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La scala di Denise Levertov

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Denise Levertov (1923-1997) nacque a Ilford, paese poi accorpato alla capitale londinese, nel 1923 da madre insegnante gallese e padre ebreo russo convertito al Cristianesimo, dopo gli studi teologici e filosofici a Lipsia e Gerusalemme.

Crebbe, pertanto, in un ambiente familiare colto e cosmopolita e spesso, nelle sue prose autobiografiche, fece riferimento alla casa paterna come luogo di ritrovo di «librai ebrei, teologi tedeschi, preti russi in visita a Parigi e cantanti d’opera viennesi». Fu il suo luogo indimenticabile e protetto, in cui fu avviata alla danza, alla conoscenza della letteratura, innestate sulle radici giudaico-assidiche del padre e sul fertile mondo gallese della madre, che poi daranno vita a un mondo polimorfico, sfarzoso e oracolare, di angeli, uccelli, elfi e profonde relazioni tra realtà e mistero, visione e fascinazione. A diciassette anni, dopo aver ricevuto una lusinghiera lettera da T.S.Eliot a cui aveva inviato dei versi, pubblicò nella rivista «Poetry Quaterly» il suo primo poemetto Listening to Distant Guns a cui farà seguito la sua prima e ultima raccolta inglese The Double Image, intrisa di segni e avvertimenti romantici e già in fieri protesa al rituale della sua gioia «idiota» contro ogni possibile guerra. Infatti, dopo la seconda guerra mondiale, in cui la Levertov prestò servizio a Londra come infermiera civile, nel 1948 lasciò l’Inghilterra per stabilirsi negli Stati Uniti, sua seconda patria, e sposare lo scrittore Mitchell Goodman.

Si stabilì a New York, riuscendo, facilmente, a inserirsi nel mondo intellettuale americano e respirare una temperie culturale più veloce della vecchia Londra.

La lettura di William Carlos Williams e Wallace Stevens, già iniziata con alcune peregrinazioni europee e poi i contatti con i poeti del Black Mountain, sfrondarono la sua voce in un accento nuovo, in una prospettiva che, se da un lato, si impregnava della forte sostanza imagista, dall’altro affermava l’ampio respiro della suggestione mitica e quotidiana, in un forte equilibrio simpatetico tra tensione etica e simmetria lirica. La grazia animale della parola estende il suo territorio al confine di un battito e di un impulso, come il calpestio di un gatto o le ali di un gabbiano in volo.

Il dinamismo poetico, presente nella raccolta Here and Now, pubblicato nel 1957 da Lawrence Ferlinghetti nella City Lights Books, ridesta rapidi passaggi e vortici percettivi continui tra la pronuncia del suono e la sillaba sulla pagina. La sillabazione della quotidianità è una germinazione di luoghi e istanze, si fa percezione fiorita sul gusto dell’esistere, per imbarcarsi, infine, «sul treno della sera». Il rapido susseguirsi di queste rapide di suono, tra percezione e impressione, si impregna di una vitalità flessibile che, pur non disdegnando una tensione etica e politica (come testimoniano testi sul processo a Eichmann o sulla guerra in Vietnam), predilige una asciuttezza di enigma e di inquietudine lontane dagli inserti della coeva poesia americana.

Il recupero della storia del patriarca Giacobbe, che una notte ebbe la visione di una scala che da terra si protraeva fino in cielo, ridestò in lei l’idea di una poesia ascensionale, il cui gesto, intriso di mitologia biblico-chassidica, si muovesse a scoprire il segreto e il sapore del mondo e intuire, come scrive Amy Gerstler: «la presenza di una chiara voce ordinata e protesa verso una osservazione acuta e un impegno con tutto ciò che è terreno, in tutta la sua custode bellezza, il mistero e il dolore».

Rammagliare il mondo, nell’agone sospeso dei ricordi e delle esperienze sbiadite, significa frequentare l’immediatezza delle ellissi di una percezione fisica e immediata, di un solco dignitoso e corporeo che conduca fino alla incorporeità, la accolga e la raccolga:«In “natura” non c’è scelta / …Ma per noi / sembra non esserci (non solo morte / a disposizione ). / …forse / un digrigno di denti, per andare / oltre, appena quel tanto, oltre la fine/ oltre tutto quanto finisce; / per ricominciare, per essere, per resistere».

