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La poesia ininterrotta di Paul Éluard

Paul Eluard

«La poesia è per Éluard uno strumento di conoscenza vitale, uno strumento che non dovrebb’essere privilegiato ma, come il linguaggio, comune a tutti gli uomini; l’immaginario dev’essere annesso alla realtà quotidiana. La poesia non è attualmente, ma sarà, un linguaggio universale. […] Poesia è conoscenza, ma il suo fine è la verità pratica: in essa, come nell’azione. […] La poesia lavora per portare alla luce la coscienza profonda degli uomini e quindi per ridurre le differenze che fra gli uomini esistono. Per questo si fa rivoluzionaria: la necessità storica e il meraviglioso della fantasia sono per essa una sola e medesima cosa. La poesia è, o dev’essere, utile. Azione e poesia sono finalmente reciproche. La poesia, come l’amore, è un concreto anticipo sulla rivoluzione» (Franco Fortini).

Scriveva così Franco Fortini, nel 1954, a corredo del testo, edito da Mondadori, delle Poesie di Paul Eluard (1895-1952), poeta che nella trincea surrealista, elabora, partendo dalla reverie romantica, una struttura poetica senza mediazioni, nella densa affermazione di una sintassi amorosa, diretta e fervida come l’apocalisse dell’origine.

Pseudonimo di Eugène Émile Paul Grindel, nasce a Saint-Denis il 14 dicembre 1895 da un modesto contabile socialista e da una sarta per signora. Circondato dalla tenerezza «d’une famille pauvre et tendre», nel 1912 fu costretto a interrompere gli studi parigini e a ricoverarsi al sanatorio di Clavades. Lì conosce Elena Dmitrievna Diaconova (Gala), che sposerà nel 1917 e dalla quale avrà una figlia di nome Cècile. Il passaggio funesto della prima guerra mondiale lo costringe all’allontanamento dalla vita civile: sarà arruolato dapprima in sanità, chiedendo poi di passare in fanteria, per condividere la prima linea e compiere il suo dovere di soldato. L’amore e la trincea delineano tra le sue mani Le devoir et inquietude, firmate come Paul Éluard (dal cognome della nonna materna), che diventerà il suo pseudonimo d’arte.  

La vicinanza alla temperie dadaista e la conoscenza dei suoi esponenti, come Tzara, Breton, Aragon, rappresentano l’inizio di una forma artistica, che prevede la collaborazione alle riviste di punta e la direzione dell’avanguardista Proverbe, così come l’iscrizione al partito comunista.

Ma il canto di Éluard raccoglie l’eredità legittima di uno sconvolgimento antitradizionale e dissacrante, di un grido contraddittorio, in cui l’estraneità del male, degli altri, l’oppressione e la guerra debbano condurre a una coscienza liberatoria e a un abbandono innocente e ultimo, come riferisce in un’intervista curata da Franco Fortini, pubblicata in «Il Politecnico» numero 29, del 1 maggio 1946, col titolo Éluard: la poesia non è sacra: «La rivolta sta alla rivoluzione come il sentimento iniziale sta a quella raison ardente di cui parlò Apollinaire, che è la sola ragion ragionante e insieme la sola poesia. Il sentimento (come la rivolta) è un primo momento,assurdo e sublime. Bisogna ripeterlo a quanti, oggi, parlano di rivolta. Il sentimento da solo non si fa carne: e la poesia è rivoluzione, non rivolta; è logica. Essa ha per scopo la verità pratica. Per questo io difendo il diritto dei poeti a contraddirsi. Non si parli qui di diritto all'errore. Il solo errore valido è quello che avviene in presenza e in coscienza della verità. Per questo il diritto della contraddizione è necessario all'esercizio della logica dialettica».

La ribellione ai dettami dadaisti e la direzione verso il surrealismo impongono la via verso la letteratura protesa alla rivoluzione permanente dello spirito, che possa destare e incidersi nel fondo umano, nelle sue contraddizioni e nei suoi passaggi. Il dramma poetico di Éluard, pertanto, abita il fondo dello sradicamento, lo sconvolgimento lessicale e metaforico di una gioia e di un dolore potenziali, che sembrano allinearsi nella solitudine angosciosa e straniante e nel rifiuto per la realtà che lo circonda, come travaglio e dilemma profondo.

La luce dell’io appartiene alla fragilità della linea che ne solca i crepuscoli e i sogni, i recessi inconsci di un fuoco materiale. Il momento dell’impegno (uscirà anche dal partito comunista e si riscriverà) si decifra nell’autenticità dello sperimentalismo, dell’amore perduto di quella donna madre e vergine che rinnoverà il decorso di un amore infinito e inenarrabile (Nusch), che ama il senso plurimo, l’orizzonte delle unità delle apparenze naturali, come numinose forme di positività ultima.

