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La luce elementare di Elio Fiore

Elio-Fiore

 

È un autentico scrigno prezioso l’intera e ingente raccolta dell’intero corpus poetico di Elio Fiore (1935-2002) – L’opera poetica (Edizioni Ares), a cura di Silvia Cavalli, con una corposa sezione di inediti e con la prefazione di Alessandro Zaccuri – sia per la rivitalizzazione di un autore che sorprende ed invita  e sia per la straordinaria qualità che, come scrisse Carlo Bo, nella Nota introduttiva all’Antologia Poetica, si sorprende nella «[…] capacità di concentrazione e nello stesso tempo di irradiazione» che chiama «intorno a sé le voci di ieri e quelle di oggi, quelle dei suoi amici Ungaretti e Montale e i canti delle Benedettine che conservano per i posteri il monastero di Viboldone. Un coro però che riesce ad evitare le confusioni e i diversi sensi delle espressioni dei suoi fratelli in poesia e in fede. Ecco perchè la sua poesia rientra nel registro della purezza e in quella della comunione».

Proprio Ungaretti, in una lettera-prefazione alla sua prima raccolta scriveva che «Se la poesia è bruciare di passione per la poesia, se è vocazione ansiosa, tormentosa a svelare nella parola l’inesprimibile, nessuno è più poeta di Fiore», sottolineando così una sorta di gremita predestinazione di occasioni e dettagli, luoghi e nomi, di un poeta, come sottolineato dalla appassionata e ricca prefazione di Alessandro Zaccuri, «sempre alla ricerca di simboli che certificassero l’esattezza della sua cabala personale. Ogni frammento si caricava di un valore simbolico».

La sua opera d’esordio, Dialoghi per non morire (1964), rielabora le rapide ungarettiane e il simbolismo popolare attraverso una intensa visione esiliata, capace di ammantare il grembo della sete lucente di bellezza, la straziata domanda e la proclamazione vitale, il fulcro conteso della sperdutezza e il delirio visionario (Guido Ceronetti) e, infine, come scrive Paolo Lagazzi, «[…] il gusto di un’autenticità remota, perduta: la fragranza del pane azzimo; la tenerezza della colomba o dell’agnello; la dolcezza del sangue», affinchè la poesia possa testimoniare «[…] il peso del male nella storia: ma, insieme, la speranza assoluta intrinseca all’amore. Sorta di lauda drammatica tra un figlio e una mater dolorosa intenta, fra le rovine di un bombardamento, a colmare di luce il loro buio, la poesia sgombra subito, con un gesto impetuoso, qualsiasi margine di cautela dalla soglia dei Dialoghi: optando contro le esigenze della forma “finita”, per la forza di uno scavo allo stremo nel male e nel bene del mondo[…]».

Nella crucialità estrema e memoriale, Fiore condensa la sua partitura di vasta maternità: la guerra, attraversata nel ricordo della madre, che sotto le macerie della casa distrutta dal bombardamento di Roma del 19 luglio 1943, fa della memoria carne rammendata, respiro che si allunga nel buio, fiato spaesato nel silenzio, dove la vita sepolta in un tumulo di dolore infrange l’arco rauco del tempo e le pietre spaccate: «L’invocazione del bambino («Madre!») e la risposta della donna («Figlio!») e la sua preghiera alla «Madre di Dio» stabiliscono il ritmo del tempo che si astrae e diviene sacro proprio in quel grido: «Gente! Gente salvate / il figlio mio!». Tutto il ritmo della poesia si gioca tra l’urlo e la stasi del grido, fino alla salvezza. Ma quel grido risuona ancora nella mente del poeta, in altro tempo, di pace, quando osserva la madre che rammenda a sera. L’urlo della madre che chiama per salvare il figlio, cui fa da scudo contro pietre e polvere col suo corpo, si accosta nella poesia di Fiore a quello di Anna Magnani, che grida un nome, Francesco, nome del suo compagno che viene catturato dai nazifascisti nel film Roma, città aperta di Rossellini. Era il Natale del ‘44 e il bambino Fiore assiste alla scena senza comprenderne la finzione, terrorizzato all’idea del ritorno dei tedeschi, scosso dal grido che gli ricorda quello materno e dalla visione della donna uccisa a mitragliate. Anche questo urlo divenne una poesia-dedica, intitolata Anna Magnani, che l’attrice considerò come un canto d’amore» (Fabiana Cacciapuoti).