Scrive Aldo Tagliaferri: «La quotidianità risulta dunque ambigua nel senso che in essa si vede la celebrazione di un mistero sempre nuovo e di una sacralità che, come suggerisce Assaggia e vedrai, si offre ovunque «al palato dell’immaginazione». «Alle isole via terra», che leggiamo come una poesia sulla poesia, giustappone la ricorrente immagine della danza, ossia un ideale di leggerezza armoniosa, all’immagine dei sentieri ordinari percorsi dall’immaginazione poetica».

Denise Levertov nel suo viaggio poetico affermò il valore intrinseco della visione, come punto di partenza per la ricezione e ricettività dell’essere, che consente di «rimbalzare da finestre frantumate».

Il dinamismo interiore enigmatico e insondabile ha un proscenio di familiarità, possiede la nitidezza del linguaggio e dell’attenzione che sostano nel reale, per affermare la luce, i cicli della creazione, l’eterno rinnovamento. Se la vividezza degli eventi fonda la fine dell’aggettivazione a vantaggio di una prossima immagine sostantivata, il rapporto tra percezione e oggetto percepito si spinge oltre il limite del senso, in cui la femminilità sostanzia una forte accezione di prospettiva senza preclusioni, per raggiungere «il blu sinuoso della sua immagine» e come scrive in Assaggia e vedrai in un fondale di ombre, livelli, movimenti: «Nella mia mente c’è una donna / semplice, senza fronzoli ma / graziosa, profuma di mele o / di campi. Indossa un grembiule / o una tunica, i capelli sono lisci / castani ed è / gentile e molto pulita, senza mai / ostentare – / ma non ha immaginazione./ Poi c’è una donna lunatica / irrequieta giovane / o vecchia o tutte e due,/ vestita di cenci e opali, piume / e stracci di taffettà / conosce strani canzoni –/ ma non è gentile».

L’intuito assolutamente femminile, che un grande critico come Kenneth Rexroth ha riconosciuto alla Levertov appare qui di rilievo, specie nella volumetria polimorfica della individualità leggiadra e tenue, ma al tempo stesso inquieta e, doppia, come si afferma nell’ambiguo spirito creativo de La Madre Libellula che «si libra in volo su scale d’aria» e «si lancia verso dimensioni inaspettate».

L’alimentazione pittorica, frequentata sin dalla imagerie infantile sostiene il suo disegno di inchiostro, annulla le separazioni spirituali e carnali, si ridesta in una continuata e duplice funzione psicologica e analitica.

La stessa simbologia dell’acqueo e del lunare e il rapporto irriducibile tra oscurità e luce, cari a Jung, in Denise Levertov assumono un connotato sacro ed eterno e fondano e nutrono il dramma del vivente: «c’è e sempre ci sarà / col suo canto dolce e magico potere / di zampillare / in noi, perforando la roccia». È lo scenario della mutevolezza e inafferrabilità della forgia femminile, che come scrive ancora Aldo Tagliaferri, percepisce, in tutta la sua amorosa doppiezza, il fascino dell’umbratile e del minaccioso: «La Donna Eterna nella poesia della Levertov può essere vergine o madre, sacerdotessa ispirata o perfida seduttrice. Questa ambivalenza (…) è esemplificata in modo assai chiaro dall’immagine delle due donne che coesistono nella coscienza della poetessa». Il sottofondo dell’immagine annuncia la presenza dell’avvenimento divino e la preghiera pronuncia il suo silenzio ospitale, l’ineffabile mistero del sacro maschile che porge il suo bagliore numinoso e solare. La scoperta di Dio intesserà la sua fervida distesa di sogno e realtà fino ai suoi ultimi istanti di vita, come un destino naturale di gioia, prodezza lirica e indagine mistica: «Ecco, / quella è gioia, è sempre / un riconoscere, mentre il conosciuto / appare pienamente se stesso, e / più se stesso di quanto sapessimo».

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