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La Chiesa in carcere. Perdono responsabile e giustizia riparativa

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Il Documento base nell’ambito del penale (DB), pubblicato e reso accessibile dall’Ispettorato generale delle carceri italiane (Ministero della Giustizia), pubblicato dalle EDB, si lascia ispirare dai principi evangelici fondamentali per suscitare prassi di misericordia nei confronti delle persone ristrette e offrire a loro percorsi di guarigione. Il DB si propone come strumento di riflessione e di progettazione degli operatori pastorali nell’ambito carcerario dal momento che per la chiesa è eticamente, culturalmente e socialmente rilevante la questione del recupero integrale delle persone in stato detentivo. Inoltre, si sottolinea il ruolo dei “cittadini cristiani” e delle comunità per individuare e potenziare adeguate risorse politiche, sociali, ecclesiali e offrire un effettivo e tangibile contributo alla formazione di interventi ed iniziative adeguate a riabilitare la coscienza morale della persona, come forma sanante della misericordia.

Sin dalle linee introduttive, il DB non lascia dubbi sullo scopo dell’azione pastorale nelle carceri, riguardante essenzialmente una duplice prospettiva antropologica, teologica e pedagogica: liberare e aiutare a liberarsi dal male. Queste due direttrici chiamano la Chiesa e la società, nell’amministrazione della giustizia, ad una consapevolezza del messaggio di liberazione di Gesù. Egli è origine e modello di guarigione, che la comunità cristiana è chiamata ad annunciare a tutte le persone coinvolte a vario titolo nel mondo del penale (DB, Premessa).

Il luogo “carcere” non è solo un topos fisico con le sue ristrettezze, quanto una limitazione spirituale e psicologica. È opinione condivisa che la forma attuale degli istituti di pena non rappresenti un’occasione di riscatto e di reinserimento sociale. Piuttosto il carcere rappresenta una punizione coercitiva, finalizzata all’isolamento. Secondo il giudizio di alcuni osservatori e studiosi, le modalità di applicazione della pena rappresentano il più delle volte la negazione stessa della dignità personale. Per molti l’esperienza carceraria è l’anticamera dell’infermo. Qual è l’insegnamento che lascia? Quali sono le opportunità di riscatto offerte? È possibile pensare a vie alternative e complementari ponderate nella logica della giustizia riparativa?

Secondo il DB, il carcere – se non può essere evitato o al momento ripensato – può diventare, con il contributo e l’impegno dei volontari e degli operatori di ispirazione cristiana, un luogo di riconciliazione, ovvero dell’accompagnamento, di relazioni nuove e della riscoperta dei legami liberanti, di relazioni educative autentiche, ovvero relazioni di cura. Secondo il filosofo Giuseppe Ferraro, per libertà bisogna intendere possibilità di cambiamento, ovvero dar-si l’opportunità di lasciare la routine, la stagnazione, scegliendo il cambiamento, accogliere quindi la sfida di uscire dalla stasi della rinuncia e affrontare la vita in tutte le dimensioni.Tale posizione può essere sintetizzata nella seguente massima: «Fa’ di tutto per essere un detenuto libero. Non è un paradosso. Cerca di detenerti da te stesso, non farti detenere».

Nella prospettiva cristiana esiste sempre la possibilità di riparare, perché Dio guarda il cuore, l’intenzione. È faticoso insistere su cammini di riconciliazione, ipotizzate e realizzare forme alternative all’isolamento carcerario. Tuttavia, se il centro dell’interesse della giustizia è la “riparazione”, essa non può esimersi dal pensare alla novità insita nel cuore della persona criminale e scommettere sulla possibilità del ravvedimento e del recupero attraverso forme concrete di rieducazione, provando a superare di fatto la contraddizione esistente nel sistema carcerario vigente.  La giustizia riparativa, o “restitutiva”, come preferirebbe il filosofo Ferraro, mentre si concentra sul processo di rieducazione del colpevole, attiva forme di mediazione e di tutela delle vittime e dei congiunti. Attivare percorsi di questo tipo significa fare i conti con la possibilità della recidiva, sempre in agguato in  un sistema spesso vincolato dai protocolli procedurali. Nel corso degli ultimi anni sono state proposte diverse definizioni di “giustizia riparativa” presenti sia negli studi degli esperti, sia in atti ufficiali. Il concetto è sempre più presente nella giurisprudenza, nelle dichiarazioni di principio o nelle direttive.

In sintesi, la giustizia riparativa, secondo la definizione di C. Mazzucato, nella volontà di superare la logica del castigo e leggendo in chiave relazionale il fatto criminoso, può essere definita

una forma di risposta al reato che coinvolge la vittima, il reo e/o la collettività nella ricerca di soluzioni agli effetti del conflitto generato dall’illecito, allo scopo di promuovere, fra l’altro, la riparazione delle conseguenze dell’evento lesivo e rafforzare, quindi, il senso di sicurezza collettivo. La mediazione reo/vittima è – in prima approssimazione – un procedimento informale in cui le parti guidate da un’équipe di esperti, hanno la possibilità di incontrarsi, di discutere del reato, dei suoi effetti sulla loro vita e sulle loro relazioni, di progettare modalità di comportamento futuro assumendosi, eventualmente, anche impegni volontari di riparazione (simbolica o materiale) del danno causato.

