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Le impronte di Ewa Lipska

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La sonora lucentezza di Ewa Lipska (1945) è una cortina di randagie falde interiori, i cui versi, a volte, «sono come cani abbandonati / che abbaiano alla poesia». Leggendo Il lettore di impronte digitali e altre poesie, edito da Donzelli, a cura di Marina Ciccarini ma uscito in Polonia nel 2015, si assiste alla restituzione della poesia, come afferma Roberto Galaverni, «alla sua necessità e integrità, alla sua esattezza […]».

Nata a Cracovia nel 1945, diplomata all’Accademia di Belle Arti di Cracovia, ha esordito come poetessa nel 1961, dal 1970 al 1980 ha lavorato presso la casa editrice “Wydawnictwo Literackie”, dove cura le collane di poesia.

Poi dal 1991 al 1997 ha vissuto a Vienna, ricoprendo l’incarico prima di vicedirettrice poi di direttrice dell’Istituto Polacco di Cultura. Negli anni Ottanta ha anche collaborato con la rivista letteraria “Pismo”.

Vincitrice di numerosi premi letterari, tra i quali, il Premio della Fondazione Kościelski di Ginevra (1973), il Premio della Fondazione A. Jurzykowski di New York (1993), il Premio Naim Frashëri (2010) e il Premio Letterario della città di Gdynia (2011), è una voce importante e nota in patria, tradotta in numerose lingue, e

«ha un rapporto del tutto originale con la contemporaneità che accoglie e asseconda ma da cui in qualche misura prende le distanze, quasi a volerla percepire con maggior forza e accuratezza da un diverso angolo visuale e temporale. Fin dalle liriche dei primi anni, infatti, il suo linguaggio rompe gli schemi mentali con cui siamo abituati a classificare le cose, a registrarle e talora anestetizzarle nella nostra coscienza. Affronta i temi della morte, del dolore, della solitudine, dell’amore, del caso e del destino lasciando trasparire il vissuto interiore con la massima precisione, proprio come accade quando da una lastra fotografica l’immagine nitida, emerge lentamente, senza fretta, con qualche iniziale incertezza». (Marina Ciccarini).

L’esattezza, la descrizione minuta e minuziosa, il pulito affioramento richiedono un transito di colore e suono che possa inseguire la fuggevolezza magmatica dell’essere, la sua indefinibilità indicibile, il passo segreto delle cose.

Piotr Matywiecki scrive:

«La poesia di Ewa Lipska si distingue per la sua immaginazione insolitamente vivace. Con sorprendente disinvoltura nel suo mondo si può paragonare una classe scolastica alla storia dell’umanità, il traffico stradale al moto della mente, una malattia a un avvenimento pubblico. (Questo è anche il “metodo” poetico della Szymborska). Si avrebbe voglia di dire la Lipska è una poetessa sociale nel senso che non c’è per lei niente di intimo che non sia al tempo stesso quotidiano, formulabile sociologicamente».

È la vita che si impara, appartiene, riporta ferite e spaccature luminose, cadute e occhi in gioia. Il suo accadimento è il compito e l’avviso della poesia, che ravvisa nella chiarità, il suo indizio invincibile e la sua promessa di eredità:

«Morbida flanella / dell’infanzia / quando il Tempo Assoluto di Newton / non ci rompeva le scatole. / Imparavamo a contare. / Sommavamo / dita ancora / analfabete. / La sottrazione / già apparteneva ai morti. / Ricordi la sicurezza di sé? / La prima della nostra classe. / È finita miseramente / nel dizionario dei sinonimi. / Ci abituavamo a quello / che gli altri chiamavano vita. / Ogni giorno lo stesso panino / imbottito con ali di foglie. / Una droga pesante. / Tutto era come in prova / ma ci entrava nel sangue. / In soffitta si asciugavano / le istruzioni per l’uso. / Sottovoce elencavano / i nostri nomi. / Forse qualcuno / ci cambiava spiccioli» (La vita).

L’obbedienza alla realtà è il funambolico compito di segni e cifre che cercano l’occultata bellezza del mondo, che si fermano per scoprire e riaffermare l’esiziale domanda di ogni rebus, di ogni particolare cadenzato, che obbliga a un vincolo e un legame, in cui far confluire l’impervio flusso della nostra umanità e la nostra scoscesa distanza che si allunga protesa:

«Forse era un sogno / Il motore della sofferenza ululava / sempre alla stessa ora. / In mezzo al nostro amore. / Qualcuno usciva. / Qualcuno entrava. / Cene cifrate. / Segreti sotto il tavolo. / Il rompicapo / non finiva / con la Luna piena. / Ci stupivano / i puzzle delle città / e l’enigma del mare / che sputava una bottiglia / con un grido d’aiuto. / Sempre alla stessa ora / tornava la sciarada. / Con una ciarliera combinazione di lettere. / Ci interrompevamo a vicenda / parlando / degli stessi argomenti. / Il mondo / in cui vivevamo / si chiamava Rebus / e se ne infischiava delle nostre domande». (Rebus).

