uno zampillo proteso all’Alto; la direzione inesauribile, l’abisso vitale che zampilla in uno strano vortice di gravità: «Poi negli oscuri / alti fondali, è proprio vero! / dal basso verso l’alto / cade neve, / dal basso candida neve / all’alto cade».

Il tumulto delle cose sfronda aperture nuove, aperte al balzo e alla raccolta delle stelle: «Guizzanti come frutti d’acetosella, / dei fanciulli s’immergono nel mare, / colgono le asterie e le lanciano al cielo / gridando d’aver preso le stelle».

Ogni cosa porta con sé il suo nulla (molto vicino al nada dei mistici spagnoli del Seicento), ma anche la coltre di una ferita, di un balzo, di un foro senza fondo: «Ma la mia anima è un foro / senza fondo, mai colmato / da ciò ch’è palpabile e visibile. / Se tu sei senza limiti, / l’infinito / che non si può toccare né vedere, / ti voglio, voglio te, / come lo scemo / che aspetta il mattino / e lo desidera intenso – / voglio soltanto te». Interrogare il mistero, aprirsi alla trascendenza significa guardare il fondamento della parola e della ragione e, in quella ferita violenta e benedetta, egli si fa arco, freccia e tensione di corda: «ma mi trasformo in arco, sono proprio l’arco / sui cui poggia la freccia ancora accesa / che ha bruciato ogni mestizia, / e la punta dilatata verso di te. / Per scrutare l’invisibile incendio / se tu sei invisibile, / per scrutare l’infinito incendio / se tu sei infinito, / se tu sei assente, ma tanto / assente da non potere neppure ardere, / voglio scrutare questa infiammata assenza, / e davvero chiunque tu sia, / ti penso insieme all’illogicità / che in te arde». La stretta consonanza con la poesia occidentale, il «wabi», nocciolo di semplicità e altezza, «è ardente di tutta la esperienza della desolazione della terra, eppure non piega il soggetto a corteggiare l’afasia o la cenere, come avviene in altri». (D.Rondoni).

L’uomo che si muove in questa povertà mendicante, verso l’Altro, l’Assoluto, raccoglie il sentiero aperto e la tensione verso Dio, per cercare «di afferrare l’azzurro / del mare»: «Come gli alberi che chiedono / sulla cima la luce / e la negano alla radice, / perché anch’io vivo / cercando Dio con le parole, / respingendolo dall’anima». Mons. Ravasi commenta che questi versi: «attestano proprio questa necessità intima della trascendenza che, però, è spesso frustrata e vanificata dal frenetico movimento esteriore della vita contemporanea. Non di rado, infatti, apparentemente abbiamo il nome di dio sulle labbra non solo perché lo preghiamo forse ogni giorno, ma anche perchè nel momento del bisogno, della prova, della sofferenza ci aggrappiamo a lui per avere un aiuto o un conforto. Tuttavia in realtà, nelle scelte della nostra vita, noi lo “respingiamo dall’anima”».

Come la trota che risale il fiume, pronta a guizzare, oltre l’ombra della vita, del mistero del dolore e del male, in ogni uomo avviene uno luogo di attesa, di dramma inconcluso e infine, di «infiammata assenza», molto simile al «quasi nulla» leopardiano, come attestano queste lucide parole di Annamaria Ferramosca: «Takano scrive poesia contando su tre solidi cardini di identificazione della parola: poesia come costante domanda di senso, attesa tenace di assoluto; poesia come unica via per l’ascolto del mistero che attraverso gli esseri, […] poesia infine, come incessante lavoro sul “rinascere insieme”, riconoscendo quei barlumi di senso nelle immagini del quotidiano, della natura, metafore semplici, da cui Takano fa sgorgare senso […] così scarno a volte da sfiorare la purezza del sacro».

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