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Lettera ai giovani senza sogni…

 

 di Tonino Palmese*

Un educatore dinnanzi al suicidio di un ragazzo di circa 13 anni non riesce a sistematizzare una riflessione e una proposta. Chi educa, di fronte ad un dramma del genere avverte un profondo senso di inadeguatezza, di angoscia e perché no, di fallimento. Penso pertanto alla vicenda di Vittorio. Un ragazzo della nostra terra, precisamente di Villaricca. Avrebbe compiuto 13 anni a luglio. Vittorio era stanco di litigare con suo padre, uomo di camorra. Su Messanger aveva scritto: «Chiedo scusa a tutti quelli che mi hanno voluto bene, tranne a mio padre». E rivolgendosi al padre ha lasciato scritto: «Adesso sei contento? Non ti rompo più». La mamma di Vittorio, rientrando in casa lo ha trovato morto. Si è ucciso. Vittorio, non è riuscito a trovare «ragioni sufficienti» per comprendere e sopportare la vita e la morte di suo fratello Sebastiano. “Bastiano”, così veniva chiamato aveva solo 15 anni. Aveva rapinato la persona sbagliata  e perciò pensarono di punirlo. Il raid degenerò, come accade spesso nella guerra cruenta tra bande. Un inseguimento in una strada deserta e poi l’esecuzione. Vittorio comprende che tutto ciò è riconducibile all’esempio e allo stile di vita del padre, camorrista rinchiuso in carcere.

Ma torniamo al suicidio di Vittorio. Un educatore non può a cuor leggero fare analisi e proporre terapie. È difficile parlare sui giovani e dei giovani dinnanzi alla morte di un ragazzo. Diceva bene don Tonino Bello: «Noi ci affanniamo, sì, a organizzare convegni per i giovani, facciamo la vivisezione dei loro problemi su interminabili tavole rotonde, li frastorniamo con l’abbaglio del meeting, li mettiamo anche al centro dei programmi pastorali, ma poi resta il sospetto che, sia pure a fin di bene, più che servirli, ci si voglia servire di loro…».

Non posso parlare di Vittorio e di quei ragazzi che come lui, intraprendono la strada della morte per protestare contro la vita. Credo che il miglior modo per riflettere, sarà quello di parlare a Vittorio.

“Mio caro Vittorio, come è triste dover ricorrere a questa lettera. Sarebbe stato giusto e bello incontrarci. Sì incontrarci, non tanto con me, ma con tanti che come me avremmo dovuto stringerti nei nostri cuori e accoglierti attraverso quelle tante esperienze che nelle nostre comunità ecclesiali sono vere e proprie occasioni di convivialità e di crescita. Avremmo dovuto mostrarti un modo di essere comunità alternative alle mafie e aiutarti a comprendere che una vita diversa da quella che la camorra propone è possibile. Per tuo fratello e ora soprattutto per tuo padre. Ci saremmo dovuto incontrare prima mio caro Vittorio. Quando ho iniziato a scriverti questa lettera, mi è tornato in mente un incontro con un giovane napoletano che conobbi alcuni anni fa in un carcere del nord Italia. Al termine dell’incontro, fatto di parole, musica e immagini, tra il saluto affettuoso e riconoscente di quelle persone “rinchiuse” a scontare la condanna, un giovane detenuto mi salutò e abbracciandomi, mi sussurrò all’orecchio queste parole nella nostra lingua napoletana: <<Tonì, stamma a sentì: si avessemo nàscere n’ata vota, ‘ncuntràmmece primma ca è mmeglio p’ ‘e tutt’ ‘e e dduje>>. La normalità delle cose di quei giorni, realizzata prima, avrebbe potuto salvare quella persona.

Caro Vittorio, la tua storia ci impone una seria riflessione sul modello di vita che la camorra prospetta soprattutto alle giovani generazioni. La criminalità avrebbe voluto fare di te solo un essere in grado di desiderare e accumulare denaro e potere. Tu invece non ci sei stato e purtroppo hai scelto la strada terribile della morte.

Il giudizio di condanna che le mafie formulano nei confronti delle persone sensibili e innocenti come te, nasce da una vera e propria intolleranza verso chi desidera essere e non semplicemente apparire. Gli alleati della criminalità, gli interlocutori, anzi i destinatari privilegiati, sono tutti quelli che non sono. Masse indistinte di sudditi pronti ad eseguire e subire. Spettatori o telespettatori posti dinnanzi a stanze e studi dove le persone, soprattutto i ragazzi, vengono diseducati e alimentati con un pane diabolico, mortale e che mette attorno a questa cinica mensa pseudo persone perbene e mafiosi: Il pane dell’avere, avere e poi avere. Il tutto condito dal vuoto mentale e dalla voglia di apparire. Un progetto che ha come fine l’indifferenza e come statuto la menzogna.

Tu invece non ci sei stato. E ora tocca a noi dare alla tua morte non solo la giusta sepoltura, bensì il senso di una vita che potrà essere monito per i tuoi coetanei ed impegno per noi tutti nel realizzare comunità capaci di accogliere le domande e le speranze di tanti ragazzi come te, desiderosi di “vivere” con dignità. Mi sembra giusto lasciarti in compagnia di un santo vescovo come don Tonino Bello. Diceva: «Servire i giovani (…) significa considerali poveri con cui giocare in perdita, non potenziali ricchi da blandire furbescamente in anticipo. Significa ascoltarli. Deporre i panneggi del nostro insopportabile paternalismo. Cingersi l’asciugatoio della discrezione per andare all’essenziale. Far tintinnare nel catino le lacrime della condivisione, e non quelle del disappunto per le nostre sicurezze predicatorie messe in crisi… Rinunciare alla pretesa di contenerne la fantasia… Servire i giovani significa entrare con essi nell’orto degli ulivi, senza addormentarsi sulla loro solitudine, ma ascoltandone il respiro faticoso sorvegliandone il sudore di sangue… Significa, soprattutto, essere certi che dopo i giorni dell’amarezza c’è un’alba di risurrezione pure per loro. E c’è anche una pentecoste… Saremo capaci di essere una Chiesa così serva dei giovani, da investire tutto sulla fragilità dei sogni?». Un interrogativo al quale dobbiamo necessariamente rispondere, prima che si trasformi in un incubo mortale. Siamo sicuri caro Vittorio, che tu non vuoi che accada a nessun altro ragazzo ciò che è stato per te. Ti porto nel cuore».

*direttore ufficio giustizia, pace e salvaguardia del creato della diocesi di Napoli

 

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