Molte sono le esperienze di volontari laici e credenti, presbiteri e religiosi/e, di operatori pastorali, di insegnati, di poliziotti, di magistrati, di educatori sono proposte ad un più ampio pubblico in pubblicazioni e attraverso altre forme di divulgazione. Queste ulteriori testimonianze portano l’attenzione dell’opinione pubblica a riflettere sulla necessità di superare logiche vendicative nell’amministrazione della giustizia (in particolare quella che considera la pena come castigo, ovvero la costrizione all’esclusione sociale con reclusione carceraria). Intanto, va evitato il pericolo di ridurre il discorso del perdono responsabile e della giustizia riparativa con equivoci generati da discorsi buonisti dal punto di vista del dibattito sociale ed ecclesiale per non ridicolizzare il processo attivato tra diverse complicazioni e ancora intriso di criticità. Le esperienze narrate partono nel carcere e la narrazione è lo stile comunicativo ritenuto più efficace per descrivere l’esperienza: una memoria diretta quindi tesa a diventare futuro. Ecco perché molte volte gli autori di testimonianze propongono al lettore anche interi epistolari. Nelle lettere si leggono sentimenti veri, si percepisce il dolore sincero per il male fatto e il bisogno di essere accolti e accettati al punto da incoraggiare la preghiera con i detenuti.

Sul piano ecclesiale, come su quello sociale e culturale, il carcere è una realtà rimossa, o meglio è il luogo dove si crede di stipare e obliare in un certo modo i problemi sociali, il disadattamento e le fragilità di persone, affette il più delle volte da deficit relazionali e sociali, con profondi ritardi emotivi ed affettivi. Così il carcere nella mente di molti diventa un luogo astratto e nelle intenzioni di altri assume una funzione di controllo sociale, un modello affermatosi dal Medioevo in poi, come prerogativa del monarca. In epoca moderna, si giustifica l’esistenza del carcere portando una motivazione garantista per i colpevoli di reato ai quali si assicurerebbe l’esistenza in vita a fronte del pericolo della morte per sentenza, nonostante di fatto sia privata la dignità di persona con la limitazione delle libertà fondamentali.

Si afferma, nel corso dei secoli, una convinzione: per preservare la società dalle persone reiette per loro deliberata scelta è necessaria la reclusione, considerata la modalità più adatta per la securizzazione della società, libera in tal modo da paure e da incertezze. Il diritto penale, a fronte di tanti altri mezzi di protezione giuridica, riscuote maggiore successo dal momento che con le diverse sanzioni (in specie la pena detentiva), riesce a «prevenire la commissione di fatti socialmente dannosi idonei a pregiudicare le condizioni di pacifica convivenza», come scrive C. Brunetti. A ben vedere, con il contributo di diversi attori sociali, come i volontari, è cresciuta la consapevolezza dei limiti della detenzione carceraria secondo il regime restrittivo che tutti conoscono senza un effettivo e realizzabile programma di rieducazione.

Se da un fronte si contesta l’utilità della detenzione, il dibattito, soprattutto tra i cappellani, da un po’ di anni sta insistendo sulla necessità di ipotizzare e proporre nuove modalità di recupero in alternativa alla brutalità della reclusione sic et simpliciter, poiché la logica di molte leggi predilige il carcere come l’equivalente di provvedimenti punitivi, repressivi, vendicativi.  È qui il neo più evidente perché le leggi, definibili “carcerogene”, rispondono ai reati con un provvedimento di fatto innaturale, quello della privazione della libertà e, nonostante le indicazioni di principio, difficilmente si riesce ad attuare un vero progetto di rieducazione. Non poche ricerche, infatti, sottolineano, tra gli altri aspetti, la mancanza di un reale ed efficace quadro di intervento per ciascun detenuto con lo scopo di accompagnare la persona ristretta ad una piena consapevolezza di sé e delle reali possibilità di reinserimento sociale.

Le pene, per alcuni, potrebbero avere una “funzione medicamentale”, mentre per altri sono inflitte in applicazione delle leggi e rafforzerebbero addirittura la volontà di delinquere. Studiosi ed operatori psicosociali giudicano il carcere un “luogo sterile”, poiché non può essere “luogo di possibilità” di cambiamento e di evoluzione. Ci sarebbe perfino nel detenuto, in particolare in quello sottoposto a pene di lunga durata, una disposizione psicologica finalizzata ad assoggettare ogni azione ai propri scopi e per questo motivo altererebbe e falsificherebbe i rapporti interpersonali, poiché ogni occasione sarebbe propizia per manipolare le situazioni da parte dei ristretti.