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Le Stazioni di Eugenio De Signoribus

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Il nuovo libro di Eugenio De Signoribus (1947), Stazioni. 1994-2017[1], edito da Manni, compone il volto di un’elegia minima ed esigua che si origina nello sguardo incisivo e penetrante di una galleria di eventi e stazioni che riflettono sì un’epica quotidiana, ma che si porgono all’esterno attraverso micro-eventi, come scrisse Giovanni Giudici[2], dilatati e franti, vissuti nella pena e nello strappo, nella perdita e nella solitudine strozzata del  mondo inospitale.

Ma questi passaggi testimoniano anche la disposizione di un ordine pudico che riconosce, come afferma Nicola Gardini:

«un’ispirazione luttuosa che si mantiene coerentemente, pervicacemente tesa. Il poeta guarda l’oggi e trova il vuoto. I maestri sono spariti (Paolo Volponi, Giovanni Giudici, Giorgio Caproni, Mario Luzi); gli amici sono lontani. Il poeta è solo, e della sua solitudine vuole che diventiamo testimoni. Eppure parla a e da una comunità; una fratellanza – forse cristiana, certo leopardiana – fa da presupposto necessario al suo dire, ed è una simile illusione di fratellanza la dimensione più vitale e più commossa del libro. […] Che cosa è sparito, a parte gli individui? Che cosa si è perso e non si lascerà sostituire? Difficile trovare un termine per un sentimento di mancanza – il centro nervoso del libro – che si rivolge più a quel che non ci sarà che a quel che è stato. Si avverte, infatti, la perdita non tanto del passato quanto del futuro. E la speranza, che è ineliminabile pensiero del futuro, si rattrappisce subito in immagini di insipienza abortita o ignara del fato, seppure talvolta identificata con spettri benevoli e pacificatori, come i bambini della prima parte: reincarnazioni di tutta l’infanzia migliore della tradizione, dai pueri aeterni del mito ai garzoni recanatesi ai ragazzini di paese, vivaci del loro semplice esserci».

La presunta “inermità”, vissuta come mancanza, dunque, in cui la sua tavola picena definisce lo squarcio ombroso dell’essere, che ricerca lo spazio vivente e la voce plurale ai confini, all’intenso squadernarsi dello sguardo, laddove la registrazione degli eventi rappresenta l’ultimità della tensione sovra-cercata degli affetti e lo stupore morale, gli scorci non ancora sigillati oltre la nuda aria marina, l’estremo sipario delle tracce delle scene domestiche e feriali e, infine, la bambinesca grazia:

«La casa della nascita nel tempo / al guscio di una noce si riduce / e a una voce spersa nella muffa / dei muri e agli occhi presi nella zuffa / di luminelle alle finestre rotte / oltrepassare non si può l’invisibile / barriera della mente quando ha fine / la tolleranza di sé e un disamore / sui confini adriatici s’avvita / o al rimpianto s’attira a calamita / in punti rari la vespertina luce / tuttora sa di more ed incornicia / scorci non ancora sigillati / o per finto decoro illuminati / oltre la nuda aria marina… / quando d’inverno la bufera sfrena / fragoroso fa il mare contro i moli / risucchiando ogni cosa senza pena… / ai suoni soli del discorso acquoso / anche la vista presente si scornicia / tu vedi allora calpestando il verde / vomito del mare come era prima / la natura del luogo: bianche le braccia / aperte e in ascolto e in sé raccolto / il corpo felino della madre».

Il dettaglio di De Signoribus, che lambisce i poemetti e le sezioni del libro come portali, è il documento che incide l’esistenza di reperti e detriti, attraverso il respiro fragile e deperibile sulle mutazioni violente. Farfuglia il ricordo del tempo attraverso la sghemba scalfittura delle sequenze tra le finestre illuminate e cieche: «Solo forse una persona resistente alla solitudine / e al timore di quel vuoto notturno. / Più indulgente la cappa del cielo / con venature giallo chiare sparse qua e là: / macchie d’estivi vapori che, rabbrividendo, / si estinguono».

De Signoribus avvolge gli stracci di storia vissuta come una nascita arcana e tagliata, l’ordito dei frantumi e delle sfumature, le partiture dei suoni, le presenze assorte, la traduzione della memoria in parola e il disegno infinito del ritmo dell’esistenza.

