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L’invito di Tess Gallagher

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Di cosa è fatta l’umanità descritta da Tess Gallagher (1943), la cui figura è legata indissolubilmente al marito Raymond Carver? Di quale buio parla il suo io, intriso del velluto delle viole nere?.
La sua scena preferisce l’a-confessionalità, la verità ignota aperta all’infinito, l’energia esplosa di un frammento di realtà, che nell’apparente insignificanza, raccoglie l’avventura umana e il suo rischio.
La letteratura che conosce il rischio e la perdita, che sussurra inviti e racconta solitudine e noia, come qualcosa che avviene e dice una stanza interiore, che si dispiega lentamente, narra rivelazioni estreme, promette incontri, come lampi bui o visioni di gioia: «Perfino gli uccelli si aiutano / l’un con l’altro. Vieni / vicino. Più vicino. / Aiutami / a baciarti».
È la ritualità della vita che sospende la quiete e risponde alla chiamata del tempo, custodendo l’istante in cui la realtà accade misteriosamente. Rilancia la sua domanda, invoca obbedienza, cerca salvezza estrema e finale, al di là del sogno: «Solo quando cominciarono a bruciare i cavalli / nell’imbuto di luce che si agitava in un punto / della prateria abbiamo cominciato a sospettare / delle nostre case, a dubitare dei nostri pasti / e dei piaceri. Ci raccogliemmo sul crinale / sopra i cavalli, sopra il fumo azzurrognolo delle erbe / mentre essi volteggiavano nello stretto vortice / della morte che li aveva raggiunti, accerchiandoli / come una luna cupa increspa l’acqua in cui si specchia. / Circondati dalle colline, / sotto l’ultimo dei loro cieli / si chiamano a vicenda per salvarsi».
L’intersezione del riflesso del dolore sullo spasmo affettivo, in cui l’allontanamento, la fine, l’incrocio con la vitale tracimazione del tempo (la morte di Raymond Carver) a permettere l’ “usabilità” dell’amore e renderlo immortale, così spontaneamente mosso: «Quando mi alzo è un pezzo che lavora / agile il suo pennello sopra la casa. / Lo guardo sulla scala sotto la gronda / e mi rivedo addormentata nel sogno / che non sono riuscita a portare fino
alla veglia. Si dorme dentro una casa / che vien dipinta e vite intere / diventano l’impronta familiare della luce / del giorno sulla pianta della preghiera. / Questo “non ricordare” è una novità di un posto dove si è stati».
È la nuova superficie della luce, le pennellate inviolate in una decade di lontananze: «Mentre la tua casa / sotto l’azione costante della sua mano / lascia se stessa e tu ti accorgi che / questa superficie di nuova luce / che ti ricopre gradualmente il sonno / ha un potere ancor più grande. / Ora pensi di aver sentito le pennellate / oppure gli spazi tra l’una e l’altra, / un movimento che ti pesa addosso / un accumulo di stelle, ciascuna notte stellata / si sistema sui tetti di intere città».
L’increspatura del tempo, con le sue tinte e i suoi intervalli, cade addosso, come una consegna di transiti benedetti: «Il senso del possesso è questo, pensi: arrivare / nell’inebriante dopovita
dell’odore della tinta. / Qualcosa si apre in fondo a te. / Un po’ di tinta ti è caduta sulla spalla / come se la luce celasse un peso insospettato. / Sei convinta ti abbia attraversato il corpo. / Sei convinta di aver dato il tuo consenso / a questo, a quel che è stato fatto / della tua vita, spontaneamente».
L’esplorazione dell’esistenza non censura nulla, il mistero delle cose, poiché come Tess disse in un’intervista, rilasciata a Paolo Mastrolilli, su “La Repubblica” del 24 aprile 2014, «Quello che sappiamo è sempre molto più piccolo di quello che ci sfugge. Siamo assai più persi, nelle nostre vite che ritrovati».
Le viole di Tess Gallagher scombinano i recessi dell’anima, si schiudono, custodite, ai passaggi delle stagioni e cedono la loro invisibilità allo scintillare nomade dei ricordi: «Se dico «viole nere» la nostra prima notte / è quasi abbastanza buia da attrarre la pioggia diurna / allo scintillio nomade del ricordo e io posso / tornare lì, portando amore / all’amore nella stessa stanza dove il suo estremo cuore / ha ceduto la sua invisibile ambra. È vero, / lui è in me sempreverde e io ne faccio verde uso / per amarti a ritroso attraverso la morte / e di nuovo in vita […] le viole / di cui ci nutriamo a vicenda petalo dopo vellutato / petalo per far durare la notte abbastanza a lungo / perché questo cuore rinnovato si apra a noi nell’oscurità / di sangue / fin nella sua più remota stanza».
La luce che filtra i bui, sospende le assenze, distende l’oscurità per brillare. Il suo inseguimento è la carta dell’esistenza, l’accensione di un pianto brillo: «Adesso siamo come quel cono piatto di sabbia / nel giardino del Padiglione d’Argento a Kyoto / congegnato perché appaia solo alla luce della luna. / Vuoi che pianga? / Vuoi che vesta a lutto? / O che come la luce della luna sulla sabbia candida / usi la tua oscurità per brillare, baluginare? / Ecco, brillo. Ecco, piango».
Mantenere il segreto delle cose, la speranza d’amore che nasconde i momenti per tentare una celebrazione illeggibile, poiché «quest’isola / dove credevo di possedere la lingua / mi ha lasciato sola / e innocente come te o come quel tuo amico / che ti faceva copiare i suoi temi / fino a che le parole diventavano immagini / di posti dove non saresti mai andato. / E allora scusami / se tanta parte del poi / dipende da queste, dalle parole / che devono raggiungerti / fuori dalla pagina».