È la transizione della luce depredata la fibra d’amore che intreccia la radice di una forza religiosa profonda, in cui, come afferma ancora Paolo Lagazzi, «l’umano e il divino, il buio e lo splendore, l’ombra e la grazia s’incontreranno, scontreranno e stringeranno di continuo tra loro – tutte le parole, le cose, le figure via via traendo senso dal loro interagire con l’insieme».

Questa fitta nascente, che richiama l’intertestualità facendone mosaico libero e celebrativo, lievita nell’indizio di un dialogo e di una profanazione che si spingono fino a Brecht, Éluard, Neruda, illuminando il fondo dell’anima, la stagione, l’inquieta ombra dei vivi, il cielo delle parole segrete, la radente chimera orfica di terra e canto (un Dino Campana del secondo Novecento», hanno sostenuto Cesare Cavalleri e di recente Alessandro Rivali), attraverso i rimandi e le deviazioni del «gioco intertestuale di citazioni da altri poeti che diventano proprie, incastonandosi nei suoi versi, a testimonianza di una poesia viva, che sia corpo di parole, sangue e dolore, pietra dura, mai retorica, e ardua nella ricerca di una lingua plurima che renda il sentire nelle cose e attraverso le cose, una lingua sperimentata nella resa dell’oggetto, del piccolo, del semplice, del minimale» (Fabiana Cacciapuoti).

La solitudine, che convive con l’asprezza solitaria della smisuratezza e del messaggio della memoria diventata coscienza storica, rappresenta il tessuto della sua tessitura di accordi, dove il paesaggio è prova di quella «perseveranza d’amore» senza fine, di quella benedizione di acqua piovana «baciati dal sole di menta» che fa emigrare il tempo nelle terre ondulate, negli ombrosi carrubi dolci alla luna e nella luce aperta e ritmata, carpita nelle violente e violate irruzioni (Battevano i soldati alle porte coi fucili), nella visione amorosa dell’estate del ’47 (Per Janka), tuffata nel «mare senza frontiere», nella rinascita soffusa delle albe e nel trionfo glorioso degli squarci tra le mura.

La fedeltà alla vita è la soglia della sua apertura, la chiara attitudine di un mondo che si consuma ma che si apre alla feracità del tempo redento e delle «orbite di luce» come trama d’amore: «Questo ti prometto vita, disposto e puro / a salire le stelle nell’universo se credi, / s’affinerà per le creature la trama d’amore: / qui si vedrà di pietra in pietra, consumarsi / poetando la mia vita in altri cuori e volti, / sarà chiarezza la fonte del mio cominciamento».

È attraverso la luce smussata, il rosso del mantello sfilato nel sudore («Figlio, non tardare / alla festa di sera, figlio / quale mantello scegli? / Quello rosso filato / in una notte, nella notte/ senza luna che mi dicesti: Madre / guarda queste mani e il mio cuore, / questo sudore. Sono poeta»), le parole di sangue, il solco che si appropria delle lacrime, la fabbrica che consuma le orme del tempo e dei respiri impediti ma protesi, nel limite misurato, alla domanda fraterna che non muore, che si unge di passione, «L’avvenire mi dia la forza / della Tua voce, della Tua tempra / le parole possiedo la concisa misura / la precisa forza che taglia i tralci / inutili alla vendemmia più che futura», e al segreto dell’amore che «intende i colori cupi le ansie / in noi profonde orbite, le ansie / occhi nei nostri occhi di gioia di morte / intense presenze non apparenze, segnate per tutti», all’esilio di origine e taglio (Ode a Neruda)«Vestito di cuoio e ossa / le tue parole sono pietre focaie originarie, fuoco / a questa generazione che non crede».

Questa forza di grido che arde e che ama la libertà possiede lo slancio visionario e nitido di una obbedienza e di un risveglio che rivolta la realtà, trasformandola in vera vita e in vera tenacia a cui tendere, prima del giorno che scompare e nei silenzi dei popoli dove egli avverte «i linguaggi dei loro riscatti / sommessi respiri tra i respiri»: «Miguel e Torquato in carcere, l’Idiota / incatenato: l’esilio dei vivi poeti. / la sparizione degli oggetti. Non è un triste / presagio: è la realtà la tua rivolta aperta: / si trasforma in vera vita. Tu che vuoi conoscere / la presenza la ragione della vita. Ascolta. / Nella bianca borsa devi contare, sii paziente / tutti gli oggetti: per salvare la fede / il coraggio la memoria. Preparati il letto / sulle panche, non guardare in alto, riposa / accanto ai fratelli assorti e con la barba nera. / Pregate per i calunniatori, stanotte fra le sbarre / uomini liberi, ha per voi la vita pieno significato».