Il suo gesto poetico, allora, sembra racchiudersi in un banchettato volo di promesse e attese. La sua radura di felicità si predispone nel chiasso della vita che pulsa, nell’agone infinito e conciso che ammara nella decisività, nell’incisione dell’anima («Sempre gli stessi marmocchi / da scarabocchi di cortile / i cui bordi / ardono / in singhiozzi convulsi»), nel tempo sicuro di ciò che si afferma.

In queste pagine, non solo si dichiara un lungo e intrecciato tessuto di immagini, attinte nella nevralgica zona d’ombra del reale, rilasciate con severa paratassi e definitività nominale, ma ci sono tracce di vita premuta e impronte digitali che

«consentono l’identificazione degli esseri umani, e il «lettore» è quello strumento che le rileva, le elabora e le riconosce, che va a cercare le cosiddette «minuzie», cioè tutti quei punti dove le linee si interrompono o si biforcano, facendo apparire un’immagine dell’impronta che, in questo modo, diventa una mappa di punti che vanno a definire le coordinate della nostra identità fisica, unica e senza eguali». (Marina Ciccarini).

La realtà virtuale, quindi, rappresenta una traslazione di significato. Chiamiamo contatto qualcuno che non tocchiamo fisicamente, racchiudiamo il nostro mondo in una porzione chiusa dall’interno, annulliamo il mistero dell’essere e dell’esistenza socchiusa, perché «nella clinica della folla / ci sentiamo più sicuri».

La stessa qualità dei rapporti, delle relazioni e degli sguardi rappresenta la fuga illusa di una squarciata solitudine, come l’anonimia di ciò che l’immaginazione imprigionata dispone nei suoi angusti rifugi, fino all’assenza di confronto, alla dittatura del parere, all’intolleranza e all’inimicizia con la realtà, non permettendo così l’accrescimento dell’anima concentrata e contemplativa, in preda alla velocità disattenta, e quindi ora, ripiegata.

Ma non è un giudizio ciò che l’autrice rapprende, bensì uno sguardo liminale e antifrastico che combatte l’edulcorato sentimentalismo di un documentario sterile che raggruma il male di vivere, come «un amore senza corpo, un amore senza contatto». (Roberto Galaverni):

«Poggiamo un dito / sul lettore di impronte digitali / e iniziamo ad amarci. / I nostri file virtuali di corpi / in album / blog / in taccuini di conoscenti. / Nuovi eventi. / Nuovi mi piace. / Piacciamo alla Coca-Cola / a Ronaldo e al Papa. / Siamo già / nei contatti / e nelle notifiche. / Il nostro letto / nel diario. / Toccami / e tieni premuto. / Ci baciamo / con miliardi di bocche» (Il lettore di impronte digitali).

L’impronta, la traccia generata, è il nostro segno indissolubile. Ma è anche il compito dell’arte e della poesia, legata a ciò che Mario Luzi chiamava «fisica della realtà» e, nella poesia di Ewa Lipska, afferma Roberto Galaverni, «l’idea della vita e della poesia come impronte digitali, cioè come punto d’intersezione tra individuo e specie, tra singolarità e proprietà comune, entri in cortocircuito con un sentimento d’inconsistenza e di evanescenza della realtà, dei volti individuali, dei rapporti interpersonali, delle percezioni, dei sentimenti, delle parole».

L’attitudine di Ewa Lipska si dichiara attraverso la predilezione per ciò che, solo in apparenza, risulta contrastante, ossimorico, contraddittorio. La sua tensione è sì una lotta puntuale e distinta contro ogni indefinibile astrazione e disumanizzazione («Il dio di Internet / rammenterà le parole: / “i suoi occhi vedono / e osservano”. / L’emorragia del mare / come sempre / finirà con un diluvio») ma è, allo stesso tempo, lo sguardo fertile e fecondo verso uno spazio, visitato da mille traiettorie, in cui il destino destina segni e avventure, e in cui la datità acquista corporea concretezza, oggettualità divenuta umana con novità di attribuzione, unendosi e mescolandosi, senza censure con il limite, il dolore, il tempo scarno e obliato: «Portiamo in vacanza il passato. / È notte. La navigazione torna / ai vecchi tempi. Incrociamo chiazze di date. / Storie da non smacchiare. / La musica non alza la voce. / I nostri corpi nei confini del senno. / Stiamo benissimo. Vediamo la tempesta / ma non la sentiamo. Come nei film muti» (Le targhe).