Altrove il racconto ad alta voce scivola nei giorni come immagini di memoria che viaggiano nel tempo, se ne appropriano e diventano tocco custodito: «Quando su di te si chiudeva la luce / ti dissi: «Dietro casa mia c’è un palazzo di montagne». / Volevo tu le vedessi, regali / nei loro scialli di neve sopra le case operaie / della città. Te le raccontavo come una mamma / spiega la morte al suo bambino, un posto / dove è possibile andare a stare lasciandosi gli altri / alle spalle, e gli sussurra «Tanto verranno tutti, a dopo», / così si rimane soli, ma solo per poco. / Te ne scivolavi via dai nostri giorni / come una maturità inversa, attaccato / tuttavia alla luce. Ogni volta che indovinavi la strada / di casa / grazie ai bordi, vedevo la mia immagine / liberarsi nelle strade della tua memoria, il mio viso / come quello di un viaggiatore nel tempo, per sempre / giovane / e ogni cosa che toccavi si faceva da parte».
E quell’amore non è andato via per sempre, non giace nemmeno nella memoria, ma rimane intatto il calore di un mondo, per poco, abbandonato, e lasciato in mano al buio della stanza, in cui il suo sterile fracasso «s’avvia al silenzio», nel «letto alto», dove «c’eravamo amati e in cui avevamo dormito, sposati / e non sposati».
L’immagine di Carver possiede il nitore del richiamo, il «dispetto stupendo / che fissa per sempre l’attimo e m’impedisce / di guardarmi indietro», la solitudine di un falò di veglia e di una luce assassina.
La morte non annulla, elimina la gestualità di ciò che vive, ma non riesce a interrompere la luce della vita, le sue ombre, le sue falci di luna, come una lettera scritta «al di fuori di qualunque morte»: «Stanotte la luna è bionda. / La sua luce sghemba si curva in dentro per ingannare / il buio. Ecco perché è lì, per porgermi / lo scialle bianco sferruzzato accanto a un fuoco che non c’è. / Quando me lo sistema sulle spalle / mi sento mettere delicatamente giù e fatta di nuovo dormire sulla terra» o ancora in questo passaggio di racconto, libero di appartenere: «In preda al flusso pulsante e crudo di un linguaggio di cui non avrei saputo render conto, vegliai per tutta quella lunga notte e parlai con mio padre come si potrebbe parlare con l’oceano o col vento. Attraverso quello sfilacciato accompagnamento gli feci sapere che i ritmi dell’immensità in cui stava per entrare avevano la loro eco anche in me. Che non doveva sentirsi abbandonato. Che stavo per lasciarlo andare».
Persino lo straniamento della sua narrativa è il campo epifanico di una scoperta particolare, di una trama sospesa che non sospende, di una annotazione che bisbiglia, di una vita qualsiasi che diventa particolare per un particolare, come scrive Carla Vissani, mettendo in rassegna la trama umana dei suoi racconti: «C’è il bisnonno sussurratore ai cavalli, un uomo zingaresco, sempre alticcio, che parlando a quadrupedi con criniera li riconduce alla ragione, domandoli. C’è un padre malato di tumore che crede che il gioco d’azzardo, e la vincita continua, la fortuna che lo assiste, sia un segnale per dirgli che la vita non è finita, che c’è ancora una speranza e più giocherà più respiri avrà nella canna del fucile del proprio percorso su questa terra. C’è una bambina che subisce una fascinazione pura e totale per gli occhiali da vista a tal punto da fingere di non vedere. Pur di inforcarne un paio trasforma la C in O e la H in B, solo perché quell’oggetto del desiderio le dona la sensazione di poter essere speciale e di poter intravedere-osservare-comprendere il mondo con una lente non comune […] C’è una donna che riannoda la memoria della sua giovinezza, gli anni più belli, e porta nel cuore un’amica indimenticabile, quella con cui usciva la sera, quella a cui sistemava i capelli per farla bella. Decide di farle visita, presa dall’entusiasmo […] e si ritrova a tu per tu con un’entità femminile confusa, provata da un ictus, che non la riconosce e le dice mi dispiace, non riesco a ricordarti e lei, sconvolta e mesta, le si stende accanto su un letto di memorie, le tiene la mano mentre la consolazione di un passato gioioso lascia spazio a un presente schiacciato dall’impossibilità di rivivere una spensieratezza genuina e irrecuperabile. Ci sono due vicini di casa, uno è un noto scrittore malato di cancro, che si scambiano gesti di gentilezza e umanità commoventi nella loro semplicità».
La semplicità gestuale e rituale diviene possibilità di rivisitazione, che evoca l’esterno imprevedibile, la chiamata di un tempo chiaro senza requie, come parole o poesie scritte sui baci, senza corpo, al mormorare dell’aria, fino al ventaglio dell’eco, allo iato di ceneri rosate e all’ anniversario di porte chiuse. Come un urlo dispiegato negli orli: «Anche tu vieni condotta via, un paio d’occhi / che indossano lo sguardo come un’armatura. / Tu assisti a tutto. Non devi soffrire / la vergogna fisica, gli indumenti / che ti vengono tolti, il tuo corpo / messo in piedi in mezzo ad altri corpi piangenti. In un modo o nell’altro, ne esci indenne. / Nell’orlo del cappotto ti cuci un urlo / da dispiegare poi in un paese libero».

 

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