Fabiana Cacciapuoti afferma:

«La poesia di Fiore vuole quindi essere la risposta al male, ricerca di solidarietà e di fratellanza; la sua parola, il suo molteplice linguaggio, muovono dalla conoscenza del male per tendere oltre, in un superamento in cui ciò che è semplice, umile, naturale, vince. La sua parola, la sua poesia testimoniano infine di una religiosità che non ha bisogno di Dio, nel senso che seppure la fede accompagna la scrittura del poeta, la religiosità che traspare è quella legata all’umano. Fiore si volge alla sofferenza dell’uomo, sperimentata sulla propria carne, violata più volte dalle esperte mani della scienza, che ha cercato di ricondurre alla norma il dire visionario, uccidendo – o tentando di uccidere – la memoria. Hemingway all’ultimo elettroshock reagì con il suicidio, perché gli toglievano la memoria. Fiore, dopo l’elettroshock, ha continuato ad essere l’uomo semplice, puro, che a quella memoria calpestata e violentata ha tenuto fede fino all’ultimo».

Maggio a Viboldone (1985) svela la radente misura di ciò che domina, irradia la comunione di spirito con un’abbazia che diviene dono, forma di obbedienza e possibilità risorta e bambina a cui destinare la propria contusione esistenziale, per «ricaricarsid’amicizia ed essere, così, pronto al richiamo della poesia», come ricorda Luisito Bianchi.

Una scoperta redenta, una sinfonia eroica, un miracolo di stelle impazzite di là da venire: «Qui, la luce trasforma i mattoni rossi / dell’Abbazia in note musicali senza tempo, / una sinfonia eroica nello spazio eterno. / Apro la finestra: Dio, quante stelle in cielo!».

Questa condensa di visioni azzurre scoperchia la ruminata luce azzurra di dolcezza e terribilità e, proclama gli annunci, come scrive Mario Luzi nella prefazione a In purissimo azzurro (1986): «Sono annunci, lamentazioni, terribili accuse, luminose ascese e discese della “profezia” che traversano il nostro tempo così impetuosamente e così implacabilmente che io non conosco altro libro di poesia nostra dove la tragedia dell’epoca sia altrettanto presente nei suoi grandi traumi apocalittici e nelle sue quotidiane circostanze, sotto la trafittura della luce e del grido. Dal profondo non del deserto ma del gonfio cuore della Roma israelita straziata dai nazi l’evangelico poeta assume su di sé i mali e le ingiustizie conosciute da presso. Proprio questo dà a quei mali e a quelle sventure una forza di protesta nuova, lieve e incontrastabile unita com’è a quella d’una fede che pare abbia perduto la sua ineffabilità e trovato il soffio, il movimento, il sorriso della presenza viva».

È nella collettanea dialogica che Fiore trova la folla gremita della pienezza (il chiaro silenzio di Saba, Ungaretti e il suo astro incarnato nell’umane tenebre, l’eterna corsa di Anna Magnani, il purissimo azzurro di Leopardi, gli scavi dei barlumi di Liliana Cavani, le carte celesti di Miguel Hernández, le rose di Mario Luzi, le veglie di Hermann Hesse, i cieli di Alfonso Gatto, ancora Neruda, il sabato implacabile di Sibilla Aleramo, le illuminazioni di Joyce e le trombe finali del Giudizio, il fiorito spazio di Attilio Bertolucci), l’aria della lingua che trapassa la bellezza, invoca plenitudine negli scarti delle lamiere forate che forgiano nel dolore la speranza, la pena fertile delle radici contorte, le onde tremanti di Cuma e il grido delle stelle di Rafael Alberti.