La luminescenza (e numinosità) della realtà diviene l’esito di una contesa, in cui la parola è radiazione e resistenza, al tempo stesso, di una finitudine rappresa:

«Sotto quello squallore ancora parlano / gli orti d’un tempo / con le loro perfette cromature stagionali. / Ancora parlano… ma con il rantolo di chi soffoca / e ancora respinge l’aggressore / con l’impotente sommossa della propria beltà… / Qualcuno sente lo schianto dei meli? / E lo sradicamento dei filari di vite? / E la resistenza delle canne e delle tamerici / ai confini col mare? / I vecchi e i bambini guardavano ammutoliti / lo scavo profondo delle pale fino al ventre / acquoso della terra… / guardavano chiudere quelle voragini / con coperchi di cemento / e poi salire le colonne ferrose sempre più in alto… / I vecchi confidavano nel mare, a pochi passi: / presto si sarebbe sollevato e rimangiato tutto!… / I bambini sbirciavano in esso un moto / più misterioso: / un drago che sorgesse improvviso / dalle onde schiumose / e sbriciolasse quei mostri come torri di sabbia» (parlare ancora).

Daniele Piccini, a tal proposito, scrive:

«Un libro di frantumi, brani, spigolature, eppure costituito in unità, in struttura, avvinto da un respiro: così si potrebbero descrivere le Stazioni del marchigiano Eugenio De Signoribus, da poco edite da Manni. Sono per l’appunto scaglie, episodi, sgorghi occasionali, che però l’autore riscrive a distanza e monta in una intelaiatura […] Le occasioni esterne sono per un poeta un modo per restare all’interno del proprio discorso, costeggiandone i bordi, i confini. Così è per De Signoribus, che usa gli spunti civili e politici che ispirano vari testi (dalle elezioni del 1994 al G8 di Genova ai drammi ambientali) per abitare con più insistenza e travaglio che mai la propria parola appuntita e sghemba, desolata».[3]

Le sedimentazioni materiche della forma e della lingua condividono solo apparentemente il segreto di un’inerzia, mentre, invece, ascendono a una liberazione e a una rivelazione che se da un lato, divengono l’indizio fulgido dell’appartenenza, della socialità solidale[4], della identità dialogica, e del colore oro della meraviglia, come rapina della bellezza, dall’altro avvertono tutta la spossata malinconia del margine nero dell’orrore e il colore ottuso dello stupore infranto:

«Secondo un archetipo di chissadove e chissaquando, / la meraviglia ha il colore dell’oro. / Solo il creatore ne sa la ragione… / Ma solo chi ha un cuore puro può provarla. / Per primi i bambini. Essi comprendono subito / la rapina del bello e del buono… / e si agitano e dicono e insistono e stradicono e tirano / la madre per un braccio e per la giacca il padre… / finché non arriva uno strillo, uno strappo, un ceffone… / I bambini umiliati / sono soli davanti alla meraviglia dell’universo. / E sono soli davanti alla sua distruzione» (meravigliarsi).

La forma-luce degli inseguimenti ha un dispendio di spasimi, che ricercano redenzione, pur nella materia ultima e irredenta delle cose, percorse dalla finitezza e dallo splendore perduto, dalla sfinitezza, dalla morte, dal grido e dal vuoto. Ma qui si avverte un incanto creaturale quasi immacolato, un moto verso l’inconnu, un varco che non sia solo illusoria disposizione dell’anima:

«Ogni tanto, qualcuno di quell’immane schiera / s’incanta nel blu violaceo della nostalgia / o incappa in una mutevole nuvola bassa e oscura… / Càpita soprattutto dopo un grande dolore / o una violenta scossa, quando il vivere che resta / non può più essere preda della vanità… / Allora c’è qualche speranza che prenda forma / un sentire creaturale / un moto verso-prima, dimenticato o sconosciuto… / Mentre cercano un varco, i rinnovati al sì / hanno gli occhi dei figli / e lanciano sguardi aguzzi come canne / o sono velati di compassione. / Cercano di rientrare nel loro primo tempo / e vedono l’oltre, la fine. / Si stringono la testa tra le mani».

Nella sghemba faccia del mondo, nel dimesso confronto con l’essere, nella riconosciuta frontalità delle cose, il pensiero poetante sembra essere recluso nella asciuttezza, nelle corse in silenzio, come un nimbato inseguimento verso ciò che permane, si afferma nella petrosità, diventa un “tu” che si personifica e si riformula in una scena attonita e onirica, aperta verso se stesso e l’esterno.