La continua e strenua difesa della dignità umana, nella condanna del fascismo, del nazismo e del franchismo si impernia su una lotta civile che abbraccia il sentimento di pietà e libertà. Per altri versi, il surrealismo, imponendosi nelle due linee mediane di surrealtà e l’immediatezza della vita cosmica, frequenta le zone del meraviglioso, della «poesia-rêve», dell’assenza di ogni premeditazione lessicale, «auspicati come facoltà quotidiane e comuni che debbono sostituire il ritmo cosciente del pensiero, il razionale, il sillogismo, rappresenta un distacco dalla dimensione storica dell’uomo a favore della sua dimensione metastorica, se non addirittura ipostorica e subliminare». (Silvano Del Missier).

L’appropriazione dell’universo si gioca all’interno della sopravvivenza, della responsabilità verso l’avvenire, e infine, della compresenza ultima e comunionale di natura e corpo. L’attesa di Éluard è un grido compiuto, un rapimento ubiquo in cui la realtà si trasfigura nella potenza immaginifica e prodigiosa, distesa sulla lunghezza e sulla brevità di un flusso cosmico.

La sintesi delle esigenze interiori sposa “il poter dir tutto”, mai tradendo l’occasionalità fallace che si offre all’umano respiro, precisa la sua luce di desiderio, puro e vitale, che allontana l’angoscia della solitudine e sfiora, adunando e conciliando, la chiarezza e l’ombra, la grazia dello spirito e l’istintualità animale. La figura della donna, rischiarando la mediazione dei rapporti, funge da tramite, nella similarità e nell’itinerario di speranza e dei suoi sentieri segreti.

Ed ecco che l’immagine trova la sua gravità e la sua misura incontenibile. In essa, egli scoperchia il dicibile, afferma il tono, come peso infinito e specifico che dà rilievo alle figurazioni e alle concatenazioni della vis discorsiva, come egli scrive ne L’évidence poetique: «Le immagini del poeta sono fatte di un oggetto da dimenticare e di un oggetto da ricordare […]. L’immaginazione non possiede l’istinto di imitazione: è l’universo senza associazione, l’universo che non fa parte di un più grande universo, l’universo senza Dio, non potendo essa mai mentire, né confondere mai ciò che sarà con ciò che è stato. La verità si dice molto in fretta, senza riflettere, semplicemente, e la tristezza, il furore, la gravità, la gioia non sono per lei che mutamenti di tempo, cieli sedotti […]».

La rêverie poetica si fonda sulla sostanza della irrealtà sensibile, sul «chiamare le cose con il loro nome» e «il cui grado di verità e purezza poetica», come annota Del Missier, «è tanto maggiore quanto più rapidamente e semplicemente gli oggetti vengono riscoperti e nominati. […] Le due forze motrici dell’immaginazione che vuole restituirci il senso di questa nuova, totale verità della natura, degli oggetti, delle relazioni umane, sono la speranza e la disperazione, che, esse pure, divengono concrete assieme con le sensazioni e con gli altri sentimenti ed hanno il potere di cambiare d’incanto i rapporti del poeta con il mondo».

Il continuum lirico-vitale della sua poesia si afferma nel magma del tempo amoroso e poetico. In esso trova la chiave di volta della sua ventilata relazione, dell’altro verbale, e il suo linguaggio si rinsalda nell’inno ininterrotto, nell’investitura di un elenco sospeso sull’orrore, sulla memoria dell’infanzia, sulla dolorosa sequenza dell’angoscia, vissute in una prospettiva di “eu-catastrofe” e di comunione immediata e rivoluzionaria. Scrive Franco Fortini: «La poesia di Poésie ininterrompue vive in queste contraddizioni interne: lo sforzo per la conquista di un tempo umano meno disperato si annulla nel presente perpetuo della Donna, la negazione dell’immediatezza e della liberazione astratta si annulla in una immagine millenaristica di beatitudine, e le stesse immagini, ora rattratte ora distese, si risolvono nelle ondate, nel flusso e riflusso dei ritmi». Il disaccordo tra segno e significato, se da un lato accosta e fonde sensazioni e metafore, dall’altro scambia materia, crea alchimie e folgorazioni: «Minacce digrignano i denti / mordono la risata / strappano le piume al vento / le foglie morte alla fuga» o ancora «La fame ammantata d’immondizie / attanaglia il fantasma del grano / La paura cenciosa perfora i muri / Livide pianure mimano il freddo». Nell’agglutinazione dell’abbandono, Paul Éluard inverte i segni, suggerisce suggestioni che arricchiscono le metafore e l’elisione dei nessi. Eliminando la sospensione della punteggiatura, compie un serraglio incalzante che nella semplicità immediata della espressione non ha paura di farsi fervore umano, creativo, abbaglio di immagine. La poesia del bianco su bianco si contagia di purezza e di amore, di ribellione e di grido memoriale, che come sottolinea Piero Bigongiari, sostiene il passaggio dalla bellezza amara alla verità pratica. In essa trova il suo ossimoro, la sua finale e ininterrotta conclusione.

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