Silvio Ramat, a proposito di questo diarismo «confidenziale e minuto» che apre la piaga del poeta a una sospensione indecisa e sospesa tra figuralità e nominalità, scrive che il contrasto che si registra: «fra tale vivida tutelarità che ad essi compete (una sorta di consulenza disinteressata, esemplare) e la dannazione, il male del mondo, al quale restano vincolati sia la memoria individuale del poeta che il suo inalienabile istinto di guardarsi, anche oggi, intorno».

Fiore scopre il cuore eterno nelle notti mondate, sillaba i pugni chiusi delle preghiere sotto il cielo stellato e il fuoco dei deserti dove attendere l’alba e la consumazione dei secoli nei frutti d’estate, la tenebra irradiata: «Mentre salgo queste scale / mi dico: sii forte. Non invano / è caduta questa stella, / l’illimitato amore che nasce per l’aurora, / si consuma, nelle tenebre vive e muore. / «Shalòm» sussurrano brividi nel cuore».

È grazia superstite, briciola risorta che viene sovrastata dalla materia poetica con un trapasso lirico, attraverso una lunga feritoia squarciata tra i rotoli che semina antichità e puntualità di vento, come la parola eterna della luce o i cedri del Libano: «Dall’azzurro ancora le rose fiorite / nello squarcio d’infinito che mi è dato, / tra le antenne polverose, tra fili corrosi / che gocciolano candidi vestiti / la costante / presenza della vita. E poi altro. Sbarre, / vicoli e meandri, frecce che racchiudono / nel buio di cantine, misteri, il futuro / di un orrendo passato. Anche lassù, vedo, / nello squarcio d’infinito che mi è dato, / rose bianche tra le pietre antiche di un balcone, / che il vento puntuale d’Israele, qui ha seminate. / le rose del deserto, ancora bianche, insanguinate».

In Nell’ampio e nell’altezza (1987), Fiore sperimenta la vasta consanguineità di poesia e profezia e, come sostiene Emerico Giachery, «ad essa si affianca nello scrutare e testimoniare e con sicura passione annunciare una modalità tutta particolare del vivere. Un vivere in cui tutto è segno, presagio, “figura”, in cui i segni intrecciano un tessuto significante di arcani riscontri e coincidenze e richiami. Un vivere che si offre […] come luogo deputato ad apparizioni rivelatrici. Ora, dove tutto è segno, nulla è privo di senso».

La consegna epifanica di lune e albe da attendere, il mormorio angolare del monte Tabor a Recanati dove risillabare l’Infinito, ampliare l’abbraccio leopardiano in un alito di stelle rade e vive, rivelare la densità istantanea di un colloquio umano e quotidiano con l’altezza e con il lievito intimo dell’esistere e del vivente, in ogni fluire di stanze e sciami trascesi per «seppiare nell’anima».

Scrive Maria Di Lorenzo: «Tutto in Fiore allora è teofania, tutto è lotta incessante perché il bene prevalga, e con il bene la Bellezza che imperitura governa il mondo. Tutto è segno di qualcosa che nasce dalla Storia e che poi la trascende, la supera nell’avverarsi della profezia, e di cui la poesia si fa, necessariamente strumento».

Così come i Notturni (1987) di Patmos, vivono nella carne e nel sangue nutriti di silenzio, come sostiene Cesare Cavalleri, incorporando sequenze sillabate di eterno: nel vento che mormora parole antiche, nella volta radente e paradisiaca, nell’agone di buio e di vita estesi, che decifrano la rivelazione divina.

È il mistero della vita, l’indizio compiuto della sua opera che contempla nuovi cieli esatti e puri, vegliando l’universo all’accendersi della prima stella, come reca il titolo di una prosa del 1988, in cui il sovrasenso teologico si ammanta della realtà incarnata, in tutta la sua potenza e decisività di oltraggio e bellezza, «Mentre la terra trema, / con dovizia il massacro continua / tra Iran e Iraq. Continua / la Storia filmata e ogni sera, / su tutti i televisori / del mondo, appaiono / gli assassini in mezzo al sangue degli / innocenti», a cui indirizzare la propria domanda elementare e il proprio clamore di carne: «[…] Siamo / tutti poveri Signore, abbiamo / bisogno del tuo integro azzimo, / della tua vendemmia. Abbiamo freddo / e solo tu puoi scaldarci, / in questo desolato inverno umano, / solo tu puoi farci riaprire / gli occhi all’eterno».