Marina Ciccarini spiega:

«Questo modo particolarissimo di descrivere la realtà che ruota attorno ai due interlocutori si fonda su un meccanismo poetico originale che trasforma proposizioni logiche irreversibili – secondo le quali, ad esempio, la parte non è uguale al tutto, ciò che è analogo non è uguale – in proposizioni simmetriche, quindi reversibili, nelle quali la logica standard fatta di cause ed effetti si sovverte e il tutto diviene uguale alla parte, ciò che è analogo è anche uguale. Nella paradossale e folgorante simmetria di proprietà che riguarda ogni essere vivente e le sue specificità si palesa insomma una nuova complessità dell’esistenza. Nel gioco pirotecnico delle assimilazioni remote, dell’unione dei simili e della corrispondenza tra tutto e parte emerge infatti un universo in equilibrio in cui gli opposto non si contraddicono e i diversi non sono separati».

È uno sguardo che si allunga sull’enigma, sopravvivendo al futuro in transito, come pigrizia che manca di parti vocali, mentre i progetti ora hanno sapore di uragano e le parti dell’amore sono «L’utopia della sciarpa che / mi hai avvolto attorno al collo».

L’intensità del vivente pulsa nella memoria ricreata ed eccedente del tempo stretto e infierisce come un suono di luogo, trafitto sulla punta della lingua, sotto la tenera narcosi del cielo, dove gli amanti, felici per sempre, nonostante l’incombenza del lutto geloso, «Della morte sputano / soltanto il nòcciolo»: «Questo luogo si chiama amore dico. / Non mi viene in mente / nient’altro».

Oppure dove incombe un amore gelido, un tempo friabile che spacca il ghiaccio, quando morde la solitudine che non ha corpo e volteggia sopra di noi come un abisso aperto («Ci spogliamo. / Ci facciamo un caffè. / Tiriamo fuori una bottiglia di bourbon / e ci guardiamo / dritti / nell’abisso»): «La solitudine non ha corpo. / Neppure quando ci abbraccia. / È ingannevolmente vuota. / Come una scatola senza più pensieri. / Volteggia sopra di noi / come un aereo da ricognizione. / Scampata per miracolo / alle ruote dei defunti / è ciò che non dovrebbe essere».

L’indefessa indagine nelle linee del reale non ha sintesi ma epifania inusuale e disarmata, che, a volte, soccombe sotto la ruvida inconsistenza del vuoto: «Sono usciti. Non sono tornati. / Sul tavolo mandarini. / È finita la stagione della vita. / Sul muro / affiorano le loro immagini» (Sono usciti. Non sono tornati).

È il congedo fino all’ultimo respiro. Esso congiunge sfere sensoriali diverse e percezioni, («Nel telefono della conchiglia marina / un fruscio elettronico»), fino all’amore elevato a potenza, e mancanza vivissima e nomade che avverte lo screziato disgiungimento delle epoche, i rigidi precipizi tra l’occhio incrinato del tempo e le generazioni:

«Sempre meno testimoni / potrebbero confermare / che questa era una vita / con una fabbrica d’amore. / Che questo era un paese. / Una strada. Un numero. / Un vento che spargeva schiuma di latte. / Che erano ragazzi / di un’altra dimensione. / Ragazze a sirene spiegate. / La storia rendeva / false testimonianze. / Il tempo si scostava dalla verità. / I morti si sono avvalsi / della facoltà di non rispondere. / Gli eredi / non hanno chance» (Testimoni).

La forza assiale della sua poesia risiede in una lontananza visitata e orante che schiude visioni ed evento, lesioni e salti in cielo che scandiscono un tempo originario e implacabile, che cancella le rincorse e gli affanni dei nostri incontri pirotecnici, alla ricerca di un artigiano, un orafo, un meticoloso orologiaio che sia stato complice della creazione del mondo, dove la vita possa divenire «una pesante misura preventiva / contro la morte»: «Giuravamo a noi stessi / che sarebbe stata l’ultima volta. / Ora torniamo / nello stesso posto. / Un aeroporto invaso da erbacce. / Il cielo si congiunge alla terra. / Rudere della parola. Relitto del vuoto. / Guardiamo / come si avvinghiano le nostre braccia. / Ma noi / siamo già lontani».

L’approdo di Ewa Lipska è un occhio-volo sul mondo. Sorvolato e ingrandito dal limite, però lontano da ogni paresi sentimentalistica. Si ributta, allora, nella mischia vivente, con una domanda accresciuta e inesausta, rilasciando la sua impronta impossibile:

«A volte sei bello. Un vestito cosmico. / Un guardaroba celestiale di paesaggi. / Del tuo corpo si occupano gli eruditi. / Gli studiosi di elementi. / Qualcuno prevede sempre la tua fine. / Non hai parenti stretti. A chi / lascerai tutto questo? Pianeti ficcanaso / forse ne avrebbero voglia. / Sei eterno? L’odore / della stagione morta lo nega. / La menzogna a volte ha ragione. / Ce la farò senza di te. / In fondo non mi hai promesso nulla. / Non so nemmeno / se è la storia che ha creato noi / o se noi abbiamo creato la storia. / Se siamo solo l’eco / di un cuore altrui» (Il mondo).

LIPSKA E., Il lettore di impronte digitali e altre poesie, a cura di Marina Ciccarini, Donzelli, Roma 2017, pp. 96, Euro 15.

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