Come accade nella fulminea e rinascente Lettera verso l’alba, che l’autore afferma essere un’invocazione «libera nella sua necessità di quasi preghiera. Il nuovo Abele rappresenta una figura di salvezza. È colui che riesce ad attraversare la storia, tra le innumerevoli tragedie e ingiustizie e inganni, e precipita e risale, esempio di resistenza al male: è il testimone della speranza[5]», come affido di incompiutezza:

«sei / l’essere che mi fa essere / il giusto a cui affido / la mia incompiutezza / la sferza del vero e la carità / il punto focale della fotografia / che mostra la croce temporale / l’interna via da risalire / le parole da riseminare / sei / il destinatario che dà vita al mittente / l’ascolto vasto dell’esistente / lo sguardo gentile dell’altro / la musica che snuda e commuove / la voce che dà voce / la neve che annulla il fango / il chiaro che irraggia il mondo / oltre il suo volto feroce / sei / e perché tu sei resisto al dolo / alla pena di facce disanimate / alla rabbia di menti dissennate / che del pianeta fanno ferro e fuoco / e perché in te vive la pietà / e spera l’inerme umanità / il cui dolore scompare nello scempio / dei beccatori d’anime e moneta / sei / e nel tuo segno piango chi è caduto / e lo sconosciuto che è solo nell’oscuro / e ho memoria di chi è stato e muto / ora è ombra sul muro / e perché tu sia io prego, / idea vivente, custodia e asilo, / esempio dell’umano resistente, / testimone dell’evo sconfinato».

Il testimone della realtà è nudo. La poesia traduce le sue tavole di memoria e malinconia nel presentimento. Il tessuto del reale cresce nell’impegno civile che trema nelle sponde sotterranee, che vede il registro corale (i famosi «restanti umani») farsi pena di istmi e chiuse.

Ed ecco che, come avviene nella Tavola genovese che racconta il G8, la nascita lessicale scruta l’allarme, la bassa feritoia dei frammenti, la possibile reclusione di ciò che strazia, poiché «La poesia esprime, di fatto, una condizione di inermità: l’unico combattimento è con la lingua poetica, che deve essere pensata, attesa e inventata, per superare l’epoca, per resistere. […] La poesia  ha bisogno di corrispondenza. Ha bisogno di interlocutori. Magari uno, o una sua proiezione, eticamente forte, il cui riconoscimento puntella, fa vivere, la sempre più indistinta presenza del poeta nel caos agonistico di questo evo[6]»:

«La milizia che assedia i vostri passi / troppo alati nei tempi materiali / vuole cancellare ciò che resta / d’un’idea oltre l’imbrunire… / da una lanterna dismessa, l’in voi / vivente, l’inconsistente che in voi / ritrova corpo e cera, / rilucida la sfera e la riaccende / mai più si spegnerà – è la promessa – / l’invisibile fiamma che respira / dentro i muri e smuffa e smuove / il cieco stato del morire…».

La biografia di De Signoribus innerva lo sguardo che si spinge verso l’oltre, rabbrividendo, si forma nella trasparenza e nella coltre dell’identificazione. L’io è plurale, vive della sua inquietudine motoria, come ha scritto Andrea Cortellessa a proposito di Memoria del chiuso mondo:

«Per questo, «Io» si declina co­me ronda: soggetto appunto plu­rale, che si caratterizza per un’in­quietudine motoria ‑ cioè lingui­stica ‑ la quale non fa altro che muoversi sul posto (sempre giran­do, cioè, attorno allo stesso luo­go). […] Di fron­te all’aperto di un mondo esploso, non più ricomponibile, si rinserra nevrotico il «civile occidentale»: «nel fortino abbarbicato», nel «rinchiuso formicaio» del suo «chiuso mondo». Quel rimpicciolirsi del tragico (nella cantilena di ot­tonari, nei diminutivi a pioggia), dolente memoria delle Ariette del Golfo di Fortini, giustapponeva alla tragedia universale un ostina­to infantilismo, quasi uno spet­trale pascolismo di ritorno; ma era riduzione necessaria: i «cento occhi bambini» avevano davvero ‑ scriveva Andrea Cavalletti ‑ un «carattere dialettico»: nello «sve­lare il contegno dell’assassino».[7]