Scrive infatti Alessandro Zaccuri: «Ma la prosa di Fiore non è soltanto documento di stile, in quanto essa consente di rileggere in filigrana l’avventura visionaria e nel contempo storicissima di questo poeta, una ricerca caparbiamente guidata dal riferimento costante a un contenuto ed eteroclito drappello di figure e scritture».

È nell’impolverato e lucente grido improvviso che la sua lama profonda entra nel reale per renderlo numinoso e sorretto, per sostanziare il fulcro dell’umano in un trionfo di germogliazioni che si abbeverano alle fonti leopardiane con spasmo e prolificità, entrando in quei diaspri di cielo e terra con il dettaglio e il colpo che cresce, decriptando la parola nella speranza cristiana e nella gestazione dello Spirito in tutte le sue forme, e «senti che l’infinito si svela nella poesia di Fiore», afferma Claudio Toscani «senti anche le cose dello stato presente, è vero, e le immanenti immanenze; ma senti pure l’irrappresentabile vertigine del divino». (Improvvisi, 1990).

Come la raccolta Myriam di Nazareth (1992), con la prefazione dell’allora arcivescovo di Milano Carlo Maria Martini, in cui egli racconta di aver letto e meditato i versi nei pressi del lago di Genesareth e riconducendoli a La vita di Maria di Rilke, che richiama la giovanile impronta leopardiana, attraverso una breve preghiera, contenuta nel supplemento degli Inni cristiani, solamente abbozzati dal poeta recanatese nel 1819 e che Fiore mette in esergo nella raccolta.

Commenta, infatti, Fabiana Cacciapuoti: «Alla figura femminile, simbolo di un’infinita accoglienza e di tutti gli arcaici significati insiti nella metafora del materno, Fiore dedica questa raccolta che segue la vita di Miryam-Maria, non allontanandola però dalla cruda realtà né dalla sua storia personale. Come la Maria di Leopardi, quella di Elio custodisce un’antica sapienza; come per Leopardi questa vergine fanciulla può comprendere il dramma degli uomini, dramma eterno, fatto di violenza, soprusi e morte».

Alla Rosa del Creato, al sì dell’Incarnazione, al colore del Paradiso, Fiore rivolge il suo angolo sperduto e febbrile di usignolo smarrito che annuncia pienezza e sofferenza, in un sovrabbondante empito religioso che cerca gli occhi dell’universo per segnare il mondo dal suo portico e dal suo schermo di luce elementare.

È Il Cappotto di Montale (1996), a cui il poeta offre il suo isolamento e la sua fodera smossa, in cerca di salvezza e fedeltà «alla musica segreta, / alla chiamata del Creato, ai segni invisibili», alla carità delle piccole cose e degli incroci miracolosi, fino alla porta del nuovo giorno e del grido nel deserto: «Ascolta, giovane poeta, anch’io lascio / poco da ardere,  ma ho visto l’azzurra luce / di Leopardi. Matto per questo mi hanno preso,/ ma visionario significa essere fisso e attento / alla chiamata del mistero dell’Universo, / alla parola che tempera l’alto disegno / svelato del Creato. Ed io sono qui, per questo, / povero e solo, ma nel mio cuore il Verbo dell’Universo, / il canto, non calcolato come di certi nuovi credenti / del mio tempo. Ungaretti, Montale, Sbarbaro, / Bertolucci, Sibilla e Luzi, li ho cercati e mi hanno / riconosciuto. Vivo e attento ad ogni loro verso, / infiammato e fedele alle loro vite, riconosciuto / nel profondo del mio essere, scavo alla radice / della poesia, mente da mente. Che dirti, / poeta che muovi i primi passi? Vivi intensamente, / stai lontano dai letterati infidi, ama i versi / dei poeti che hanno pagato con il sangue / la salita suprema, dopo la selva oscura e il principio / dell’anima smarrita. Sii fedele alla musica segreta, / alla chiamata del creato, ai segni invisibili,/ e drizza l’occhio alla visione improvvisa, / alla chiamata. Nella notte dell’anima, sentirai / l’umiltà d’Iddio, la parola semplice, ispirata./ Altro non posso dirti, io che sono tra i vivi / e prego i morti, solo, ma resuscitato».

Fiore E., L’opera poetica, a cura di Silvia Cavalli, prefazione di Alessandro Zaccuri, Ares, Milano 2016, pp.728, Euro 20.

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