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L’assenza e l’ombra: Mark Strand

«Aver amato come accade nelle ore vuote del tardo pomeriggio; lasciarsi andare e concepire un viaggio che alle spalle non lascia traccia di se stesso; affacciarsi dalla casa e vedere una figura che si piega in avanti come per opporsi al vento anche se non c’è vento; vedere i cappelli della gente in paese, gettati via in momenti di passione, sparsi per terra anche se la terra non la si può vedere. Tutto ciò nella vaga luce che ingiallisce, che si fa fioca nell’ora che precede il buio; niente di questo ha valore se non per il piacere che produce, ingigantendo un istante e in fin dei conti facendolo apparire come se fosse vero. E anni dopo imbattersi nella stessa scena – la figura che si piega allo stesso vento, gli stessi cappelli sparsi sulla stessa terra che non si può vedere».

Scrive così il poeta americano Mark Strand (1934), di origini canadesi, nel suo ultimo fulminante libro di prose dal titolo Almost invisible, uscito da poco negli Stati Uniti.

Questo passaggio reca luce non solo sull’immagine modellata come un fascio di passaggi e paesaggi, ma anche sull’essenzialità delle situazioni, degli oggetti e focus di sguardo e visione.

Premio MacArthur Fllowship, Pulitzer nel 1999 e poeta laureato, Strand è espressione di un gesto poetico che stanzia i suoi confini tra gli eccessi di ombra e luce, laddove l’aneddoto biografico, la dedica, le immersioni nel buio, manifestano la tensione verso una strana disarmonia e una caccia di istanti.

Attraverso un’istanza con forte eco leopardiana, egli va a caccia delle ombre, delle assenze riformulate, delle confessioni pastorali.

La sua confessione si richiama alla classicità accesa di Teocrito prima e di Virgilio poi, frequenta certa poesia accesa del ‘600, affermando la sua illuminazione e il suo tracciato antimimetico.

È come se il paesaggio della sua anima manifestasse e dichiarasse apertamente una esclusione vibrante, come scrive Luigi Sampietro su Il sole 24ore, in una interessantissima recensione alle poesie di Strand, apparse qualche anno fa per Mondadori: “è un detective metafisico che si sofferma sulle tracce di chi – o di ciò- che ora, qui, è assente e non si vede, ma che deve pur esserci o esserci stato. V’è un lato enigmatico, per non dire enigmistico – oltre che, ben inteso, umoristico, – in taluni momenti della sua poesia”.

I suoi paesaggi e i suoi spazi, come i campi, i panorami e diorami marittimi e montani, rivelano una struttura compositiva sommersa e racchiusa in un punto di fuga che consuma il destino delle scene e degli attori della sua pagina: «Da qui sgorga la poesia: abitiamo in un posto/ che non è nostro, e, soprattutto, non è noi».

Ecco l’esito di una via vera e reale. L’esclusione e l’assenza riflettono il moto umano, come «i colori che svaporano»: «In un campo/ io sono l’assenza/ del campo. / È/ sempre così».

L’assenza che si fa prospettiva, come l’avvenimento dei quadri Edward Hopper o le incisioni di M.C. Escher, grande incisore olandese di distorsioni e prospettive, colorano un’illusione che permette la dilatazione dello sguardo e il rovescio della sua avventura.

Scrive Rosanna Warren: “il protagonista di Strand è un “io”, un personaggio che si sottrae al paesaggio. È una poesia semplice come un teorema, eppure inesauribilmente misteriosa. Come interpretare la reiterata auto asserzione (…) che cancella il sé? Forse l’ “io” è incorporeo come l’aria di cui prende il posto (…) nel suo connubio di astrazione filosofica e linguaggio americano contemporaneo, il poema modula e incarna la riduzione che onora, spostandosi da un “campo” a “campo”, operando espansioni e contrazioni minime alla lunghezza dei versi e consegnando il proprio vuoto all’aria, perché lo riempia dopo ogni strofa”.

La natura mitologica del suo pensiero rivela il rovescio che abita lo spazio poetico del simbolo, giacendo nella separazione, come l’io che rinuncia, uscendo da sé e fermandosi sui detriti di ciò che resta: «Mi svuoto dei nomi degli altri. / Mi svuoto le tasche. / Mi svuoto le scarpe e le lascio sul ciglio della strada», o ancora «Adagio esco ballando dalla cassa in fiamme della mia testa. / E chi non è nato e rinato di continuo in paradiso?».

L’io, che sta «diventando orizzonte», solca il suo respiro tormentato e spezzato, come un rito di assenze tremanti.

La realtà, collocata sulle impronte sparse del metafisico, regola il tempo che sfugge ai suoi contorni definiti e definibili, e rende il suo magma ipnotico, diretto, fortemente evocativo.

L’evocazione è vigoria di respiro; respiro cosmico e malinconia di circonferenze espressive, che mostrano la loro ambiguità e la loro caduta: «Dove stava scritto che una sera così si sarebbe dispiegata, / oscuramente incidendosi ovunque, o per quel che importa, dove/ stava scritto che io sarei rinato di continuo in me stesso,/ come sto facendo perfino ora, come ogni cosa in questo attimo, / e avrei sentito la caduta della carne nel tempo, e l’avrei sentita volgersi / silenziosamente, adagio, come se stesse rimettendosi nel verso giusto?».

La connotazione orfica del paesaggio strandiano è capace di soffermarsi sul crinale di un confine, lo abita, sostituisce le ombre con il vertice della descrizione di senso, con il colloquio con un elemento che risplende: «descrivere gli occhi di lei, / la fronte su cui si stendeva la luce d’oro della sera, / la curva del collo, il declivio delle spalle, ogni parte / fino giù alle cosce, ai polpacci, lasciando sgorgare le parole, come suscitate dal sonno, controcorrente, alla deriva, / contro il volere dell’acqua, dove ogni affaticarsi/ condannato e futile».

Il paesaggio insegue la sua perdita e cerca la poesia che compie il suo atto vivente e il suo sacrificio nella prospettiva dell’azione: incorporea, evanescente, scomparsa.

Nella estemporaneità lirica il fasto della poesia coglie la grazia di un’ altezza splendida, promuove il canto estraneo delle cose, ma non si annulla, anzi rinviene i processi della sua nascita: «venne in una lingua / non sfiorata dalla pietà, in versi, oscuri e fastosi, / in cui la morte è rinata e inviata nel mondo come dono, / così che il futuro, privo di voce propria e di speranza».

La sintassi, come la sua anima percorre il mito e le sue istanze, il corpo della poesia con il vagabondaggio offuscato che avviene, come un passo avanti al buio.

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