La deviazione della nostalgia, lo sprotetto rannicchiarsi, la luce frontale, gli accenti memoriali ricordano Paolo Volponi, e la sua mancanza, nella stanza rasa e la casa diroccata («se m’avvio da una siepe o riva / verso il cono della stanza rasa / sosto in quella temperante luce / come un disperso della fratellanza… / vorrei lì ricostruire la mia casa»), gli appunti d’inverno presenti e costanti («nel dilaniato corpo della parola / non muore mai lo spirito / del vero, la sua unità»), Giorgio Caproni, la cui voce aguzza scuce la tela dell’immobile meriggio e la soglia del nulla senza il nulla («il tuo sguardo insegue / le distorte cavità umane / come un estremo faro / fino al confine della mente / tra il lembo ferito / e il lembo che non risponde / eppure battuto / eppure invocato…») e il gorgo di padre e figlio.

Poi Giovanni Giudici e la sua fedeltà all’essere che vive, «come la luce pupilla / che sbrilla la pura stazione / sola sulla sola soglia», Andrea Gareffi, Ercole Bellucci e Mario Luzi, con le sue insolenze subite.

De Signoribus avverte il depotenziamento storico delle feste e dei fuochi spenti d’aprile, le tragedie del terrorismo con tutta la loro letalità feroce («la storia rincorre se stessa / sull’errato sentiero / e l’umano va scalzo / e ora rivede il suo scacco / nel gelo dell’aria…»), lo smarrimento dei segni e l’Europa dispersa.

In questa vitalità riunita, «su quella soglia tra il sì e il no,  dove sta il non credente-non ateo, il non affidato al cielo né consegnato alla nuda terra. In quei territori si sposta la lingua poetica, fino al limite del conoscibile, davanti all’inconoscibile», egli osserva i moti interiori, i popoli e i bambini «vestiti di fango e polvere». Sono appelli che invocano lo sguardo soffocato e atterrito di chi vive il teatro lucente e miserabile e attende scrivendo un appiglio, un segno risorgente, la parola incarnata nel dolore, il soffio come preghiera o sequenza di esodo.

Per prendere così fiato nelle stanze domestiche come epica perentoria, nel sacro martirio, nella libertà di agire nel proprio mondo e nell’abbraccio verso ciò che è tangibile e non del tutto svanito: «non basta la sola coscienza / dobbiamo ancora chiamarci / riconoscerci continuamente / perché risorga e l’idea / e non muoia di nuovo all’alba…».

 

[1] De Signoribus E., Stazioni. 1994-2017, Manni, San Cesario di Lecce 2018.

[2] Giudici G., Per un ‘volto di poeta’, Postfazione a E.D., Case perdute, «marka», vii, 19, ii semestre 1986, pp.57-59.

[3] Piccini D., Ispirazioni sghembe: le elezioni del’94, il G8, in “Corriere della Sera – La Lettura”, 20 maggio 2018.

[4] Cfr. Zinato E., Ronda dei conversi, «l’immaginazione», xxi, 217, novembre-dicembre 2005, pp. 63-64.

[5] De Signoribus E., cit., p.28.

[6] Calanna G., «La poesia è inerme. La lingua dei versi è combattimento», in “La Sicilia”, 17 settembre 2012.

[7] Cfr. Cortellessa A., Una civile anima reclusa: Eugenio De Signoribus, in «Alias – Il Manifesto», 14 maggio 2005.

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De Signoribus E., Stazioni. 1994-2017, Manni, San Cesario di Lecce 2018, pp. 128, Euro 14.

 

De Signoribus E., Stazioni. 1994-2017, Manni, San Cesario di Lecce 2018.

Calanna G., «La poesia è inerme. La lingua dei versi è combattimento», in “La Sicilia”, 17 settembre 2012.

Cortellessa A., Una civile anima reclusa: Eugenio De Signoribus, in «Alias – Il Manifesto», 14 maggio 2005.

Gardini N., Nostalgia del futuro, in “Il Sole 24ore”, 6 maggio 2018.

Piccini D., Ispirazioni sghembe: le elezioni del’94, il G8, in “Corriere della Sera – La Lettura”, 20 maggio 2018.

Zinato E., Ronda dei conversi, «l’immaginazione», xxi, 217, novembre-dicembre 2005, pp. 63-64.