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L’abisso profugo di Marina Cvetaeva

 

 

 

 

 

 

La poesia di Marina Cvetaeva (1892-1941) è una sorgente di furia e di abissi di purezza che si gonfia nel petto come un grido, un respiro di canto.

Inizia da subito a scrivere, quasi come se l’origine poetica abbracciasse la sua anima di tormento e  luce, l’Album Serale del 1910 raccoglie un’oasi di pacificazione, in un contesto esterno ed altro, l’audacia delle corrispondenze ed dei simboli, il fuoco dei riferimenti.

Aveva raccolto la potenza di Rainer Maria Rilke e nutrito di passione la sua pagina d’anima per Boris Pasternak, il vertice dell’espressione russa, che aveva scorto di lontano, toccandone le sponde, ma in absentia, senza mai raggiungere la sua riva.

Donna irruente e ribelle, isolata come le anime pure.

La Cvetaeva ha percepito la soglia dell’esilio, mal vista dal regime staliniano, anche nella fervida Parigi di quegli anni, conoscendo lo status abissale di profuga, come un giorno randagio.

Una creatura al bando, quindi, che rafforzava in sé la poesia della negazione e dell’assenza, frequentava una sua zona d’ombra peculiare, senza etichette, senza riferimenti a tendenze di scuole o politica.

La ribellione che scava la rabbia, come le sue invettive o satire, indizio di un tormento e di una lucidità sconosciute nel decifrare la sostanza del presente.

Non conosceva maschere anche nella pacificazione la sua anima guerriera, rivisitava la storia, percepiva la concretezza del reale: «Per tutta la vita, di seguito, ho inondato d’amore le persone sbagliate, quelle che nel mio mondo [«l’unico che io stimi»] erano più piccole, deboli, impari. In modo assoluto nella mia vita sono stata amata solo da lontano…».

La disperata vitalità di unire gli spazi, di possedere la ricchezza primigenia della lingua, di comporre una partitura di lenta e profonda purezza: «Il mio libro deve essere eseguito come una sonata. I segni sono le note. Sta al lettore realizzare o deformare».

Scriverà suo marito Sergej Efron: “Gettarsi a capofitto nell’uragano è divenuto per lei necessità, aria della sua vita. Chi sia oggi la causa scatenante dell’uragano – non importa. Quasi sempre (oggi esattamente come prima), anzi, sempre, tutto è costruito sull’autoinganno. Una persona viene inventata, e comincia l’uragano. Se la nullità, la mediocrità della causa scatenante vengono scoperte presto, Marina si abbandona a un’altrettanto uraganesca disperazione. È una condizione, la sua, che si allevia solo con la comparsa di un nuovo amore. Cosa – non importa, importa il come. Non la sostanza, non la fonte, ma il ritmo, il ritmo indemoniato”.

La sua etica del rigore e della rinuncia, la profondità di un canto di terrore e forza che emerge dal suo fondale si rivela inflessibile, percepisce la vanità delle cose in una penuria di attimi e vitali impressioni: «…forse, la vittoria vera/ su tempo e gravità: passare/ senza lasciare tracce, senza/ proiettare ombra…».

Raggiunge l’intensità nella concretezza dei tratti quando respira la sua condanna, quando vibra la lontananza della sua anima dai processi vitali, quando prosciuga la sua voce,  addensandola nel limite.

Il dono della sua parola è un crinale di intensità e corpo a corpo con la miseria. Nella sillaba si trova la sua origine esistenziale, il suo pronunciamento, la sua scansione.

“La poesia di Marina – diceva la grande Anna Achmatova- comincia sempre con un do di petto”.  Una ferita dentro il do di petto.

E l’atto poetico rinviene la sua autoauscultazione: «Do ascolto a qualcosa che risuona in me costante ma non uniforme, ora dandomi indicazioni, ora ordini. Quando indica, discuto, quando ingiunge obbedisco…» e ancora «la condizione creativa è quella dell’ossessione. Finchè non cominci – obsession, fino a quando non finisci possession».

Il ritmo, le sue unioni, il suono del senso sono i suoi trascorsi, le sue tracce d’indagini che non chiudono il discorso poetico, anzi lo celebrano, lo lacerano nella intensità che dilaga.

Il suo dolore, la sua anima vibrante percepiscono la sperdutezza dello smisurato, dell’eterno inciso, dello slancio forte e ferito: «Vivere vuol dire tagliare e infallibilmente sbagliare e poi rattoppare – e nulla tiene (e nulla ti appartiene, e non si tiene più a nulla…). Ogni volta che cerco di vivere mi sento una misera sartina che non confezionerà mai niente di bello, che riesce soltanto a far guasti e ferirsi, e che lasciando all’improvviso tutto – forbici, pezze, rocchetto – si mette a cantare. Davanti a una finestra dietro la quale piove in eterno».

Questa è la sua anima che percepisce l’assolutezza, il richiamo del sogno eterno, la doppiezza dell’atto affettivo.

In questa materia esiste l’abbandono, la sospensione del canto, la memoria della sua fragilità splendente.

La sua nudità davanti alla realtà, l’andirivieni dei suoi suoni s sono la sua ferita regale, l’impronta del suo prodigio.

Non è solo disagio Marina, è fertilità della terra che chiama, è cuore che batte nella penombra. Nella sua lezione di pensiero e dimenticanza c’è tutta l’ampiezza della nostra domanda: «…Leggi – di ranuncoli / e papaveri colto un mazzetto – che io chiamavo Marina/ e quanti anni avevo…Solo non stare così tetro, / la testa china sul petto. / Con leggerezza pensami, / con leggerezza dimenticami».

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